Lenin e la lotta all'opportunismo
di Tiziano Censi
I primi moti spontanei della classe operaia sorsero agli inizi del XIX secolo in maniera disorganica e priva di prospettiva dalle contraddizioni economiche generate dal nuovo sistema produttivo capitalistico. Era il tempo del Luddismo che portava i lavoratori alla distruzione dei macchinari percepiti come la causa più prossima del loro impoverimento. Al movimento operaio mancava, ancora, una teoria generale che riuscisse a spiegare i cambiamenti in atto e disvelasse i rapporti di proprietà che si celavano tra le maglie del progresso tecnologico, capace di dare una prospettiva rivoluzionaria alla lotta dei lavoratori. La formulazione di questa teoria la dobbiamo in gran parte al genio di Karl Marx, ma la scoperta delle leggi dialettiche dello sviluppo storico in quanto tali non aiutano il progredire della storia più di quanto la conoscenza della temperatura di ebollizione dell’acqua non aiuti a farla evaporare. Gli operai avevano una causa e un fine ultimo per cui lottare, era il tempo di elaborare la strategia che li avrebbe condotti a questi risultati.
Materia di dibattito nella storia del movimento operaio, da allora fino ad oggi, è stata la ricerca delle corrette pratiche, dei giusti principi sui quali organizzare i lavoratori e condurre la battaglia per il socialismo. Differenti valutazioni sulla strada da percorrere hanno più volte, nel corso degli anni, modificato le politiche, le parole d’ordine, gli indirizzi e i modelli organizzativi dei partiti comunisti in giro per il mondo, e non si può dire che questa discussione sia terminata, anzi, si ripresenta con maggior vigore di fronte alle difficoltà che lo squilibrio dei rapporti di forza odierni e le nuove sfide dello sviluppo capitalistico ci pongono innanzi. Tutt’oggi esistono nel movimento comunista internazionale visioni differenti sul ruolo che i comunisti dovrebbero interpretare nel teatro della politica.
Il risultato di tali differenze è la parcellizzazione in diversi gruppi e organizzazioni dei comunisti sul piano nazionale e la compresenza di diversi indirizzi a livello internazionale. Ancora oggi, quindi, tema dirimente per chiunque si voglia cimentare nella pratica del conflitto di classe è la risoluzione del quesito del “che fare?”.
Nel corso di due secoli di lotte in seno ai partiti della classe operaia si sono affermate e scontrate diverse tendenze, una delle quali, quella opportunista, si è riproposta diverse volte nella storia dei partiti operai divenendo egemone in alcune fasi. Proprio contro l’opportunismo dei partiti e delle figure politiche più importanti della Seconda Internazionale si scagliò la polemica di Lenin.
Nel contesto della Grande Guerra, Lenin sostenne la necessità di una rottura definitiva con l’opportunismo, da praticare con il superamento della II internazionale, ormai inutile, a suo avviso, a servire gli interessi della classe operaia, costituendo un nuovo raggruppamento internazionale formato da quelle formazioni che avevano tagliato i legami nei loro paesi con i dirigenti opportunisti.[1] Da questa rottura storica con la tendenza opportunista nascerà la III Internazionale e il movimento comunista internazionale.
La maturazione di tale separazione non impedì, però, che l’opportunismo si ripresentasse sotto diversa forma all’interno dei partiti comunisti stessi fino a prenderne, in alcuni casi, la direzione. Certe delle caratteristiche che danno forma alla tendenza opportunista sono ancora oggi presenti in alcune formazioni comuniste in Europa, recepite come eredità dalla fase dell’eurocomunismo e della controrivoluzione in Unione Sovietica o come suggestioni nuove in partiti di più recente formazione, che sebbene sorti dalla critica a quella degenerazione, scontano ancora una certa dose di immaturità ideologica. Il superamento di quelle pratiche è condizione sine qua non del rafforzamento del movimento comunista internazionale.
