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nuovadirezione

Italia, le difficili strade della necessaria indipendenza

di Mimmo Porcaro

italia dallo spazioRien ne va plus

Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti: la crisi pandemica sarà utilizzata dall’Unione europea, come e più delle crisi precedenti, per approfondire la subordinazione delle nazioni e delle classi più deboli. Di fronte alla gravità dei problemi attuali l’unica soluzione è data da vasti programmi di investimento pubblico. E di fronte alla vastità della spesa necessaria e del conseguente debito è difficile sfuggire alla scelta della monetizzazione del debito stesso, se non si vuole ammazzare il medico (lo stato) proprio mentre cura il paziente[1]. Questa è la scelta degli Stati uniti, questa è la scelta della Cina, questa è da tempo, almeno de facto, la scelta di gran parte del mondo, ma questa non è la scelta dell’Unione europea. E non lo è proprio perché la crescita del debito dei paesi periferici dell’“Unione”, in un contesto istituzionalmente contrario alla mutualizzazione,  è il miglior sistema per intensificare la presa su quegli stessi paesi e costringerli alla svendita del patrimonio e a tagli di bilancio che inevitabilmente ricadono sulle classi subalterne[2]. È vero che in questo momento la Bce si comporta quasi come prestatore di ultima istanza acquistando notevoli quantità di debito italiano. Ma, come hanno spiegato Blanchard e Pisani-Ferry[3], questa da un lato non è una vera e propria monetizzazione e dall’altro potrebbe cessare in ogni momento (così come potrebbero peraltro cessare  o ridursi – a insindacabile giudizio di lorsignori – tutte le altre politiche di monetizzazione dell’occidente, che sono però assai meno istituzionalmente limitate di quanto non sia l’azione dell’Eurotower), costringendo così l’Italia, incapace di pensarsi fuori dall’eurozona, a scelte che farebbero sembrar moderate quelle del mai abbastanza vituperato governo Monti.

Il problema non sta quindi nella discussione dei dettagli del prestito Bei, del Sure o del pur velenosissimo[4] Mes, né sta nella futura trattativa sul Recovery Fund. O meglio, il problema sta proprio in ciò, sta nei dettagli, sta nei rimandi, sta nel futuro: invece di affrontare nel presente le questioni nodali della mutualizzazione e della monetizzazione l’Unione si perde in scaramucce, rinvia, si ingolfa in discussioni che, per ben che vada, condurranno ad un Recovery Fund fatto all’ 80% ancora di debito e al 20% di trasferimento che verrebbe però accompagnato dall’occhiuta sorveglianza di Bruxelles sulla gestione delle spese. Il tutto, se va bene, dopo giugno, o magari dopo l’estate, o a dicembre. Il rinvio è qui una vera e propria arte di governo, perché tra un “vedremo” e l’altro continua comunque a lavorare la macchina gerarchizzante dell’euro e degli spread. E intanto il tempo passa, l’indebitamento cresce e  la situazione peggiora richiedendo debito ulteriore. La frittata è già fatta. Tutti lo sanno. E già preparano la risposta: “Che cosa potevamo fare? Fuori dall’euro sarebbe peggio, l’Italia sarebbe sola”. Ora che gli effetti dell’eurozona sull’Italia sono chiari anche al più testardo europeista, questa è la narrazione, o meglio la litania, che bisogna smontare[5].

 

