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“La guerra e l’oligarchia finanziaria”

Recensione del saggio di Federico Fioranelli

di Ascanio Bernardeschi

Le contraddizioni del modo di produzione capitalistico rendono necessario l’intervento dello Stato, ma le classi dominanti preferiscono la spesa pubblica per la guerra a quella sociale. Nella fase monopolistica del capitalismo si ha l’intreccio fra industria e finanza e la trasformazione delle economie dei paesi occidentali in parassitari e usurai, sorretti dalla potenza militare

9788869247033.jpgFederico Fioranelli è un giovane docente di economia politica, autore di diversi articoli e saggi sia di teoria economica che di analisi delle concrete economie, facente parte del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.

A fine 2023 ha pubblicato per le edizioni Simple di Macerata il libro La guerra e l’oligarchia finanziaria, che è un’analisi dell’economia di guerra nell’attuale fase di finanziarizzazione dell’economia, un agile volumetto di 94 pagine, inclusa la ricca bibliografia, dalla lettura molto scorrevole.

La tesi da cui parte questo lavoro è che non è stata tanto la spesa civile ma quella militare, in particolare quella degli Usa, che ha consentito di sostenere, tramite il moltiplicatore keynesiano, la domanda e quindi di scongiurare per alcuni decenni la recessione. Questa tesi è sostenuta dopo un excursus essenziale ma illuminante della storia economica degli Usa, mettendo in fila una serie di dati statistici assai utili, che evidenziano la stretta correlazione fra spesa militare e crescita economica.

Fioranelli ci fornisce anche una spiegazione della preferenza per la spesa militare su quella civile, che pure sarebbe ugualmente in grado di attivare il moltiplicatore. Tale preferenza non sta solo nelle ragioni geostrategiche e nella natura imperialistica degli States, ma esiste anche una spiegazione più strettamente economica: mentre la spesa civile sottrae spazio al settore privato, quindi ai profitti, quella militare, attivando le imprese private del comparto, non presenta questo inconveniente. Inoltre la militarizzazione produce “un rispetto cieco per l’autorità” e “una condotta di conformismo e di sottomissione” che rassicura l’oligarchia finanziaria riguardo alla “sua autorità morale” e alla “sua posizione materiale” (p. 50). Ciò spiega perché, dopo la grande crisi del ’29-30, il new deal di Roosevelt abbia incontrato forti resistenze da parte delle classi dominanti e in ragione di ciò sia stato attuato in forma timida e contraddittoria, non producendo i risultati sperati, risultati ottenuti pienamente invece con la corsa agli armamenti a partire dal 1940.

A questa spiegazione se ne potrebbe aggiungere un’altra utilizzando un noto contributo del 1943 dell’economista polacco Michal Kalecki1. Egli sostenne che il pieno impiego e la sicurezza sociale sono fortemente osteggiati dai capitalisti perché liberano i lavoratori dal ricatto occupazionale, mentre la disoccupazione favorisce il loro disciplinamento. Anche la spesa militare muove l’economia verso il pieno impiego ma non sottrae i lavoratori al ricatto occupazionale, non essendo orientata a fornire loro sicurezza sociale (sussidi di disoccupazione, pensioni, servizi) e inoltre, come ha evidenziato Fioranelli, è funzionale alla guerra che è un ottimo strumento di disciplinamento sociale; ma sulla differenza fra spesa civile e militare torneremo alla fine, dopo aver affrontato un nodo teorico.

Sta di fatto, sostiene Fioranelli, che anche dopo la Seconda guerra mondiale la spesa militare è stata in grado di assorbire il sovrappiù e nel contempo l’intervento militare degli Stati Uniti in tanti angoli del globo l’ha in qualche modo giustificata. All’affermazione di Fioranelli si potrebbe aggiungere che gli Usa, per il ruolo esercitato dal dollaro negli scambi internazionali e come moneta di riserva delle banche centrali, hanno potuto importare stampando moneta e svolgere così la funzione, per molti decenni e in parte tuttora, di assorbire non solo la sovrapproduzione domestica, ma in gran parte anche quella mondiale. La spesa militare ha contribuito enormemente a questa funzione sia direttamente, attraverso le importazioni di ciò che necessita al comparto militare, sia indirettamente in quanto il forte orientamento del sistema economico verso la produzione di armi ha distolto notevoli quantità di mezzi di produzione e di forza-lavoro dai comparti civili, rendendo con ciò indispensabile l’importazione di altre merci.

