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Il Movimento 5 Stelle e la democrazia

di Mauro Piras

cropped grillo contatti sitoI grillini amano sorprenderci sempre, in materia di democrazia rappresentativa. Li avevamo lasciati, all’inizio di questa legislatura, fermi nella loro idea che il voto di fiducia non fosse indispensabile alla nascita di un governo: basta trovare le maggioranze su ogni singolo provvedimento, dicevano, chi vuole appoggiarci ci voti quando vuole. E per cinque anni hanno denunciato come un crimine più o meno tutti i voti di fiducia. Ora invece, sorpresa, la fiducia diventa una sorta di totem. Che cosa è successo?

Il nuovo Codice etico e il Regolamento per la selezione dei candidati alle elezioni 2018 adottati dal Movimento 5 Stelle in vista delle prossime elezioni, e resi pubblici in questi giorni, contengono alcune novità. Per esempio, l’avviso di garanzia non è più un’infamia che impedisce la candidatura: saranno gli organi di garanzia a decidere caso per caso. Una ragionevole revisione dell’intransigenza originaria. Oppure, un altro punto, ingiustamente criticato: le candidature per i collegi uninominali non vengono decise dalla rete, ma dal Capo Politico del Movimento. Partitocrazia? Forse, ma tutto sommato meglio così: in fondo è sensato che le candidature siano definite politicamente, e non con elezioni online di dubbia legittimità democratica.

Invece non ha suscitato grandi critiche una regoletta che, a prima vista, appare incostituzionale: i parlamentari del Movimento 5 Stelle sono obbligati “a votare la fiducia, ogni qualvolta ciò si renda necessario, ai governi presieduti da un presidente del consiglio dei ministri espressione del MoVimento 5 Stelle” (Codice Etico, art. 3). Un’idea strabiliante. In questo modo si impone uno strettissimo vincolo di mandato ai parlamentari Cinque stelle, vincolo che però non viene imposto agli eletti dai loro elettori, ma dal governo stesso, rovesciando così il senso del voto di fiducia nella democrazia parlamentare. Vediamo meglio la cosa.

Togliere ai rappresentanti Cinque stelle la libertà di votare contro il proprio governo nel caso del voto di fiducia mina la democrazia rappresentativa da due punti di vista: viola la divisione dei poteri propria di qualsiasi costituzione rappresentativa, e viola il rapporto tra Parlamento e governo specifico della democrazia parlamentare.

1) La divisione dei poteri definisce una costituzione, secondo una venerabile formula della Dichiarazione dei diritti del 1789: un paese senza divisione dei poteri non ha costituzione, perché il potere si può accentrare in un solo uomo o in un solo organo, diventando così arbitrario. Questo principio definisce ogni regime politico fondato sui diritti individuali dei cittadini. Ovviamente, definisce i regimi politici in cui una assemblea di rappresentanti del popolo detiene il potere legislativo. La libertà di voto di questi rappresentanti garantisce la libertà del legislativo dall’esecutivo. Se i rappresentanti vengono assoggettati a un obbligo di voto esterno, vedono ridotta questa possibilità di limitare i poteri dell’esecutivo. Se tale obbligo viene dall’esecutivo, vengono direttamente assoggettati a esso. Ed è esattamente quanto accade con il nuovo regolamento M5S: se si formasse un governo a guida grillina, i parlamentari di questo movimento perderebbero la libertà di votare secondo la propria coscienza a ogni voto di fiducia, e verrebbero assoggettati direttamente alla volontà politica del governo. La separazione dei poteri, nei rapporti tra parlamentari Cinque stelle e governo, cadrebbe.

2) Ciò che vale per ogni democrazia rappresentativa fondata sulla divisione dei poteri viene declinato in modo specifico nella democrazia parlamentare. Qui, il governo è espressione della maggioranza parlamentare. Perciò, per avviare le sue attività, deve passare per il voto di fiducia. E deve dimostrare di avere la fiducia della sua maggioranza per tutta la sua durata. Se la perde, cade. In questo vincolo si esprime la divisione dei poteri: attraverso il voto di fiducia, il Parlamento controlla l’operato del governo. Se esso si discosta da quanto espresso dalla maggioranza che lo sostiene, questa ha lo strumento per farlo cadere. Tutto ciò presuppone però la libertà di voto dei parlamentari e l’assenza del vincolo di mandato: i singoli parlamentari devono poter giudicare liberamente il governo, senza essere vincolati da patti che altrimenti renderebbero il governo del tutto libero dal loro controllo. Il vincolo di mandato da parte degli elettori impedirebbe ai parlamentari di votare in coscienza. Se questo vincolo viene poi direttamente dal partito di governo, li assoggetta direttamente a questo eliminando la divisione dei poteri, come già detto: ma questo è più grave nelle democrazie parlamentari, dove il governo è emanazione della maggioranza parlamentare. Il voto di fiducia viene stravolto e rovesciato: invece di permettere il controllo del Parlamento sul governo, diventa uno strumento di controllo del governo sul Parlamento. È il mondo alla rovescia: non è più il governo a essere responsabile di fronte al Parlamento, ma questo di fronte al governo.