L’equivoco dell’interdipendenza

E per smontarla si deve partire da un semplice fatto: l’Italia è già sola. I meccanismi “comunitari” sono fatti apposta per lasciarci soli proprio nei momenti di difficoltà. Quindi uscire dall’eurozona significa cercare e trovare nuovi e veri compagni di viaggio. La litania sui limiti dell’ “italietta” viene condita in genere da banali rimandi alla crescente interdipendenza che caratterizzerebbe il mondo moderno. Ma, a parte il fatto che l’idea di una crescita lineare dell’interdipendenza è assai meno ovvia di quanto non si pensi, il primo errore degli amici del mondo iperconnesso sta nel credere che l’unica forma possibile della gestione dell’interdipendenza sia la globalizzazione (ossia la presunta dissoluzione degli stati nazionali) e, in Europa, l’Unione a trazione tedesca. Quanto la cosiddetta globalizzazione e la cosiddetta Unione europea, coi loro paurosi squilibri, siano prodotto di scelte nazionali e siano a loro volta responsabili della crescita del lato cattivo del nazionalismo è cosa che sfugge ai nostri cosmopoliti. E sfugge anche perché, secondo errore, si continua a identificare con irresponsabile leggerezza l’ interdipendenza e la pace, quando è evidente che la crescita dell’interdipendenza può indurre sia a comportamenti cooperativi sia a comportamenti gravemente conflittuali, come è chiaramente visibile nei rapporti tra imprese e ovviamente nei rapporti fra stati: chi dipende in maniera decisiva dalle risorse altrui può essere tentato di ridurre questa dipendenza attraverso la competizione e la conquista.  Se un sistema tende alla cooperazione l’interdipendenza favorisce la pace. Se un sistema tende al conflitto è proprio l’interdipendenza a favorire la guerra: e il nostro è un sistema altamente conflittuale.

 

Il significato dell’indipendenza

Questo per quanto riguarda l’interdipendenza. E che ne è dell’opposto concetto di indipendenza? Ovviamente chi pensa che la prima sia il bene, pensa che la seconda sia il male. E rafforza questo pensiero riducendo l’indipendenza (e con essa la sovranità che dell’indipendenza è ineludibile condizione formale) a una vera e propria caricatura: indipendenza sarebbe “far da soli”, così come sovranità equivarrebbe ad autarchia. Insomma, così ragiona il globalista impenitente: il mondo è pieno di condizionamenti che non si possono evitare, nessuna nazione può pensarsi come onnipotente e quindi dobbiamo rinunciare di buon grado alla sovranità e all’indipendenza in nome della sicurezza. Ma, ci viene da dire, anche la vita degli individui è piena di durissimi condizionamenti fisiologici, culturali, sociali, psicologici: eppure nessuno si sognerebbe di dire, per questo, che “quindi” la tutela giuridica della libertà individuale e la nozione filosofica della libera individualità vanno buttate a mare. Anche se qualche sovranista sprovveduto, o inclinante verso una certa destra, volesse identificare la sovranità con l’onnipotenza, e l’indipendenza con una versione aggiornata del “me ne frego”, questa, ripeto, sarebbe solo una caricatura, utile solo a facilitare la critica mondialista. Ma la sovranità, lungi dal pensarsi come onnipotente, riconosce immediatamente i propri limiti, perché sa di essere relativa a un determinato territorio e di essere vincolata dal protego ergo obligo, che la costringe a legittimare la propria potenza attraverso la capacità di operare per il bene comune. E l’indipendenza non è indifferenza ma libertà di scegliere a chi e come vincolarsi in un mondo in cui non si può fare a meno di patti politici, alleanze, costruzione di regioni economiche relativamente coerenti. L’Italia, se vuole conservare la propria vita civile, è costretta oggi più di ieri a riguadagnare la propria indipendenza nei confronti di un particolare patto internazionale, rivelatosi particolarmente dannoso, e a cercare patti diversi. Nel far ciò può costruire le condizioni per rendersi indipendente nel maggior grado possibile anche dai flussi del capitale mondiale, la cui assoluta libertà è causa primaria della attuale servitù dei lavoratori.

 