Discutere della tendenza opportunista per come storicamente si è innestata all’interno del movimento operaio non è, quindi, solo esercizio teorico, ma significa indagare concretamente la strategia che i comunisti oggi devono far propria. Solo conoscendo le cause sociali e le manifestazioni politiche dell’opportunismo è possibile costruire gli anticorpi indispensabili a contrastare un rinnovato proliferare di questa tendenza.
1
Spesso il termine “opportunista”, anche in ambito politico, viene utilizzato con accezione dispregiativa, ma senza che al termine sia attribuito una categoria politica definita. Qui noi cercheremo di indagare, invece, il significato esatto che esso ha assunto come corrente all’interno del movimento operaio. Per trarne una definizione di massima utilizzeremo le parole di Lenin per cui l’opportunismo “consiste nel sacrificare gli interessi fondamentali delle masse agli interessi temporanei di un’infima minoranza di operai, oppure, in altri termini, nell’alleanza degli operai con la borghesia, contro la massa del proletariato”[2].
Con “alleanza degli operai con la borghesia” in questo caso non ci si riferisce esclusivamente all’alleanza elettorale (su cui ritorneremo più avanti). Il concetto va inteso in senso più ampio, come concordanza d’interessi. Benché siano esistite formulazioni esplicite di tale alleanza non si deve credere che queste ne siano un fattore qualificante, al contrario. Più comunemente i partiti opportunisti continuano a professare il distacco completo dal campo borghese e tuttavia praticano una convergenza con tale campo sul piano degli interessi materiali. Ciò può avvenire, infatti, con maggiore efficacia qualora il partito opportunista riesca a mantenere saldo il proprio legame con i lavoratori esercitando la propria direzione con parole d’ordine non direttamente a favore della borghesia, ma che siano ad essa congeniali.
Infatti, scrive Lenin:
“Per la borghesia sarebbe dannoso se l’attuale socialdemocrazia facesse una svolta a destra, perché in questo caso gli operai si allontanerebbero da essa. Gli opportunisti e la borghesia hanno bisogno dell’attuale partito […] il quale sa conciliare così bene tutto e tutti con delle frasi levigate e del tutto marxiste. A parole, socialismo e rivoluzione per il popolo, per le masse, per gli operai; in pratica […] alleanza con la borghesia […]”[3]
Non a caso uno degli stratagemmi più utilizzati dai partiti opportunisti è l’enunciazione vaga delle posizioni politiche, il tentativo costante di non prendere di petto le questioni svincolandosi da formulazioni precise, cercando di mettere insieme punti di vista che si escludono vicendevolmente, nello sforzo di concordare con entrambi. Queste pratiche sono necessarie per far convivere il richiamo ai fini ultimi del socialismo con i compromessi dell’immediato e rappresentano per certi versi un inganno perpetrato ai danni dei lavoratori.
Però “l’opportunismo non è un fatto casuale, non è un peccato, non è un errore o un tradimento di singole persone, ma il prodotto sociale di tutto un periodo storico, è stato generato nel corso dei decenni, dalle particolarità di un determinato periodo di sviluppo del capitalismo, in cui uno strato di operai privilegiati aveva un’esistenza relativamente tranquilla e civile, veniva imborghesito, riceveva qualche briciola, dei profitti del proprio capitale nazionale e veniva staccato dalla miseria, dalla sofferenza e dallo stato d’animo rivoluzionario delle masse misere e rovinate”.[4]
Il nazionalismo e lo sciovinismo sono la naturale conseguenza di questa condizione di una parte del proletariato che salda i propri interessi a quelli del proprio paese nella speranza di usufruire del sopraprofitto generato dal ruolo di potenza della propria nazione. Questi sono gli interessi immediati di una minoranza del proletariato ai quali si sacrificano gli interessi generali dei lavoratori: il supporto alla lotta del proprio Paese per una posizione migliore nel confronto con le altre potenze. Sul campo del nazionalismo ha luogo l’incontro più congeniale tra opportunismo e borghesia.[5]