Questa scelta verso gli armamenti e non verso la spesa civile va chiaramente contro il benessere collettivo, ma, per dirla con Marx, per il capitale non sono i valori d’uso che contano bensì il plusvalore. La soddisfazione dei bisogni conta solo se è il mezzo per accumulare profitti che sono l’unico movente della produzione, l’unico vero bisogno del capitale. Lo Stato sceglie fra i suddetti due bisogni quello eticamente meno raccomandabile, perché è fortemente legato agli interessi capitalistici e quindi entra a far parte del complesso militare industriale. A questo punto Fioranelli sviluppa un interessante ragionamento sull’intreccio fra oligarchia finanziaria e Stato, fatto di “porte girevoli” che vedono personaggi della finanza alternarsi fra impegno nel comparto pubblico e quello nelle imprese.

La trattazione giunge a entrare nel merito dell’attuale guerra in Ucraina e dei suoi scopi di carattere economico e geostrategico: “indebolire economicamente e militarmente la Russia, conquistare l’Unione Europea come mercato di sbocco per le corporation americane e giustificare le crescenti spese militari” (p. 63). Sarebbe bene considerare anche, aggiungo io, l’obiettivo di impedire la formazione di un blocco economico euroasiatico, potenzialmente in grado di sovrastare gli Usa e contrastare la crescita del ruolo dell’euro quale valuta competitor del dollaro, senza trascurare lo sguardo verso la potenza che maggiormente insidia l’egemonia Usa, la Cina.

Dopo aver analizzato, sempre a partire da utili dati statistici, la spesa militare nelle varie parti del mondo, evidenziando il preponderante peso di quella statunitense sia in termini assoluti che – ove si escludano i casi del tutto particolari del Qatar e di Israele – pro capite, l’Autore spiega lo stretto rapporto fra spesa militare e andamento del Pil negli Usa con le contraddizioni del capitalismo “le quali risiedono principalmente nell’insufficienza della domanda e quindi nel sottoconsumo” (p. 69). A questa contraddizione del capitalismo in generale, egli aggiunge le difficoltà specifiche “del capitalismo oligopolista ad assorbire il sovrappiù complessivo” non in grado di “creare tutti gli sbocchi di consumo e di investimento necessari” allo scopo (ivi).

Non mancano nel lavoro di Fioranelli accenni ai contributi – che giustamente considera anticipatori di Keynes – di Hilferding, di Luxemburg e di Lenin nell’analizzare il ruolo della spesa militare. Peccato che, nello spazio di un breve trattato, non abbia potuto soffermarsi sulle non trascurabili differenze di approccio fra questi tre marxisti.

Fioranelli non manca tuttavia di riferire l’analisi di Hilferding del capitalismo finanziario, caratterizzato dall’intreccio fra grandi istituti bancari e grandi gruppi industriali, e quello successivo di Lenin, il quale prendendo le mosse anche da quel contributo, giunge alla conclusione che l’imperialismo costituisca lo stadio monopolistico del capitalismo in cui avviene una sorta di simbiosi fra Stato e monopoli, con il primo che si fa portatore degli interessi delle oligarchie finanziarie.

Infine il saggio si sofferma sull’esportazione di capitali che determina una sorta di divisione internazionale del lavoro, con i paesi forti che, avendo accumulato giganteschi capitali, divengono parassitari e vivono prestando a usura ai paesi meno progrediti.

Riportate per sommi capi e in maniera certamente lacunosa le tesi principali dell’Autore, mi preme discutere su un nodo teorico che mi vede in posizione critica di alcuni passaggi, seppure nel contesto di una collocazione simpatetica verso l’insieme del saggio. Fioranelli, esplicitamente “costruisce” l’analisi “attorno al concetto di sovrappiù” (p. 9) al pari di alcuni marxisti quali Sweezy e Baran. Il concetto è mutuato dall’opera principale di Piero Sraffa2; il passaggio dalla categoria di plusvalore a quella di sovrappiù è ritenuto necessario, anche in alcuni ambiti marxisti, a causa della presunta incoerenza del metodo marxiano di trasformazione dei valori in prezzi di produzione, che avrebbe imposto di accantonare la teoria del valore basata sulla quantità di lavoro per virare verso una basata sulle quantità di mezzi di produzione e di prodotto. Il sovrappiù costituisce appunto l’eccedenza delle merci prodotte rispetto alle merci costituenti i mezzi di produzione e quelli di consumo dei lavoratori, mentre il plusvalore costituisce l’eccedenza di lavoro contenuto nel prodotto rispetto a quello speso direttamente e indirettamente nella sua produzione.

