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Alti tassi esentasse

di Ascanio Bernardeschi

1024px northeast portland homeless camp tentsL’aumento dei tassi di interesse non è una misura tecnica ma uno strumento politico della lotta di classe per arricchire le banche a scapito dell’economia reale e delle condizioni dei lavoratori. In un Paese in cui non esiste più l’edilizia residenziale pubblica e la mitigazione dei canoni di affitto, anche la questione abitativa viene aggravata con il rischio di mettere sul lastrico i lavoratori che con fatica avevano acquistato la casa.

L’inasprimento dei tassi di interesse praticato sia dalla Federal Reserve negli Stati Uniti che dalla Banca Centrale Europea (Bce) doveva essere funzionale, almeno secondo le motivazioni ufficiali, a contrastare l’inflazione. È noto però che il ricorso a questo strumento, che tende a raffreddare un’economia surriscaldata, è giustificato se l’inflazione è provocata da un eccesso di domanda rispetto all’offerta. Ma nel nostro caso l’inflazione non è determinata dalla troppa euforia dei mercati. Tutt’altro. Durante la fase acuta della pandemia le chiusure avevano determinato colli di bottiglia disorganizzando la produzione, grazie anche alla configurazione frammentata delle filiere produttive. Per quanto riguarda l’Europa, inoltre, si assiste a un inasprimento dei costi quale conseguenza della guerra in Ucraina e delle sanzioni alla Russia che privano il nostro sistema produttivo della possibilità di importare a basso costo materie prime e prodotti energetici dalla Russia. Incide inoltre la speculazione sui futures del petrolio, che assurdamente determinano i prezzi degli energetici. In simili casi l’innalzamento dei tassi certamente riduce la domanda, la quale, viste le difficoltà produttive, viene soddisfatta in buona parte dalle importazioni, e con ciò tende anche a migliorare i conti con l’estero, avendo così un effetto sull’inflazione ma questo beneficio è molto inferiore al danno che si provoca all’apparato produttivo.

Sarebbero state necessarie altre misure di contenimento dei costi e di riorganizzazione produttiva, oltre che naturalmente uscire dalla logica della guerra economica e della guerra militare alla Russia. Ma questo tipo di politica è incompatibile con le regole sacre dell’Unione Europea e con gli interessi dei grandi gruppi finanziari.

Infatti siamo di fronte a un’economia fortemente finanziarizzata in cui pochissime concentrazioni monopolistiche dirigono la destinazione dei risparmi verso le imprese e beneficiano degli alti tassi che praticano.

Da qui anche la forte resistenza alla diminuzione dei tassi quando l’inflazione è tornata a un livello non molto distante dalla normalità, dopo un calo che ha superato perfino le attese. Il pretesto a ritardare il taglio dei tassi è fornito dalle temute spinte inflazionistiche potenziali, dai grossi deficit fiscali (che però gli alti tassi aggravano), dall’aumento delle spese militari e, per usare un eufemismo, dalla complessità della situazione geopolitica. Ecco perché il presidente della Federal Reserve, ha annunciato che i tassi di interesse americani si manterranno alti e c’è da ritenere che come al solito la Bce seguirà a ruota.

C’è poi un altro elemento meno sbandierato. Gli Stati Uniti sono fortemente indebitati con l’estero e per finanziare i loro deficit di bilancio hanno bisogno di drenare risparmi da tutto il mondo. Devono quindi offrire maggiori interessi ai creditori. Inoltre devono difendere il predominio mondiale del dollaro, messo in discussione dal nuovo quadro geopolitico e possono farlo in una certa misura se offrono alti tassi di interesse. Lo stesso sostegno alla guerra in Ucraina a cui ha costretto anche i governi europei, nonostante i danni che l’Europa sta subendo da questa suicida guerra economica e militare, e la previsione dell’ingresso di quel paese nella Nato si spiegano con questa necessità, per quanto, per l’eterogenesi dei fini, gli States potrebbero ottenere il risultato opposto.