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“La difesa della collaborazione delle classi, il ripudio dell’idea della rivoluzione socialista e dei metodi rivoluzionari di lotta, l’adattamento al nazionalismo borghese, il dimenticare il carattere storicamente transitorio delle frontiere di una nazionalità o della patria, la trasformazione in feticcio della legalità borghese, la rinuncia al punto di vista di classe e alla lotta di classe per paura di allontanare da sé le larghe masse della popolazione (leggi: piccola borghesia): queste sono, indubbiamente, le basi ideologiche dell’opportunismo. Proprio su questo terreno è cresciuto l’attuale orientamento sciovinista, patriottico della maggior parte dei dirigenti della II internazionale.”[6]
In questo modo Lenin identifica le caratteristiche politiche dell’opportunismo del suo tempo. Molti dei caratteri da lui evidenziati si ritrovano anche in contesti differenti e possiamo analizzarli come proprietà generali dell’opportunismo. L’accettazione del panorama borghese come unico terreno di lavoro politico è certamente una di queste. Da questo presupposto derivano le teorie gradualiste e riformiste che sostengono la possibilità di un passaggio al socialismo in maniera lineare, attraverso piccole conquiste parziali e senza la necessità di una rottura rivoluzionaria. Si capisce bene perché un’impostazione del genere conduca all’integrazione completa del partito all’interno dell’impianto politico borghese di cui ne accetta regole e limiti.
Ciò si concretizza nella rinuncia ai metodi rivoluzionari di lotta, nell’accettazione esclusiva del lavoro parlamentare, nel ripudio della rivoluzione socialista. Esempio a noi familiare di tale deriva è quello del PCI che insieme ad altri partiti comunisti europei teorizzò, negli anni ’70, l’eurocomunismo in cui si affermava la specificità della condizione europea e la possibilità del passaggio al socialismo con mezzi democratici, attraverso il lavoro all’interno delle istituzioni borghesi. L’eurocomunismo fu il punto d’approdo di un processo di riaffermazione dell’opportunismo in seno ai partiti comunisti in Europa. Questa impostazione condusse il PCI a rivedere l’analisi marxista dello stato, finendosi per ergersi a difesa delle istituzioni borghesi invece di lottare per abbatterle e a far propria un’idea interclassista della nazione che fu alla base delle politiche di responsabilità e solidarietà nazionale promosse anche dalla CGIL.
A volte l’accettazione del panorama politico della democrazia borghese si spinge tanto in là dal concepire la possibilità che i partiti comunisti partecipino all’amministrazione del sistema capitalistico attraverso l’alleanza diretta con i partiti borghesi e la partecipazione diretta ai loro governi. Esperienze di questo tipo, che sono avvenute e ancora avvengono in Europa e nel mondo, conducono al completo disarmo dei lavoratori difronte alle politiche del governo. I partiti che dovrebbero condurre i lavoratori alla battaglia contro questo sistema vengono cooptati all’interno dello stesso e sono funzionali a traghettare l’appoggio degli strati popolari alle politiche della borghesia e a sedimentare tra i lavoratori la concezione del sistema capitalistico e delle sue istituzioni quali unico orizzonte possibile. Si barattata la pace sociale, il completo disarmo della classe operaia con l’ammorbidimento della repressione e qualche riforma. La partecipazione ai governi è il caso più eclatante della degenerazione opportunista. Quella che dovrebbe essere l’avanguardia della classe operaia è messa al servizio del governo, dello stato, della nazione, mentre si distribuiscono prebende alle dirigenze di quei partiti attraverso ministeri o sottosegretariati.
Come abbiamo già visto, però, non necessariamente l’accettazione dell’orizzonte di lotta borghese e dell’alleanza di classe si manifesta esplicitamente, il più delle volte la ritroviamo mascherata da formulazioni ambigue. I partiti della seconda internazionale non rinnegarono mai il socialismo né la rivoluzione socialista neppure nel votare i crediti di guerra nel primo conflitto mondiale.
