Print Friendly, PDF & Email

chefare

Come il Neoliberalismo ha cambiato le città

Abitare in Italia e in Europa: un confronto

di Alessandro Coppola

La casa e quartieri, esiti e squilibri di un grande esperimento di neoliberalizzazione. Milano e l’Italia in un confronto europeo

gentrification 2 jacobin italia.jpgRicorre spesso in Italia una discussione sulla maggiore o minore pertinenza dell’uso della categoria del “neoliberalismo” nell’analisi della traiettoria delle politiche pubbliche degli ultimi trent’anni. Per alcuni c’è stato eccome, per altri si tratta invece di un inganno ideologico. Per i primi, le privatizzazioni, l’austerità, le esternalizzazioni di politiche e servizi pubblici sarebbero la riprova della pertinenza dell’uso di quel concetto. Per i secondi, il persistere di un livello elevato di spesa pubblica viceversa ne smentirebbe la pertinenza. Complessivamente, chi scrive concorda con chi – e sono molti, e autorevoli – pensa che il neoliberalismo non sia stato un progetto di mera de-statizzazione della società, bensì di profonda riarticolazione del ruolo dello stato, delle sue finalità come della sua strumentazione. E che quindi il permanere di una spesa pubblica elevata, o di un ruolo rilevante da parte dello stato, non siano di per sé dimostrazione della non pertinenza di quella categoria nell’analisi del caso italiano. Al di là di come ci si collochi in questa tenzone, è tuttavia possibile osservare come se c’è in Italia un ambito di politica pubblica dove si è potuta misurare una chiara ed inequivoca torsione neoliberale questo è la politica delle città, latamente intesa.

Tale torsione ha qui assunto una forma tradizionale di drastica riduzione del ruolo sia regolativo sia di intervento diretto dello stato e di contestuale apertura al mercato. A partire dagli anni 90, il trattamento pubblico di diversi oggetti che hanno a che fare con la vita delle città è stato ri-organizzato attorno al principio della preminenza dello scambio di mercato in una misura che, come vedremo, non ha sostanzialmente paragoni fra i paesi europei a noi più vicini.

Gran parte degli squilibri che sono oggi al centro dell’attenzione pubblica – dalla mancanza di un’offerta di abitazioni in affitto a livelli accessibili al fenomeno dell’overtourism, oppure della cosiddetta movida – hanno a che fare con ambiti di regolazione pubblica che sono stati per l’appunto de-regolati in quel frangente. Questo non significa sostenere vi sia un rapporto causale esclusivo ed unilineare fra determinati fenomeni e squilibri da una parte e determinate de-regolazioni dall’altra, significa sottolinearne la rilevanza specie nella prospettiva di una discussione pubblica informata. Dove in questi ultimi decenni il mercato urbano è stato particolarmente dinamico – ovvero un numero limitato grandi regioni urbane, città medie e di località turistiche – abbiamo misurato come in un grande esperimento quali possano essere gli effetti nel lungo periodo di de-regolazioni e liberalizzazioni profonde. Milano, da questo punto di vista, è un caso di grande interesse: la città ha attratto in questi anni investimenti immobiliari imponenti, anche in virtù del suo business climate decisamente propizio agli investimenti. Un clima radicato di certo in grandi cambiamenti legislativi nazionali, ma anche nelle letture particolarmente conseguenti che di questi cambiamenti sono state date a livello regionale e locale.

 

L’auto-incapacitazione degli attori pubblici

Quando, parlando della questione abitativa a Milano, si dice che “il comune non può far nulla” si afferma, in gran parte, il vero. Ma spesso si omette di dire che tale situazione di (quasi) impossibilità di intervento non è certo un fatto naturale, bensì discende da decisioni pubbliche che ai diversi livelli di governo hanno progressivamente fatto in modo che per l’appunto il comune potesse fare molto meno di quanto socialmente richiesto. A illustrazione di questo argomento, in questo testo vedremo quali sono gli strumenti di politica pubblica – regolazioni, pianificazioni, interventi diretti – che sono nelle disponibilità di un comune italiano per governare le trasformazioni dei quartieri urbani, rispetto ad una serie di altri casi europei. In particolare, guarderemo a quanto e come siano trasformabili i quartieri a Milano rispetto a quelli di altre città europee con le quali la classe dirigente della città generalmente si confronta – Parigi, Berlino, Vienna, Amsterdam e Barcellona – in relazione a una limitata serie di dimensioni regolative che condizionano potentemente il rapporto complesso, e decisivo per l’esercizio del diritto ad abitare, che esiste fra gli usi del patrimonio edilizio e la composizione sociale della popolazione di una data porzione di città.