Tutto questo è gravissimo. E sorprende che, a parte qualche timida reazione politica, non sia stato oggetto di una grave reazione nell’opinione pubblica, soprattutto da parte di quanti l’anno scorso hanno difeso la Costituzione dalla “deriva autoritaria”. Certo, si può obbiettare che spesso, con accordi politici o, peggio, con pressioni politiche, i partiti vincolano i loro parlamentari nei voti di fiducia, e anche questo limita, di fatto, la divisione dei poteri e la libertà del Parlamento. La cosa è del tutto vera, ed è la ragione per cui il ricorso eccessivo ai voti di fiducia viene condannato unanimemente, e andrebbero trovati meccanismi istituzionali che lo scoraggino. Tuttavia, nessun partito aveva mai posto dei vincoli formali così pesanti. Esplicitare e formalizzare questi vincoli significa rendere inevitabile la dipendenza dei parlamentari dal governo, e esautorare il loro potere.

Come mai i grillini, nemici giurati del voto di fiducia, sono giunti a questo rovesciamento? Blindare così il voto di fiducia sempre significa infatti violare l’idea originaria secondo cui il governo deve procurarsi la maggioranza su ogni provvedimento. In realtà, la contraddizione è solo apparente. Il rifiuto del voto di fiducia nel 2013 e la sua “blindatura” oggi hanno la stessa radice: il rigetto della democrazia rappresentativa in nome di una confusa idea di democrazia diretta. Il principio di partenza è questo: il rappresentante politico deve parlare e agire in nome del popolo, questo deve esercitare direttamente la sua sovranità tramite la partecipazione ai meet-up, la discussione e il voto sulle piattaforme online e un controllo continuo dei rappresentati. Il M5S quindi vuole imporre il vincolo di mandato come chiave della democrazia, contro tutta la tradizione della democrazia rappresentativa. Il problema è che questo “innesto di elementi di democrazia diretta nella democrazia rappresentativa” diventa deleterio nel momento in cui dall’opposizione si passa al governo. Il vincolo di mandato che l’elettore dovrebbe imporre all’eletto viene infatti interpretato in questo modo curioso: l’elettore ha dato mandato al proprio partito di governare, quindi gli eletti in Parlamento devono chinare la testa di fronte al governo, che è una sorta di “espressione diretta” della “volontà popolare”. La sovranità si trasferisce magicamente dal popolo sovrano al governo. I grillini hanno chiamato Rousseau la loro piattaforma online, ma forse Jean-Jacques si sentirebbe preso in giro da questa fine ingloriosa della sua teoria: il “governo” che prende il posto del “sovrano”!

Alla radice di queste pericolose derive istituzionale sta proprio il senso dell’operazione grillina: contestare la democrazia rappresentativa senza proporre un coerente e sensato modello istituzionale alternativo; questo porta a innestare in modo disordinato elementi di democrazia diretta nelle istituzioni rappresentative, perdendo il controllo dei loro effetti. Perché in realtà il M5S non esprime una vera alternativa di regime politico, come a volte cerca di far credere, ma soltanto un male radicale della democrazia, non solo italiana, e cioè una profonda crisi di legittimità. Il suo successo elettorale si regge sulla fusione di diversi elementi: la denuncia della corruzione e della autoreferenzialità di una classe politica che, da decenni, non dà risposte alle esigenze reali dei cittadini; una rivendicazione di partecipazione attiva e di solidarietà sociale; la denuncia delle diseguaglianze e delle ingiustizie provocate dalla crisi economica e dal “turbocapitalismo”, denuncia fatta dalla prospettiva di un “sovranismo nazionale” in economia; la difesa dell’identità nazionale italiana e di posizioni conservatrici sul terreno dei diritti civili. Questo “mélange adultère de tout” non è una debolezza, come molti credono, ma una forza, perché l’ambiguità che fa muovere il M5S tra il sovranismo di destra e la democrazia partecipativa e sociale di sinistra coglie disagi e malumori da tutti i lati, li coagula e lo porta a prevalere sulle incertezze o i pragmatismi degli altri partiti. Soprattutto, questa miscela raccoglie il vero motore delle elezioni politiche recenti in tutti i paesi democratici avanzati: la crisi di legittimità dei sistemi politici tradizionali, dell’establishment.