Ad essi Lenin imputò la trasformazione in feticcio della legalità borghese. I partiti socialdemocratici avevano accettato di operare solo all’interno di quello che era il recinto scelto per loro dalle forze borghesi, rappresentato dai limiti legislativi. Avevano barattato il proprio spirito rivoluzionario con la possibilità di potersi muovere sul terreno della legalità, che specialmente in tempo di guerra significava la rinuncia a qualsiasi prospettiva di conflitto sociale. La socialdemocrazia “ha sacrificato gli scopi rivoluzionari del proletariato alla conservazione delle attuali organizzazioni legali. […] Il diritto del proletariato alla rivoluzione è stato venduto per il piatto di lenticchie della vigente legge poliziesca, che autorizza le organizzazioni.”[7] Con questo Lenin non negava certamente gli strumenti della propaganda legale e il lavoro parlamentare. Condannava la deriva che aveva permesso che le masse si educassero al lavoro entro il panorama democratico-borghese e che aveva spinto al ripudio di altri mezzi di lotta nel momento in cui la condizione di crisi li richiedevano.
Trasportare questa riflessione al giorno d’oggi non si traduce certo nel preparare i comunisti al passaggio all’attività illegale, ma riuscire a proiettare l’attività dei partiti comunisti moderni oltre l’orizzonte della democrazia borghese. Anni di derive opportuniste in Italia e in Europa hanno plasmato, attraverso l’esperienza, concezioni e modalità di lavoro che rischiano di venir riprodotte anche in quei partiti che condividono il fine ultimo della rivoluzione socialista. I partiti comunisti devono avere la forza di distinguersi qualitativamente dalle altre forze del panorama politico e non esserne semplicemente il punto di vista più radicale ma in fin dei conti integrato nelle regole del gioco. Per farlo è essenziale che i comunisti travalichino la semplice battaglia per il “consenso” (che pure è un aspetto da non sottovalutare) e si dedichino all’organizzazione delle forze vive nel conflitto sociale. La massima unanimemente condivisa del radicamento tra i lavoratori si traduce in poco più che un indirizzo di proselitismo se non è accompagnata dalla concreta organizzazione di questi lavoratori sul terreno delle lotte.
Questa è la caratteristica che rende un partito potenzialmente rivoluzionario. Sottovalutare tutto ciò conduce facilmente sul terreno del consenso alla formulazione di proposte generaliste ed “interclassiste” legate a quella necessità, ben evidenziata da Lenin, di non scontentare la piccola borghesia. Amministrare il consenso, senza disporre di forze effettive da mettere in campo per far avanzare la propria proposta generale, si traduce nel ribaltamento di prospettiva del proprio ruolo. Per i comunisti costruzione del consenso significa lavoro di egemonia per la più ampia diffusione delle posizioni di lotta della classe operaia, ma in assenza di un lavoro di direzione concreta, di individuazione delle parole d’ordine di lotta e della possibilità di dirigere le proprie forze organizzate per il raggiungimento di quegli obiettivi, la ricerca del consenso corrisponde alla formulazione di parole d’ordine che siano il più largamente condivisibili possibile. Tra le due formulazioni c’è un’inversione del ruolo del partito: da avanguardia, che diffonde le parole d’ordine di lotta concreta dei lavoratori nella società, a retroguardia, che si adatta alle parole d’ordine che nella società hanno una posizione maggioritaria.
La seconda impostazione, in assenza di conflitto reale, finirà sempre per essere una posizione di compromesso di classe che spesso si sviluppa sul piano del nazionalismo, come già ampiamente evidenziato da Lenin stesso. Quello dell’unità nazionale è il terreno su cui più facilmente si incontrano gli interessi dell’opportunismo e della borghesia perché comunemente identificato come neutrale. Nella difesa della nazione l’opportunismo può trovare le proprie motivazioni per sposare la battaglia della borghesia senza doverne sposare le posizioni politiche.