Le trasformazioni dei quartieri sono regolate da un insieme vasto e complesso di norme messe in opera e amministrare dallo stato in tutte le sue articolazioni. E la natura, direzione e rapidità dei cambiamenti delle città come dei quartieri dipendono quindi anche, sebbene come ovvio non esclusivamente, da queste regolazioni e dalle loro evoluzioni. Queste ultime limitano o favoriscono, filtrano ed orientano il comportamento degli attori – promotori immobiliari, attori pubblici, famiglie e individui – definendo il cosa possono fare ed il come possono farlo. E definendo anche la natura e la forma del mercato, quale spazio complesso di interazione fra lo stato e gli attori privati. Come dicevamo, le dimensioni regolative che potremmo osservare sono tante, ma – dato il fuoco di questo contributo – guarderemo in particolare alle regolazioni del mercato dell’affitto ordinario, dei cosiddetti affitti brevi ed agli strumenti del governo spaziale – nel senso del riferirsi a contesti concreti, abitati da popolazioni concrete – della più complessiva dinamica del mercato immobiliare.

 

Il mercato dell’affitto ordinario

La prima dimensione regolativa rilevante è quella del mercato dell’affitto ordinario. In Europa, specie nelle aree urbane, sono diffuse forme di regolazione del livello e della dinamica dei canoni. Tali modelli esistono da decenni, oppure sono di più recente introduzione, a segnalare l’intervenire di una onda ri-regolativa a seguito di una fase invece prevalentemente de-regolativa. In Germania, il controllo dei canoni era incorporato nelle modalità stesse di regolazione della produzione privata di alloggi in affitto consolidatesi nel secondo dopoguerra. Tuttavia, una parte crescente del patrimonio residenziale in affitto è col tempo fuoriuscito dal regime che ne garantiva il calmieramento e questo ha determinato la necessità di nuovi interventi regolativi. Nel 2005 è stato introdotto il sistema del cosiddetto Mietpreisbremse, il quale prevede che gli aumenti dei canoni non possono essere maggiori del 10% rispetto alla media cittadina dei canoni in essere e del 15%, nel caso dell’attivazione di un nuovo contratto. Le ristrutturazioni permettono aumenti maggiori, ma pur sempre sulla base della valutazione delle migliorie apportate sulla base di una serie di criteri.

A questi interventi federali si sono poi aggiunti interventi dei singoli stati. Nel 2020, a Berlino era stata introdotta, a ulteriore rafforzamento delle norme federali, una norma – il cosiddetto Mietendeckel, poi decaduto – che stabiliva un tetto obbligatorio agli affitti differenziato per quartieri. In Francia, in una varietà di aree metropolitane individuate sulla base di criteri relativi alla condizione di minore o maggiore tensione del mercato abitativo, vige un sistema di inquadramento e quindi di calmieramento dei canoni residenziali. Il livello dei canoni di riferimento è stabilito annualmente dai prefetti con l’individuazione di livelli minimi e massimi articolati per sub-zone. Questi valori medi – stabiliti sulla base della valutazione di un osservatorio partecipato da istituzioni e parti sociali – possono conoscere una oscillazione verso l’alto di non oltre il 30% verso il basso di non oltre il 20% verso l’alto, in relazione a criteri quali l’anno di costruzione, le dimensioni dell’alloggio ed altre caratteristiche qualitative degli alloggi. Nel caso di coabitazioni – fattispecie non solo diffusa, ma anche in crescita in qualsiasi città europea – in alloggi sui quali quindi insiste una varietà di contratti il canone totale non può comunque eccedere i valori massimi consentiti per l’intero immobile. Pur non potendo trattarne estesamente qui, sistemi di inquadramento dei canoni vigono da tempo anche ad Amsterdam e Barcellona, sia ad esito di norme nazionali sia di norme regionali e locali.