Ricerche successive, corroborate anche dalla relativamente recente edizione critica delle opere di Marx e di Engels (Mega2) hanno sviluppato un’interpretazione della teoria di Marx che si sottrarrebbe a quelle accuse di incoerenza. Il campo della discussione è aperto e vi sono notevoli differenze di impostazione fra i vari studiosi marxisti e quindi non è mia pretesa affermare la superiorità della tesi a cui aderisco. Resta il fatto però che l’assumere l’impostazione del sovrappiù ha conseguenze non trascurabili anche nell’analisi dell’oggetto di questo saggio. Infatti è stato dimostrato3 che, nel contesto del modello sraffiano basato sul sovrappiù, le innovazioni tecnologiche non possono comportare la caduta del saggio generale del profitto ma solo la sua crescita.

Se invece si assume come una legge di movimento del modo di produzione capitalistico quella della caduta tendenziale del saggio del profitto che consegue alle innovazioni tecnologiche, e con ciò alle modificazioni della composizione del capitale, la carenza di domanda e il sottoconsumo non costituiscono più la contraddizione principale di questo modo di produzione, ma essa si affianca, senza superarla per importanza, a quella provocata da questa legge a causa del peso crescente del capitale costante in confronto alla forza-lavoro impiegata.

Con ciò il problema dello sbocco della produzione di merci si accompagna a quello della sovrapproduzione di capitale e si può rintracciare un motivo in più della resistenza delle classi padronali all’aumento della spesa pubblica sociale e alla preferenza per quella militare. La spesa sociale, in quanto salario indiretto (servizi) o differito (pensioni) fa parte del costo sistemico del lavoro e quindi deprime i profitti, mentre il costo degli armamenti va a totale appannaggio dei capitalisti, costituisce una fonte di profitto. Quindi da un lato tale la spesa nel welfare risolverebbe il problema della carenza di domanda, ma dall’altro aggraverebbe la tendenza alla diminuzione dei profitti. Inoltre la spesa militare, in quanto accompagnata a guerre di maggiore o minore intensità, ha comportato la distruzione di capitali, attenuando la tendenza all’aumento della loro composizione organica.

La lotta feroce fra grandi gruppi monopolisti per ovviare alla caduta dei profitti, estendendosi su base sovranazionale e con la partecipazione degli Stati, determina inoltre squilibri che sono fonte di conflitti sia di carattere economico – si vedano le sanzioni e le politiche protezioniste – che militare.

Queste mie considerazioni non fanno altro che integrare le già valide ragioni illustrate dall’Autore dell’impronta militaristica della politica economica, senza venire meno l’opinione che questo lavoro sia utile e che, anche per la sua piana scrittura, se ne debba raccomandare la lettura ai militanti comunisti.


Note:
1 M. Kalecki, Political Aspects of Full Employment, in «Political Quartely», vol. 14, n. 4, ottobre 1943, riproposta anche da «Monthley Review» in una raccolta di scritti di Kalecki, The last Phase in The Transformation of Capitalism, New York, 1972.
2 P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci. Premessa a una critica della teoria economica, Einaudi, Torino, 1969.
3 N. Okishio, Technical Change and the Rate of Profit, Kobe University Economic Review, 7, 1961.
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Comments

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1
AlsOb
Saturday, 29 June 2024 18:03
Prendendo arbitrariamente a pretesto il commento sul libro, sorge un appunto in merito al riferimento a Sraffa, articolato secondo un abbastanza consueto atteggiamento, come dire, di sentimento di perplessità e complesso di inferiorità, che non dovrebbe sussistere.
Non solo il concetto di surplus è antecedente a Sraffa, ma il suo denso “libretto” a caratteri, didascalici riduzionisti, essenzialmente logico algebrici, non pone alcuna difficoltà per Marx e l’analisi marxiana, nonostante la frequente strumentalizzazione della cosiddetta trasformazione.
Men che mai è significativo, se non per addizionale ultrariduzionismo astratto algebrico il teorema di Okishio, per l’appunto un teorema, molto limitato e sostanzialmente privo di realismo storico.
La questione della tendenza del tasso di profitto in Marx, a prescindere da tutti gli Sraffa e Okishio, appare inequivocabile solo in termini esoterici, abbastanza fattuale in termini essoterici, (monetaristici), per una economia capitalistica in crescita, con incrementi del tasso di salario rispetto al tasso di profitto e progresso tecnologico prevalentemente neutrale.
Sebbene nella pratica vi siano limiti di tollerabilità, un progresso tecnico capital saving potrebbe in alcuni momenti difendere il tasso di profitto e mantenerlo stabile.
Il problema politico e storico, per quello che si è visto con la violenta imposizione del paradigma fascista neoliberale, è che la classe dominante neppure ha più accettato accumulazione e tasso del salario in crescita, (visti come una concessione forzata per ragioni di paura), vuole schiavismo e neofeudalesimo in nazi regime.
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