Per Lenin “gli opportunisti avevano preparato da tempo il fallimento della II internazionale […] predicando lo sciovinismo borghese sotto l’aspetto del patriottismo e della difesa della patria e ignorando o negando la verità fondamentale del socialismo, esposta nel Manifesto comunista, cioè, che gli operai non hanno patria.”[8] Secondo il suo giudizio, la difesa della patria al tempo dell’imperialismo nei paesi capitalisti è il più grande tradimento nei confronti dell’internazionalismo proletario, equivale a mettere il proletariato sotto la bandiera della borghesia nella lotta per un posizionamento migliore della propria nazione nel confronto inter-imperialistico.
Gli opportunisti di ieri utilizzavano tutte le formulazioni che conosciamo anche noi oggi per giustificare il loro appoggio alla propria nazione. Intendevano bene la retorica della difesa della patria, della guerra nazionale per l’indipendenza, per la difesa dall’aggressione straniera. Gli opportunisti si atteggiavano da sciovinisti proclamandosi internazionalisti e nel farlo inventavano vere e proprie acrobazie retoriche che val la pena riportare: “Difendere la patria è diritto e dovere di tutti; il vero internazionalismo consiste nel riconoscere tale diritto ai socialisti di tutte le nazioni, comprese quelle che sono in guerra contro la mia…”[9] Cosi tentava di maldestramente di difendersi Kautsky, dirigente del partito socialdemocratico tedesco.
La tendenza comune di ieri ed oggi è quella di travisare categorie e contesto per difendere “marxisticamente” la scelta di schierarsi con il proprio paese. In passato gli opportunisti lo facevano citando direttamente Marx e il suo sostegno alle guerre nazionali della borghesia contro il feudalesimo. La tendenza dell’opportunismo di oggi è, invece, citare Lenin o Stalin nel loro appoggio alle guerre di liberazione coloniale, con le stesse finalità, adattandole a paesi che colonie non sono. La grande falla di questi sofismi è l’aver astratto dalle condizioni concrete della fase imperialista e del ruolo che i paesi europei giocano nello scacchiere mondiale. Che esistano degli squilibri anche tra le grandi potenze mondiali è innegabile, come è innegabile che le nazioni che assumono posizioni di vantaggio rispetto alle altre godano di maggiori sopraprofitti, delle cui briciole gode anche una parte del proletariato. In questa guerra tra briganti, però, compito dei comunisti secondo Lenin è lottare innanzi tutto per la disfatta del proprio governo e non appoggiarsi ad esso nel nome della patria.
“La questione della patria, risponderemo agli opportunisti, non si può porre ignorando il carattere storico concreto della guerra attuale. È una guerra imperialistica, cioè una guerra dell’epoca del capitalismo sviluppatosi al massimo grado, dell’epoca della fine del capitalismo. La classe operaia deve inizialmente <costituirsi in nazione>, dice il Manifesto comunista, indicando così in quali limiti e a quali condizioni noi riconosciamo la nazionalità e la patria come forme necessarie del regime borghese e, di conseguenza, della patria borghese. Gli opportunisti travisano questa verità trasferendo ciò che è giusto per l’epoca del capitalismo nascente all’epoca della fine del capitalismo. E a proposito di quest’epoca, dei compiti del proletariato nella lotta per l’abolizione non del feudalesimo, ma del capitalismo, il Manifesto comunista dice con chiarezza e precisione: <Gli operai non hanno patria>. […] Ai tentativi della borghesia contemporanea di dividere e disunire gli operai richiamandosi ipocritamente alla difesa della patria, gli operai coscienti risponderanno con nuovi e ripetuti sforzi per stabilire l’unità degli operai delle diverse nazioni nella lotta per abbattere il dominio della borghesia di tutte le nazioni.”[10]
L’appoggio dell’opportunismo alla propria nazione e le posizioni scioviniste divennero più evidenti con lo scoppio della guerra. Queste tendenze però sono presenti anche nei momenti più pacifici rafforzandosi in tutti quei contesti in cui lo scontro internazionale si acuisce e la borghesia di ogni paese gioca la carta dell’unità nazionale. Compito dei comunisti è quello di contrastare questa tendenza e non di assecondarla. Il rischio concreto è di portare le proprie posizioni sul campo della collaborazione di classe rappresentato da “l’interesse nazionale”, contribuendo a generare la rivalità tra gli operai di una nazione e quelli delle altre.