I risultati di tutte le tornate elettorali recenti lo hanno mostrato chiaramente: l’elezione di Trump negli Stati Uniti; le elezioni in Olanda, dove i liberali hanno vinto con una percentuale di voti piuttosto bassa, in un quadro politico molto frammentato; le elezioni presidenziali in Francia, dove Macron ha vinto cavalcando una parte di quello spirito antisistema, e comunque il quadro politico si è frammentato in quattro parti, di cui due dichiaratamente “antisistema” e “sovraniste”; l’affermazione politica di Corbyn in Inghilterra, fondata su una sorta di nazionalismo di sinistra, e comunque, anche qui, su una rottura netta con l’establishment del suo partito; e infine, clamorosa, ma solo per chi non aveva saputo riconoscere queste forze sotterranee, la situazione in Germania dopo le elezioni, che ha prodotto un quadro di ingovernabilità a causa della crescita improvvisa delle forze antisistema, e della posizione del tutto “non istituzionale” assunta dai “liberali” di Lindner. In tutte le democrazie avanzate il tema che viene intonato è lo stesso: la sfiducia nei confronti delle classi politiche che hanno guidato la costruzione di questi regimi nel secondo dopoguerra, che hanno amministrato prima il difficile equilibrio tra economia di mercato e stato sociale, poi il passaggio traumatico alla competizione globale e a politiche economiche più o meno liberiste. Fino a quando queste scelte hanno prodotto risultati, quelle classi politiche hanno tenuto. Quando la competizione globale nel mercato del lavoro e la crisi economico-finanziaria hanno accresciuto le diseguaglianze e la precarietà dentro queste società, il loro credito è crollato. Ma attenzione: la crisi sociale attraversata da queste società è particolare. Si tratta di società ricche: è una classe media agiata che ha visto ridursi il proprio benessere e le proprie ricchezze, e che reagisce quindi con sentimenti di chiusura, di difesa delle proprie posizioni, rifiutando di vedere ingiustizie più grandi alle proprie porte. Rifiutando di vedere quanta ricchezza è stata creata, invece, in altre parti del mondo; rifiutando di riconoscere la nuova classe media che nasce dallo sviluppo dei paesi emergenti. Non è una forma di protesta che genera potenziali rivoluzionari, rivendicazioni di giustizia sociale o forme di solidarietà; è una forma di protesta che genera paura, insicurezza, chiusura, ostilità verso l’esterno. Ecco perché le forze politiche che se ne alimentano hanno contenuti ambigui: denuncia sociale e chiusura nazionalista, in una formula. Quanto più è ambiguo l’insieme, tanto più è forte la politica che se ne nutre.

Il M5S è la più forte di queste forze politiche dette troppo sbrigativamente “populiste”, perché le sue radici sono più profonde: la delegittimazione della politica, in Italia, non si regge solo su questa vicenda di “crisi della modernità postbellica”, ma anche su una inadeguatezza della classe politica e del sistema politico ben più antichi: l’Italia vivacchia, senza trovare una via delle riforme e dell’innovazione del sistema economico, da almeno venticinque anni, se non più; e le ingiustizie sociali generate dalla globalizzazione e dalla crisi rendono ancora più inaccettabili i “privilegi della casta”, molto più che in altri paesi, molto più di prima. Se a questo si aggiunge una tradizione di diffidenza dello Stato nei confronti dei cittadini, e di slealtà dei cittadini nei confronti dello Stato, che ha radici antiche, ecco che la forza propulsiva del M5S è la più semplice: la condanna della politica “ladrona”, la lotta contro il “Palazzo”, l’antipolitica. È questa la molla più potente, che sfugge a qualsiasi altra forza politica, dal momento che qualsiasi altra forza politica è stata parte di quel sistema contro cui il “popolo” si scaglia. Le cose più semplici e irrilevanti – la questione dei vitalizi, per esempio – diventano delle micce politiche potentissime, e nessuna soluzione ragionevole, nessun ragionamento che ne mostri la scarsa incidenza sui bilanci pubblici riescono a ridurne la portata, politica ed elettorale. Gli altri partiti si trovano quindi al traino.

La parola che sta dietro tutto questo è una: sfiducia. La crisi di legittimità della politica in Italia è una gigantesca crisi di sfiducia: dei cittadini nei confronti delle istituzioni, dei cittadini tra loro. I cervellotici meccanismi ideati dai grillini, che vogliono sottoporre tutto a controllo, in modo ossessivo, esprimono questa radicale crisi di sfiducia che continua ad attraversare tutta la società italiana, e che sfascia la politica. E così, come sempre, è su problemi relativi alla “fiducia” parlamentare che viene fuori la vera natura del M5S: essere il partito della sfiducia, il partito del controllo nevrotizzato su ogni azione politica, perché non c’è nessuna fiducia nel giudizio e nella libera coscienza degli altri. Questo estremismo traduce in politica una sensazione di cui facciamo troppo spesso l’esperienza nella vita sociale. Questa traduzione politica è la sua energia propulsiva. Il problema è che, se questa idea trova la strada verso la maggioranza di governo, il controllo ossessivo rischia di rovesciarsi, come abbiamo visto, nell’assenza di controllo, nell’arbitrio del potere che si autolegittima perché si considera “espressione diretta del Popolo”, “governo della virtù”. Il passo successivo rischia di essere il “terrorismo della pura intenzione”, secondo un’altra venerabile formula.

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