Capire fino in fondo l’importanza della politica estera

Che l’indipendenza debba essere intesa non come solipsismo, ma come costruzione di rapporti liberamente scelti è dimostrato anche dal fatto che non appena si inizia a parlare  di quella che oggi è la prima forma di recupero dell’indipendenza, ossia la sovranità monetaria (e la connessa monetizzazione del debito), si inizia in realtà a parlare di politica estera. Infatti è vero che il recupero della possibilità di emettere  moneta doterebbe il paese di una capacità di intervento economico-politico incomparabile con quella attuale, ma è vero altresì che anche l’emissione di moneta incontra i propri limiti, che non stanno tanto (o non immediatamente) nell’inflazione (il cui livello dipende peraltro anche dal come si spende la moneta emessa), ma nelle possibili disavventure della moneta nazionale nel mare spesso tempestoso del mercato valutario, ossia nei rischi di indebolimento eccessivo del suo valore e dunque della sua capacità d’acquisto dei beni altrui. Tali disavventure  nascono generalmente dalla debolezza di una economia (e quindi torna ad essere centrale la questione del come spendere); ma anche nel caso di un’economia relativamente forte possono scattare operazioni ostili dettate da ragioni di politica internazionale. Mentre le crisi valutarie puramente economiche (ossia mosse principalmente dai giochi del mercato) possono essere affrontate con una certa efficacia da una Banca centrale che abbia seppellito il “deflazionismo permanente”, anche perché esse raramente mirano a mettere al muro un paese di considerevole peso economico, quelle dettate da ragioni politiche sono molto più severe e non possono essere affrontate soltanto con strumenti economici, ancorché resi più flessibili dalla monetizzazione. Bisogna quindi comprendere che c’è un nesso strettissimo tra la riconquista della sovranità monetaria e la ridefinizione di una politica estera efficacemente finalizzata alla tutela degli interessi nazionali e cioè degli interessi popolari. Bisogna abituarsi a invertire la tendenza nazionale a parlare della politica estera solo dopo aver cianciato della nostra spesso vana politica interna, perché questa inversione dell’effettivo ordine di priorità delle cose è uno dei modi in cui si manifesta (proprio mentre tenta di nascondersi) la nostra scelta di integrale subalternità alle attuali gerarchie globali. Deve essere chiaro che la nostra capacità di costruire una politica economica orientata alla giustizia sociale sarà direttamente proporzionale alla capacità di creare alleanze internazionali che costruiscano uno spazio capace di difenderci dalle  turbolenze del mercato finanziario e, ripeto, capace di controllare i movimenti del capitale. Sul tipo di alleanze da perseguire si può discutere. Sulla loro necessità, no.

 

Per un mondo multipolare

L’importanza assoluta della pace, la necessità dell’espansione dei commerci ben oltre l’occidente, l’impossibilità di mantenere l’attuale rapporto coi paesi europei spingono inevitabilmente l’Italia alla ricerca di un equilibrio multipolare del mondo, che è anche condizione per sviluppare una efficace politica mediterranea. E questa scelta implica logicamente  una torsione verso oriente e una profonda modifica dei nostri tradizionali legami con l’occidente. Ciò non significa però che tutti quei legami possano o debbano essere recisi immediatamente e contemporaneamente, anche perché né la Russia né la Cina, per intenderci, sono tenute ad aprirci fraternamente le braccia qualunque cosa noi facciamo, e in qualunque momento. L’obiettivo del multipolarismo e quello dello spazio internazionale coerente con una politica economica progressiva sono la stella polare, ma è assai probabile che per seguire questa stella l’Italia dovrà sfoggiare per fasi non brevi la sua storica tendenza a giostrare tra diverse possibili soluzioni intermedie (tendenza che non è una tara nazionale, ma un’inevitabile portato della dimensione di “media potenza”). Il progressivo distacco dalla completa e subalterna integrazione nell’occidente,  oltre a comportare l’approfondimento dei rapporti con l’oriente dovrà contemplare l’eventualità di alleanze tattiche con gli Stati Uniti al momento della rottura con Bruxelles (alleanze che sarebbero cosa diversa dall’abituale rafforzamento della nostra intesa strategica con Washington quando c’è da litigare in Europa), e/o della rinegoziazione positiva delle relazioni con alcuni dei nostri attuali partner europei. Credere invece che la politica monetaria del paese non cadrà, prima o poi, sotto i vincoli della politica estera o credere che la politica estera sia il campo della pura autoaffermazione di sé porterebbe all’integrale ritorno, subìto o voluto, tra le braccia della potenza attualmente dominante. Questo è, tra l’altro, un tratto caratteristico della politica estera della destra italiana, tratto che rende assai dubbio il ”sovranismo” della destra stessa: il produrre o presupporre una completa e autolesionistica identificazione con quello che è, o appare, l’”alleato” più forte del momento. Le fanfaronate di Mussolini condussero alla consegna della nazione alla Germania nazista; il sovranismo di Salvini e Meloni non sottolinea mai la necessità di superare gli ostacoli economici e geopolitici all’indipendenza del paese semplicemente perché intende consegnarlo da subito agli Stati Uniti. Cosa su cui la destra deve fronteggiare l’agilità di una sinistra che sta già ridefinendo la propria collocazione in senso più americano che europeo, come mostra la vicenda di Repubblica.