3
Aspirazioni e tendenze politiche all’interno dei partiti della classe operaia hanno condizionato, nella storia, anche, le teorie e i modelli organizzativi su cui sono stati eretti. Ciò è avvenuto poiché il carattere generale di un partito, ovvero i suoi fini ultimi e la sua ragione storica trovano la loro funzionalità in determinate forme organizzative. Il modo stesso in cui un gruppo decide di strutturarsi ne determina la capacità o meno di raggiungere specifici risultati. Stiamo sostenendo che le scelte organizzative sono scelte prettamente politiche e che i modelli selezionati non rappresentano unicamente la forma fenomenologica del partito in questione ma ne inficiano direttamente anche il carattere ontologico.
In Italia abbiamo avuto esempi concreti di come il progressivo affermarsi della tendenza opportunista nel PCI abbia modificato anche dal punto di vista organizzativo quel partito e successivamente le formazioni nate dalla sua dissoluzione. Emblematica è stata la scelta di privilegiare, con sempre maggior forza negli anni, un’organizzazione di base incentrata sulle sezioni territoriali e sacrificare la strutturazione per cellule di lavoro direttamente nei siti produttivi. Questa scelta è sostanziale poiché i due modelli rispondono, da una parte, alla necessità di un controllo del consenso, degli iscritti e dei sostenitori, da spendere in campo elettorale, dall’altra all’esigenza di dirigere fattivamente lo scontro di classe nei luoghi di lavoro. Non è un caso che quella che nel PCI rimase una tendenza alla sostituzione nei partiti successivi, da Rifondazione al PdCI, si trasformò nella completa scomparsa delle cellule di lavoro, laddove presenti ridotte a semplice orpello, prive di qualsiasi portata strategica nel contesto dell’elettoralismo.
In questo campo i partiti italiani facevano dei passi indietro che li riportavano direttamente ad assumere i modelli organizzativi propri dei partiti socialdemocratici della seconda Internazionale che avevano concepito unicamente una costituzione partitica basata sulle sezioni territoriali e contro i quali aveva già polemizzato lo stesso Lenin a partire dal famoso scritto del “Che fare?”. Le formulazioni di Lenin sull’organizzazione nei luoghi di lavoro verranno fatte proprie dalla terza Internazionale e riportate in Italia da Antonio Gramsci.
Un’altra proprietà peculiare dei partiti opportunisti è l’estrema rilevanza che in essi assume il gruppo parlamentare, che rappresenta, invece, solo uno degli aspetti di attività nei partiti leninisti, e nemmeno il più importante. Anche in questo campo la tendenza è progressiva nel PCI fino a giungere alle esperienze opportuniste moderne di PRC e PdCI in cui la rappresentanza parlamentare era praticamente sovrapponibile alla dirigenza del partito. La centralità del gruppo parlamentare va di pari passo con un ammorbidimento nella complessità dei processi di selezione della guida dal partito. Viene meno l’attenzione ad una gestione centralizzata e pianificata della politica dei quadri, strettamente legata ai processi di formazione politica dei dirigenti. Questi processi sono demandati sempre più spesso al gioco personalistico della popolarità esterna, oggi diremmo mediatica, acquisita nella competizione elettorale. La capacità di confrontarsi nella tribuna elettorale diviene così anche il metro del success interno al partito alterando completamente ogni processo dialettico di selezione della dirigenza che dovrebbe caratterizzare un partito comunista.
Diverse altre sono le caratteristiche organizzative dell’opportunismo connaturate all’accettazione della battaglia politica parlamentare come unico orizzonte. Tale finalità rende non necessari molti degli aspetti organizzativi essenziali in un partito con aspirazioni rivoluzionarie conducendo, ad esempio, allo svilimento della discussione e della critica interna, all’abbandono della disciplina di partito, ad una mancanza di centralismo democratico, alla concezione stessa del partito come una sommatoria di circoli territoriali e non, al contrario, essi come ramificazioni di un’organizzazione centralizzata. Queste condizioni vanno a configurare la differenza tra la costituzione di un partito leggero, spendibile unicamente nella battaglia parlamentare, utile alla sopravvivenza di una dirigenza opportunista, e un partito pesante, capillare nell’affrontare i diversi aspetti della propria vita interna.