Viceversa, in Italia, dal 1998 la definizione del livello dei canoni nel patrimonio privato – la larga maggioranza a Milano, diversamente da diverse delle città citate dove il patrimonio di edilizia sociale è più consistente – è completamente libera e indipendente da qualsiasi valutazione qualitativa. Il loro calmieramento è affidato esclusivamente a dispositivi esortativi e di incentivazione fiscale attraverso l’istituto – molto marginale a Milano, il 5% dei contratti in essere, sebbene in crescita – del cosiddetto canone concordato. Cosa comporta questa vistosa divergenza del caso milanese rispetto a quanto accade nelle altre città citate? Comporta essenzialmente che allo scadere dei contratti in essere i proprietari non hanno alcun vincolo riguardo il livello del canone del nuovo contratto, sia che questo sia proposto all’inquilino in essere sia che sia proposto ad un nuovo inquilino. Virtualmente, l’intero stock di abitazioni di proprietà privata in affitto di un intero quartiere – e quindi dell’intera città – può quindi conoscere una rivalutazione che non incontri alcun limite se non la disponibilità (non necessariamente la capacità effettiva) di chi cerca casa a pagare la cifra fissata. L’assenza di norme di inquadramento degli affitti rende poi possibile l’aumento dei canoni attraverso pratiche di ristrutturazione e frazionamento di fatto degli alloggi – fenomeno in evidente crescita a Milano – con l’offerta in affitto di singole stanze a prezzi inflazionati, pratica che in tutti i casi citati sarebbe interdetta perché farebbe superare all’immobile il tetto massimo stabilito. In questo ambito di regolazione, Milano e l’Italia costituiscono quindi un’eccezione radicale, la cui divergenza rispetto al resto d’Europa è andata allargandosi in tempi recenti.

 

La (non) regolazione degli affitti brevi e dei loro impatti

La non regolazione dell’offerta di affitti brevi – seconda dimensione regolativa che esamineremo – si spiega ampiamente con la più complessiva scarsità di regolazioni riguardo il mercato dell’affitto (si veda su questo tema il contributo di Francesca Artioli, proprio sulle pagine di cheFare). Come ormai stabilito, la diffusione degli affitti brevi contribuisce alla riduzione dell’offerta in affitto a lungo termine ed alla loro rivalutazione, concentrando tali effetti in aree residenziali ancora socialmente composite nei confronti delle quali si concentrano le aspettative del turismo esperienziale. Che sia attraverso regolazioni di natura locale – che talvolta hanno implicato conflitti di ordine costituzionale – o di natura sovra-ordinata, in tutte le maggiori città europee vi sono forme di limitazione più o meno severa dell’offerta di affitti brevi. Ad Amsterdam, dal 2019, solo gli immobili che sono residenza principale di chi ne ha la proprietà possono essere affittati, ma per non più di 30 giorni. Un immobile nel quale il suo proprietario non sia residente – ovvero una “seconda casa” – invece non può essere affittato a breve e deve essere obbligatoriamente affittato a lungo termine. L’amministrazione della città aveva anche introdotto un sistema di azzonamento che escludeva le zone a maggiore presenza di offerta turistica dalla possibilità di nuova offerta di affitto breve, tuttavia questa norma è decaduta.