 

Riorganizzare la produzione a partire dall’intervento pubblico

La politica economica è prima o poi sottoposta alle dinamiche della politica estera. Ma d’altra parte la base materiale della politica estera del nostro paese si identifica in larga misura con la sua rilevanza economica. Non è quindi solo per ragioni di giustizia sociale o di razionalità economica, ma ancora per ragioni di indipendenza, che è necessario riorganizzare decisamente il sistema produttivo italiano. Da destra si invocano la monetizzazione e l’espansione dell’intervento pubblico non già per modificare ma per conservare il modello industriale italiano. Per eludere la questione fiscale, per sovvenzionare con più mezzi l’industria privata e per meglio finanziare i partiti che la rappresentano; non per pianificare un mutamento che consenta al paese di diminuire la propria dipendenza dall’estero e accrescere il proprio generale peso economico, condizione necessaria, pur se insufficiente, di una politica autonoma. La crisi strutturale del capitalismo occidentale, quella specifica del capitalismo europeo e italiano, le urgenze dettate dalla pandemia non possono, lo abbiamo già detto, essere affrontate senza un intervento decisivo dello stato. Anche solo per evitare la recessione e per risolvere positivamente alcuni dei limiti storici del paese (utilizzo opportunistico del capitale privato, frammentazione delle imprese, carenza di investimenti di lungo respiro, insufficiente sostegno alle esportazioni) la mano pubblica si rivela decisiva. Ma tutte le carenze del nostro capitalismo divengono ancor più tragiche se lette nell’ottica dell’indipendenza. Soltanto la pianificazione e l’intervento diretto dello stato nei settori strategici possono invertire la rotta degli ultimi decenni, fatta di deindustrializzazione, apertura indiscriminata al capitale estero e, come al solito, bassi salari. Soltanto lo stato, come volano di rilancio industriale e come creatore diretto di occupazione (attraverso la costruzione di un proprio apparato produttivo e attraverso l’improrogabile espansione del personale dei servizi pubblici) può finalmente ampliare quel mercato interno che è una risorsa fondamentale in un’ epoca di forte turbolenza mondiale. Ma di ciò discutiamo ormai da tempo, sottolineando giustamente come proprio su questo terreno (crescita dell’occupazione e dei salari come conseguenza di crescita tecnologica, espansione del mercato interno) si crei il più stretto rapporto tra interesse dei lavoratori e interesse nazionale. Ciò di cui raramente discutiamo riguarda invece le condizioni di possibilità non solamente politiche, ma soprattutto istituzionali, della svolta di politica economica.

 