Abbiamo trattato per ultimi questi aspetti organizzativi. Essi però non sono di minor rilevanza nell’analisi dell’opportunismo. Essendo la ricaduta delle scelte opportuniste sul piano organizzativo l’aspetto meno indagato, è anche quello del quale si è acquisita meno consapevolezza con il risultato che non sempre la critica politica dell’opportunismo ha condotto fino ad una critica completa dei modelli organizzativi propri di questa tendenza. Inoltre, la fase che il movimento comunista internazionale sta attraversando è caratterizzata dalla riduzione ai minimi termini delle organizzazioni comuniste in molti paesi, europei e non. Questa condizione fa sì che le tendenze opportuniste non si presentino sotto forma di rinuncia ad una fraseologia rivoluzionaria e di rottura con il sistema capitalistico, che rimane lettera astratta nell’impossibilità di dare immediato risvolto pratico a tali formulazioni, ma possano infiltrarsi nel lavoro di costruzione, che oggi è all’ordine del giorno, e di cui le scelte organizzative sono materiale essenziale.
Comments
E’ il mito della rivoluzione tradita, il quale mito produce sempre una mitologia corredata di fatti e avvenimenti particolari che svelerebbero senza ombra di dubbio il tradimento.
Quando io mi trovo davanti allo stesso schema di giudizio dinanzi ad ogni snodo della storia del movimento operaio e ad ogni sua vicenda storica, diffido istintivamente.
E’ indubbio che una potenzialità rivoluzionaria attende sempre un’organizzazione che sappia, suscitarla, interpretarla e dirigerla. E’ indubbio che nella crisi del primo dopoguerra il Psi fece da freno a queste potenzialità. Gramsci rilevò questa condizione e polemizzò, ma non si limitò a questo: in seguito riflettè più approfonditamente sulle condizioni oggettive e anche sui limiti e gli errori propri, della propria organizzazione.
Orbene, il fatto che lo schema meccanico della Seconda Internazionale: prima la rivoluzione democratico-borghese, poi il passaggio, rivoluzionario o gradualista, al socialismo non sia un dogma e che esso, in realtà, sia stato anche lo scudo dietro cui celare la subalternità e la passività opportunistica negli snodi rivoluzionari, schema giustamente infranto da Lenin e dai bolscevichi, non significa che esso sia stato o debba essere sostituito dallo schema opposto e simmetrico del salto sempre e comunque del passaggio intermedio e dell’azione rivoluzionaria insurrezionale immediata in ogni caso e in ogni circostanza. La linea giusta è da stabilire concretamente, valutando correttamente i rapporti di forza, nazionali e internazionali, e individuando il nemico principale verso cui dirigere l’azione, come Togliatti ha insegnato (ed è una lezione che ritengo utile e necessaria).
Nel caso dell’Italia del 1943 c’era nei centri operai del nord un nucleo operaio (organizzato dal partito comunista italiano, non dimentichiamolo) avanzato e rivoluzionario e una classe operaia insofferente della guerra, delle angherie, dei fascisti e dei padroni, in buona parte disposta a seguirlo. Il PCI non era ancora ben organizzato: quel periodo di lotte corrispondeva anche alla costruzione in itinere e al rafforzamento del partito. C’era però il resto delle masse lavoratrici e della piccola borghesia che era attendista e passiva nella fiducia al governo Badoglio, il quale ai loro occhi aveva sostituito i fascisti e avrebbe tirato fuori l’Italia dalla guerra. Erano sufficienti queste forze operaie del nord per una tattica insurrezionale e rivoluzionaria contro il governo Badoglio? E i tedeschi in Italia? E l’isolamento dei comunisti rispetto alle altre forze antifasciste sarebbe stato utile (ricordiamoci che già ai tempi del delitto Matteotti l’uscita del PCdI dall’Aventino, il non essere riusciti a porlo su una posizione più avanzata, non è stato considerato un successo, se non da Bordiga forse, ma una sconfitta)?