A Barcellona, a partire dal 2017, è entrato in vigore un nuovo strumento, il Piano urbanistico speciale degli alloggi turistici (PEUAT), volto a regolare anche il mercato degli affitti brevi, prevedendo la suddivisione del territorio della città in quattro zone: una zona nella quale si persegue l’obiettivo di una diminuzione dell’offerta turistica nel suo complesso e quindi non si concedono più licenze, una zona dove l’offerta deve essere mantenuta pressoché ai livelli attuali e quindi nuove licenze sono concesse solo se sostitutive di quelle decadute, un’area periferica in cui l’offerta può crescere ed infine un’area dove l’offerta può crescere solo in seguito ad una valutazione pubblica effettuata sulla base di una varietà di criteri. A Parigi, l’affitto breve della residenza principale è permesso, con obbligo di registrazione, fino a una soglia massima di 120 notti totali all’anno. Proprietari che invece volessero mettere in affitto breve degli immobili nei quali non risiedono devono richiedere un cambiamento di destinazione d’uso all’amministrazione, mettendo allo stesso tempo a disposizione un alloggio di pari o maggiori dimensioni per l’affitto a lungo termine oppure versare al comune una tassa a compensazione della mancata offerta. Tale norma diviene ancora più stringente nel caso di quartieri caratterizzati da una forte incidenza di affitti turistici sul totale degli alloggi, con l’obbligo per chi offre un metro quadro in affitto breve di offrirne almeno tre in affitto a lungo termine. Come si può vedere, le norme in essere nelle città citate puntano a ricondurre l’uso dell’affitto breve ad una pratica di coabitazione temporanea in un immobile di residenza, contingentando l’uso di alloggi a fini esclusivamente turistici oppure sostanzialmente vietandolo. Questo muove da riconoscimento di una chiara precedenza all’uso residenziale del patrimonio nel quadro di un mercato dell’affitto che, come abbiamo visto, è di per sé molto più regolato.

Come noto, tornando in Italia, non esiste alcuna limitazione alla possibilità di immettere un immobile, sia di residenza principale sia di residenza secondaria, sul mercato dell’affitto turistico. Le sole previsioni di legge riguardano infatti un obbligo di registrazione – mai effettivamente attuato – ed il pagamento delle imposte, senza peraltro differenze fiscali con l’uso ordinario a lungo termine. Cosa comporta, concretamente, la completa assenza di regolazioni anche remotamente paragonabili a quelle illustrate in riferimento ad altre città europee? Che, di nuovo, virtualmente, non solo l’intero patrimonio privato in affitto di un quartiere può – come richiamato sopra – essere pienamente rivalutato ai livelli di mercato, ma anche che questo medesimo patrimonio può essere interamente ritirato dal mercato dell’affitto ordinario per essere immesso in quello dell’affitto breve.

L’ascesa imponente dei numeri del patrimonio in affitto breve a Milano come in altre città italiane appare ormai in controtendenza rispetto ad altre città europee, dove l’offerta si è ormai stabilizzata oppure risulta in contrazione. A Milano, come altrove in Italia, si sta assistendo viceversa ad una migrazione massiva dei proprietari verso l’affitto breve in un contesto nel quale l’offerta complessiva in affitto è molto più limitata che in molte città europee (si sta contraendo quindi un’offerta già scarsa). Se quindi la prima ondata di neo-liberalizzazione ha liberalizzato i canoni e contribuito alla riduzione dell’offerta in affitto attraverso l’alienazione del patrimonio residenziale pubblico e l’incentivazione alla residenza in proprietà, la seconda – guidata dalle innovazioni dell’economia di piattaforma e l’assenza di interventi regolativi – fa migrare questo patrimonio già scarso verso una forma di affitto diversa da quella residenziale.

 

Il governo delle trasformazioni dei quartieri

Un ultimo aspetto rilevante ha a che fare con l’attivo riconoscimento da parte delle politiche e della pianificazione urbane dell’esistenza di un oggetto definibile quale quartiere urbano, caratterizzato da una specifica composizione sociale la cui relazione con la dinamica immobiliare costituisce di per sé un oggetto di intervento pubblico. Nelle politiche urbane di molte città europee tale riconoscimento è un fatto strutturale, ed il territorio urbano non è considerato come uno spazio isomorfo al quale possano applicarsi le stesse regole e in riferimento al quale le politiche pubbliche possano perseguire gli stessi obiettivi. In particolare, da tale riconoscimento discende la presenza di regolazioni e strumenti – che includono anche l’intervento diretto dello stato, anche nella forma del comune, quale attore immobiliare – che hanno come fine quello di correggere gli effetti di quella che sarebbe la dinamica spontanea del mercato immobiliare in determinati quartieri, essenzialmente quelli nei quali i processi di valorizzazione conducano a processi consistenti e rapidi di espulsione (il cosiddetto displacement) e di chiusura all’arrivo di nuovi abitanti appartenenti a determinati gruppi sociali (essenzialmente i medesimi a rischio di displacement).