Rifare lo stato per rifare la politica

Ogni proposta di politica economica (ma in realtà ogni tipo di proposta politica) è destinata a restare lettera morta non soltanto se omette di indicare quali sono le forze sociali che dovrebbero sostenerla (e di questo parleremo fra un attimo), ma anche se si arresta di fronte a un problema che viene sempre sottovalutato proprio dalle forze che sono estranee a qualunque tipo di potere: il problema degli apparati di stato che dovrebbero realizzare le politiche, del loro concreto funzionamento, del personale che in esso lavora. La politica industriale, ad esempio,  è dotata oggi in Italia di strutture del tutto insufficienti, incapaci di operare qualunque serio controllo, incerte anche sui criteri del controllo stesso. E ciò vale per la politica del lavoro e per moltissimi altri apparati ancora. Insomma: la completa riforma dello stato è una delle più importanti condizioni dell’indipendenza politica del paese perché di questa indipendenza lo stato è lo strumento principale, e oggi tale strumento è assai logoro. Decenni di neoliberismo hanno lasciato un segno profondissimo: scarsità di personale e di mezzi, crollo delle capacità tecniche degli uffici (quasi sempre succubi degli interlocutori privati), frammentazione del sistema decisionale e operativo (vedasi regionalismo), e altro ancora. Bisogna ricentralizzare, che è anche un modo per rendere più trasparenti le responsabilità. Bisogna assumere nuovo personale e motivarlo con la consapevolezza del nuovo, decisivo compito dell’apparato pubblico: “Vieni a lavorare per salvare il paese!”. Bisogna, soprattutto, reinternalizzare tutto ciò che è stato esternalizzato per puri motivi di risparmio, perché sarebbe paradossale riconquistare la centralità dello stato e lasciare poi intatta la mucillaginosa confusione tra pubblico e privato (che è cosa totalmente diversa dalla necessaria dialettica tra apparato pubblico e società) a realizzare la quale si sono concordemente applicate la destra e la sinistra di questo paese. Una reinternalizzazione che, parrà forse strano, dovrà riguardare anche le istituzioni della politica estera, fatte, da noi più che altrove, dell’intreccio fra diverse istituzioni, pubbliche e private, tendenti più alla frammentazione che alla coerenza.

 

Indipendenza nazionale e indipendenza di classe

Facciamo ora un balzo in un mondo apparentemente molto distante da quello della geopolitica, della politica economica e dello stato: il mondo delle classi e dei movimenti sociali. Già. Perché la condizione preliminare perché si possano affrontare i problemi di cui sopra e perché si possa anche solo parlare di indipendenza dell’Italia è la nascita di un soggetto sociale e politico capace di imporre all’intero paese soluzioni diverse da quelle che vengono mestamente contrattate sui tavoli dell’Unione europea. Le mediazioni al ribasso (per usare un eufemismo), le incredibili esternazioni speranzose dei Conte, dei Gentiloni, dei Letta, l’inerzia europeista della quasi totalità delle classi dirigenti italiane possono durare e restare impunite soltanto perché non esiste un movimento capace di manifestare appieno la profondità della sofferenza sociale (quella dei poveri, di chi raggranella una precaria sopravvivenza e anche di chi, pur “garantito”, è immerso in un’atmosfera ultracompetitiva e incerta) e quindi di far pesare finalmente in maniera autonoma le richieste popolari rendendo in tal modo sempre più difficile, e infine impossibile, la mediazione con Bruxelles. Insomma: la necessaria indipendenza del paese non verrà mai veramente rivendicata se ciò non sarà imposto dall’indipendenza politica, culturale e organizzativa di tutti quei proletari e semiproletari, e comunque di tutti quei perdenti nel feroce gioco liberista, che da decenni non hanno una autonoma capacità di rappresentazione. Se lasciamo fare alle élite attuali, la questione dell’indipendenza non verrà mai veramente posta, oppure verrà risolta e usata per garantire l’ uso privatistico delle nuove risorse messe a disposizione dallo stato. È vano invocare un tale movimento? Forse oggi lo è meno di ieri: l’importante è che non ci si limiti ad “aspettare Godot” confidando nella “logica” rivolta popolare contro il governo che fra un anno o due volesse emulare in peggio Monti. Non è affatto detto che al massimo punto di attacco dell’avversario corrisponda il massimo di risposta da parte nostra, anzi: proprio l’assenza di qualunque vera protesta nel 2011 sta a dimostrarlo. Le rivolte più diffuse nascono spesso, piuttosto, dall’intreccio tra la sofferenza sociale e il pur blando balenare di una opportunità di riscatto: nel nostro caso la rivolta potrebbe nascere dalla combinazione tra il netto peggioramento delle condizioni di vita (rispetto a un “prima” già infelice) e la netta svolta pseudokeynesiana a cui sono costrette, oggi più di ieri, le classi dominanti; potrebbe trovare alimento nel contrasto tra l’aumento delle emissioni monetarie e la diminuzione dei redditi popolari. La rivolta potrebbe nascere se si cominciasse da subito a rifiutare la logica della “ricostruzione,” del “comune interesse”, dell’ “unità nazionale” antipopolare, sia lottando immediatamente contro ogni tentativo di peggiorare le condizioni dei lavoratori , sia attraverso una battaglia culturale che ricordi quanto i proletari italiani pagarono la tanto decantata ricostruzione postbellica in termini di sfruttamento, morti sul lavoro, repressione politica. Questa rivolta potrebbe oggi essere alimentata dalla riscoperta della dignità di tutto il lavoro che la tragica diffusione del virus ha ironicamente consentito. Fino a ieri il solo lavoro degno di questo nome sembrava essere quello dei “creativi” hi-tech, degli innovativi maghi della finanza, dei grandi manager capaci di fluttuare, insieme al capitale, sopra i territori in cui si agitano le povere formiche umane. Oggi si è scoperto quanta creatività ci voglia, da parte dei lavoratori di ogni livello, per far funzionale un ospedale (e gli altri servizi pubblici) in condizione di estrema carenza di risorse; quanto sia costretto a suggerire e gestire innovazione ogni lavoratore del settore privato, in un mondo sottoposto a competizioni e incertezze continue; quanto sia maledettamente importante che il territorio sia presidiato dai lavoratori e dai piccoli imprenditori che offrono servizi che ci paiono sempre troppo ovvi, nei supermercati, nelle farmacie, nella gestione della sicurezza pubblica, nel bar sotto casa e nella trattoria di fronte. Mentre il capitale finanziario continua a svolazzare nei cieli attendendo il momento buono per fare altri profitti e delegando per ora al suo stato il compito di investire a suo immediato vantaggio, il lavoro, sul campo, coi piedi per terra, sta salvando la società. Sarebbe ora di andare  riscuotere. In conclusione, e in sintesi: l’indipendenza che al paese è necessaria non può essere meramente declamata, né può consistere solo nella pur benedetta sovranità monetaria, ma richiede (in un ordine di importanza che varia a seconda della congiuntura politica) la riorganizzazione della produzione, la riorganizzazione dello stato, la ridefinizione di una politica estera. La condizione preliminare perché queste tre strade vengano imboccate e vengano percorse con coerenza è la nascita di un autonomo movimento popolare, il cui sviluppo dipende anche da un serio lavoro collettivo capace di immaginare, contemporaneamente, l’organizzazione del conflitto sociale e la costruzione di una nuova soggettività politica.