Gli interessi che vengono percepiti dai gruppi creditori non sgorgano dal nulla ma costituiscono un prelievo di parte del plusvalore creato nei comparti produttivi e l’innalzamento dei tassi determina, non solo lo scoraggiamento a investire, visto il costo dell’approvvigionamento finanziario necessario all’investimento, ma anche una forte elemento di selezione delle imprese: quelle più indebitate o marginali non ce la fanno a sopravvivere, chiudono i battenti e si determina un’accelerazione del processo di centralizzazione dei capitali. I colossi bancari Usa, per esempio, hanno registrato buoni utili. Basti citare l’indice Standard & Poor’s 500, considerato il migliore indicatore delle azioni delle 500 maggiori società quotate in borsa (prevalentemente finanziarie) negli Stati Uniti, il quale prevede un aumento dei profitti di queste imprese di quasi il 9% nel primo semestre di quest’anno. Ma i tassi alti hanno creato i primi problemi al sistema produttivo, nonostante la forte impronta protezionistica del governo statunitense e gli aiuti alle imprese (“inflation reduction act”) che stanno mandano fuori mercato quelle europee. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Quella che era la “locomotiva tedesca” è in recessione da diverso tempo. Secondo un rapporto dell’agenzia Creditreform si registra un aumento delle insolvenze sia dei cittadini tedeschi che delle grandi aziende. Sempre più aziende tedesche dichiarano di non essere in grado di onorare tutti i debiti e dichiarano fallimento. La tendenza riguarda quasi tutti i settori dell’economia, compresa l’industria, l’edilizia e i servizi. Se le imprese chiudono ci saranno lavoratori che vengono mandati a casa. L’economia italiana, in gran parte dipendente dalle forniture di componentistica alla Germania, sta già mostrando i primi contraccolpi.

Poiché è la finanza che spadroneggia nell’economia e nella politica, ben venga però questo dissanguamento dell’economia reale a vantaggio della finanza. Non a caso Draghi, che se ne intende, aveva affermato che bisognava lasciare perire le “imprese zombie”, tant’è che in Europa gli alti tassi hanno determinato un costante aumento, negli ultimi sei trimestri rilevati (l’ultimo riferito al giugno 2023), del numero di dichiarazioni di fallimento delle imprese (+9%).

In Italia le imprese sono indebitate in una misura pari al 69,8% del Pil e nel secondo trimestre del 2023, le imprese fallite registrate in Italia sono state 2.070, in crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Ma il rischio è che il vampiro uccida il corpo di cui si nutre. Il mix di alti tassi d’interesse e riduzione dei consumi, l’incertezza che ne consegue, determinano l’aumento dei rischi di insolvenza, spingendo il sistema creditizio a maggiori “coperture” dei potenziali prestiti di dubbia solvibilità e con ciò a maggiore prudenza nella concessione dei crediti e anche a concedere meno respiro a chi è già indebitato. In tal modo la riduzione dei volumi di prestiti e le maggiori necessità di detenere riserve a copertura dei rischi possono determinare difficoltà anche ad alcune banche, di cui qualche avvisaglia si è manifestata quasi un anno fa con un paio di banche sull’orlo del fallimento.

Altro esempio meno eclatante ma più significativo. La più grande banca americana, JP Morgan, ha deciso di aumentare del 10% l’accantonamento per far fronte ai rischi sui crediti e nel contempo ha accresciuto il differenziale tra quanto la banca incassa sui prestiti e quanto paga sui depositi, portandolo al 5%, che è una misura assai elevata.

Ma l’aumento di questo differenziale caratterizza tutto il sistema bancario. Infatti le banche, grazie alle politiche espansive della Bce prima della stretta del 2022, sono piene di liquidità e non hanno bisogno di farsi concorrenza l’un l’altra per accaparrarsi i depositi del pubblico, quindi possono mantenere tassi bassissimi in favore dei risparmiatori e nel contempo adeguare i tassi a carico di chi ha bisogno di credito. Il risultato è che i profitti bancari nei Paesi europei sono volati in alto. In Italia nel 2023 le banche hanno fatto profitto per oltre 43 miliardi di euro (+67% secondo il bollettino statistico della Consob) e l’annuncio del governo Meloni di tassare gli extraprofitti si è risolto in un provvedimento che, grazie a un emendamento voluto dalla Bce che permette alle banche di non pagare il tributo, purché destinino i maggiori utili al consolidamento del proprio patrimonio, ha comportato maggiori entrate dello Stato pari a zero euro, mente le banche hanno approfittato per aumentare il loro capitale a scapito della collettività.