A Parigi esiste una politica di lungo periodo di acquisizione pubblica di patrimonio privato nell’insieme della città ma con una cogenza di particolare intensità in alcuni quartieri. Fra i diversi strumenti, le cosiddette Operazioni Programmate per il Miglioramento dell’abitare (OPAH) e le Operazioni di miglioramento dell’abitare degradato (OAHD) permettono all’amministrazione comunale di esercitare un diritto di prelazione per l’acquisto di immobili o di esproprio di immobili da destinare ad alloggi sociali. L’amministrazione di Berlino, come quelle di altre città tedesche, individua dei quartieri nei quali vigono alcune norme particolari sull’uso, la cessione e la trasformazione del patrimonio al fine di proteggerne la composizione sociale esistente. Nelle aree interessate da questo dispositivo – il cosiddetto milieux protection – i comuni possono limitare il diritto dei proprietari a vendere gli alloggi ritirandoli così dall’offerta in affitto oppure a ristrutturarli a livelli che implicherebbero un forte aumento dei canoni, sebbene inquadrati dalle norme citati in precedenza. Inoltre, anche in questo caso, il comune dispone entro questi perimetri di un diritto di prelazione sugli immobili messi in vendita.

A Vienna, dagli anni Settanta dello scorso secolo, l’amministrazione eroga ai proprietari entro perimetri definiti incentivi alle ristrutturazioni, i quali non possono però alzare il canone d’affitto né vendere il proprio immobile per un periodo di 15 anni. Infine, a Barcellona, nel caso di nuovi progetti immobiliari – ristrutturazioni profonde incluse – con una superficie utile superiore ai 600 mq, il 30% della superficie deve essere destinato ad alloggi sociali acquisiti dal comune in virtù anche in questo caso di un diritto di prelazione. Nel caso di Milano, nella pianificazione come nelle più complessive politiche urbane non esistono perimetrazioni entro le quali si applichino norme che limitano e orientano i comportamenti dei privati o rendano possibile un intervento diretto del comune quale attore immobiliare.

Che cosa comporta concretamente l’assenza di un riconoscimento attivo dell’esistenza dei quartieri urbani per come l’abbiamo inteso fino ad ora, e quindi di strumenti e regolazioni che lo mettano in opera? Prima di tutto, che anche in aree in cui si manifesti un forte e rapido processo di valorizzazione che comporta concreti rischi di espulsione/chiusura all’arrivo di determinati gruppi sociali non vi è alcuna capacità di mitigazione di tali processi da parte dell’attore pubblico: nessuna possibilità di limitare la contrazione dell’offerta in affitto a favore della proprietà o di limitare l’aumento degli affitti, nemmeno nel caso in cui queste siano esito di ristrutturazioni realizzate con trasferimenti pubblici. In quartieri già densi quali quelli della cosiddetta “semi-periferia, anche in relazione al governo delle caratteristiche della nuova produzione edilizia la capacità d’intervento del comune è sostanzialmente nulla: l’obbligo di quote di Edilizia Residenziale Sociale (ERS) è attualmente previsto solo nel caso di trasformazioni oltre i 10.000 metri quadri complessivi (nella discussione relativa alla revisione in corso del Piano di Governo del Territorio in diversi hanno proposto l’abbassamento di tale soglia).

 

Fattori, squilibri di e vie di uscita da un grande esperimento

Potremmo discutere nella stessa rapida prospettiva comparativa altre dimensioni regolative che sono senza dubbio importanti per capire le condizioni di trasformazione dei quartieri urbani. La regolazione del commercio locale è, ad esempio, di grande rilevanza ed anche questa ha conosciuto in Italia – e in particolare a Milano e in Lombardia – una profonda liberalizzazione con effetti evidenti sulle trasformazioni dei quartieri (la famosa movida quale fenomeno di forte concentrazione spaziale della vita notturna è, in parte probabilmente significativa, esito della liberalizzazione del commercio). Anche quella del governo delle funzioni che il patrimonio edilizio ospita è una dimensione regolativa importante, ed anche in questo caso Milano rappresenta un caso di intensa neo-liberalizzazione con l’introduzione del principio di cosiddetta “indifferenza funzionale” nella pianificazione urbanistica che rende molto agevoli cambiamenti di funzioni nel patrimonio esistente (e non solo) laddove esista un attore di mercato intenzionato a promuoverli.