Note
[1] Recentemente lo ha ribadito anche Riccardo Realfonzo, in un lucido articolo in cui peraltro si continua a dar troppo credito alle capacità di ripensamento dell’Unione europea: cfr. Finanziamento delle politiche e scenari del debito dopo il covid-19https://www.economiaepolitica.it/crisi-economica-coronavirus-italia-unione-europea-mondiale/debito-pubblico-2020/.
[2] Per un’analisi più dettagliata di questo punto si veda Alessandro Somma, Dal coronavirus al debito. Come l’emergenza sanitaria consolida le relazioni di potere trai Paesi europei, https://www.economiaepolitica.it/crisi-economica-coronavirus-italia-unione-europea-mondiale/debito-coronavirus-italia-unione-europea/.
[3] Olivier Blanchard, Jean Pisani-Ferry, Monetizzazione del debito: niente panicohttps://vocidallestero.it/2020/04/11/blanchard-e-pisani-ferry-monetizzazione-del-debito-niente-panico/
[4] Si vedano, al proposito, le  osservazioni di Thomas Fazi, La truffa del Mes “senza condizionalità”, https://www.sinistrainrete.info/europa/17396-thomas-fazi-la-truffa-del-mes-senza-condizionalita.html?highlight=WyJmYXppIl0= e il già citato articolo di Alessandro Somma.
[5] Riassumo qui di seguito un ragionamento che ho cercato di articolare meglio in un mio recente lavoro, I senza patria. La solitudine degli italiani in un mondo di nazioni, Meltemi, Milano, 2020, la cui Introduzione può essere letta qui: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/17158-mimmo-porcaro-introduzione-a-i-senza-patria.html?highlight=WyJwb3JjYXJvIl0=

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