Ma gli alti tassi non colpiscono solo le imprese. Fra i grandi debitori figurano gli stati (quello italiano è indebitato per quasi tremila miliardi) e l’accrescimento del costo della gestione dei rispettivi debiti drena risorse dai servizi sociali alla finanza, tanto più che l’indirizzo della Nato è di accrescere le spese militari che graveranno sui conti pubblici. C’è da considerare poi che le banche hanno ridotto sensibilmente gli acquisti di titoli di Stato italiani e con ciò crescono le difficoltà di trovare i compratori di detti titoli. Tutti questi nodi verranno al pettine quando le autorità europee, che hanno già preso di mira i conti dell’Italia, ci imporranno, con il nuovo patto di stabilità, altre manovre lacrime e sangue ai danni di sanità, istruzione, pensioni ecc.

Infine gli alti tassi colpiscono anche i cosiddetti consumatori.

La sempre minore disponibilità di servizi pubblici a prezzi contenuti, l’arraffamento da parte di pochissimi gruppi finanziari sia del risparmio privato che dei monopoli naturali un tempo pubblici, il costante peggioramento delle sicurezze in termini di pensioni, sanità, tutela dai licenziamenti ecc. rende sempre più difficile la vita delle famiglie dei lavoratori che spesso devono rivolgersi al credito per mettere insieme il pranzo con la cena. C’è poi, rilevante, l’indebitamento per mettere su le quattro mura della casa, in uno Stato che ha abbandonato ogni politica di edilizia abitativa pubblica e di contenimento dei canoni di affitto. È così che il debito delle famiglie in Italia è salito al 43% del Pil e un italiano su cinque ha più di quattro debiti. Nel 2022, si è registrato un aumento del 10% dei casi di sovraindebitamento rispetto all’anno precedente, mentre nel primo trimestre del 2024, le liquidazioni giudiziali in Italia – queste ultime riguardano sia imprese che famiglie – sono state 2.104, con un aumento del 12,6% rispetto allo stesso periodo del 2023.

Mettiamoci nei panni di una famiglia che nel 2021 aveva ottenuto un mutuo “prima casa” di 150 mila euro di durata trentennale. Il tasso medio di mercato era intorno al 1,5% e la rata mensile di ammortamento di circa 360 euro. Nel dicembre dell’anno scorso si è visto innalzare il tasso a oltre il 4% comportando con una rata di circa 840 euro, una cifra che mette in difficoltà molte famiglie di lavoratori e che diviene del tutto insostenibile per alcune di esse. Da qui la necessità di rivendere la casa e rientrare nel girone infernale degli affitti o di vedersela pignorare dalla banca per insolvenza. Ma dovremmo metterci anche nei panni di un giovane operaio che deve mettere su famiglia, che non trova la casa in affitto se non a canone esorbitante e che non può permettersi un mutuo che si aggira su una cifra corrispondente alla metà, e talvolta molto di più, di un salario medio di un operaio.

Queste aride cifre lasciano intuire la sofferenza di molte famiglie di lavoratori, le difficoltà dei giovani a mettere su famiglia, i drammi di chi si vede pignorata la casa perché non è in grado di pagare le rate del mutuo.

Tutti questi risultati confermano, se ce ne fosse ancora bisogno, che la politica monetaria non è un mero strumento tecnico ma uno strumento politico della lotta di classe, che interviene in maniera violenta sulla distribuzione del reddito a scapito dei lavoratori e in favore del capitale finanziario. Le banche sono sempre più ricche, mentre gli aumenti dei tassi d’interesse sono gravati sulle spalle di cittadini, famiglie e imprese, a partire dall’impossibilità di soddisfare il bisogno essenziale della casa.

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