La discussione potrebbe quindi ampliarsi, ma ciò che preme sottolineare in questa conclusione è l’eccezionalità del processo di neoliberalizzazione che hanno conosciuto le città Italiane – e Milano in particolare – nel quadro dei casi europei che abbiamo rapidamente presentato (e che pure sono stati criticamente esaminati quali altrettanti casi di neo-liberalizzazione delle politiche urbane e abitative e, sebbene in forme diverse, di rinnovata “crisi abitativa”). Facendo esercizio di immaginazione sociologica, possiamo ipotizzare i fattori che hanno permesso un esito così radicale. Non solo la storica ma crescente centralità dell’istituto della proprietà immobiliare diffusa nel nostro sistema sociale, ma forse anche l’accrescersi, in un quadro di perdurante stagnazione economica e di crisi profonda della mobilità sociale, di una pressante richiesta sociale di liberalizzazione e massimizzazione di ogni forma di estrazione di rendita. Che questa derivasse dagli immobili residenziali urbani, da quelli commerciali e dal suolo pubblico di pertinenza oppure dalle spiagge, l’allargamento e massimizzazione delle rendite realizzabili è stata un forte richiesta dei gruppi sociali centrali e superiori (ma che si è dimostrata egemonica anche nei confronti dei ceti inferiori, per i quali è decisamente più improbabile accedervi e viceversa molto più probabile subirne le esternalità).

Egualmente, il peso crescente e prevalente dei processi di patrimonializzazione nel destino degli individui e delle classi sociali ha probabilmente contribuito potentemente a tale consenso. Infine, la trasformazione dei modelli di accumulazione urbana – in direzione di consumi culturali e turismo – ha rappresentato un’opportunità straordinaria per queste strategie (anche per legittimarle più ampiamente) anche perché sembravano – e tutt’ora sembrano – gli unici possibili in un paese in contrazione.

Tutto questo ha fatto sì che nei decenni si sia così perfettamente naturalizzata nel discorso pubblico italiano l’idea che la proprietà di un immobile urbano coincida con un diritto ad una sua totale disponibilità e non con un insieme di diritti e responsabilità nel quadro di un mercato sociale regolato e temperato da obiettivi collettivi. Il diffuso sostegno politico a tale discorso ha fatto in modo che, progressivamente, il campo degli strumenti nelle disponibilità degli attori pubblici – e in particolare dei comuni – nella regolazione e nell’orientamento delle dinamiche di mercato si desertificasse, socializzando l’opinione pubblica all’idea che le trasformazioni urbane guidate dal mercato fossero l’unica strada possibile, una strada per l’appunto naturale. Ora gli squilibri di questo modello iniziano ad essere percepibili non solo (come è sempre stato) per i gruppi sociali più deboli – famiglie a basso reddito, individui vulnerabili, migranti – ma anche per una parte della composizione sociale che ha per anni sostenuto più o meno attivamente il consenso di questo grande esperimento. E si fanno sentire in particolare a Milano dove la contraddizione fra estrazione sregolata della rendita e la domanda di lavoro che discende da impieghi più produttivi del capitale raggiunge probabilmente il suo massimo. Una stagione di ri-regolazione appare oggi non solo augurabile, ma anche forse più probabile di qualche tempo fa.


Nota: Questo testo deriva da ricerche dell’autore e in misura significativa da quanto emerso in un ciclo di incontri organizzato dal comitato Abitare in Via Padova nel 2023. In particolare, si rimanda agli interventi di Francesca Artioli, Federico Savini, Constanze Wolfgring, Alice Sotgia e Iolanda Bianchi. I video degli incontri sono visibili a questo indirizzo: https://abitareinviapadova.org/milano-si-puo-fare-2/. Una raccolta di quanto emerso nella forma di un opuscolo è invece scaricabile a questo indirizzo. Si rimanda anche al volume che raccoglie i testi di Sandra Annunziata, “Oltre la gentrification. Letture di urbanistica critica tra desiderio e resistenze urbane”, Edit Press, 2023, per approfondimenti teorici e pratici.

Alessandro Coppola insegna urbanistica al Politecnico di Milano. Si è occupato e si occupa di politica e politiche…

Add comment

Submit