Paolo Spriano affronta tutti questi temi e problemi. Non rifugge affatto dal valutare le vicende connesse agli scioperi dell’agosto 1943, limitandosi a due righe alla fine della trattazione degli scioperi di marzo. Egli dedica, invece, almeno due capitoli per descrivere la situazione e i problemi dei 45 giorni badogliani, dal 25 luglio all’08 settembre, nel cui contesto i fatti di agosto vengono richiamati e inquadrati senza censura o imbarazzi, seppure non ricostruiti dettagliatamente come gli scioperi di marzo. Addirittura dedica uno di questi capitoli specificamente alla vicenda Roveda, al caso Roveda e alle polemiche che ne sono sorte. In questi capitoli affronta proprio l’atteggiamento e la linea del PCI dinanzi alla nuova situazione: alla natura reazionaria del governo Badoglio, con i massacri di cui si rende colpevole; alla necessità di muoversi anche sul terreno possibilmente unitario con le altre forze antifasciste, visto che una linea insurrezionale solitaria nelle condizioni di allora è ipotesi di pura fantasia (la forza c’è solo nei centri operai; lo stesso partito è ancora in via di organizzazione; l’apparato repressivo e militare fascista, seppure indebolito, è ancora presente e rappresentato dallo stesso Badoglio, tra l’altro, ma con una situazione interna e bellica in sviluppo ed evoluzione; i tedeschi sono in Italia con la loro forza militare).
Sono sempre i comunisti a promuovere le agitazioni, anche quelle di agosto. Ma non i comunisti in dissenso, secondo lo schema indicato presentati come frazioni minoritarie e inascoltate di veri rivoluzionari, giacchè la linea della pressione popolare e operaia era la linea del partito. Altra cosa era l’insurrezione. Certo, vi erano anche tendenze in tal senso e il partito non era un monolite, anche a causa di insufficienti fili organizzativi che bisognava ancora allacciare; il che lasciava localmente l’iniziativa alla spontaneità di nuclei scollegati che operavano in nome del partito.
Per quanto riguarda il caso Roveda, la sua posizione al vertice di un sindacato corporativo, non è stata affatto un caso di collaborazionismo traditore alla dipendenze di Badoglio. Questa posizione trovava giustificazione in alcuni obiettivi che il partito si prefiggeva (obiettivi sostanzialmente raggiunti, seppure nella dialettica azione di massa-azione politico istituzionale, sempre tenuta presente). Ogni compromesso si fa sempre con forze diverse da te e anche avversarie. Tutto ciò comporta sempre cessioni, ma cessione tattica non significa cedimento e capitolazione.
Per ciò che concerne la posizione del partito e di Togliatti riguardo all’azione dissuasiva di Roveda negli scioperi di agosto, riprendendo in mano la storia del PCI di Spriano si scopre, per es., che Togliatti fece sentire la sua disapprovazione da Radio Mosca con un discorso che di fatto smentiva quel tipo di azione e, indirettamente, la criticò anche attraverso la rivista spartachista da lui promossa e pubblicata in Francia. Questa è anche l’opinione di Luigi Cortesi, non solo di Spriano. Tutto ciò è documentato.
Non vorrei che su Togliatti si ripetesse l’operazione che si fa con Stalin, al cui impulso, alla cui onniscienza e onnipotenza, si attribuisce ogni minuto fatto della vita del partito, dello stato e della società.
Era sostanzialmente decisione del partito accettare la carica sindacale, ma era anche linea del partito non ridursi ad appendice di controllo badogliana sugli operai. Poiché ogni linea di partito è una realtà processuale che si realizza e si forma in tante azioni e attività dei suoi componenti, essa non si può ridurre ad un singolo fatto, azione o avvenimento che assurge a sineddoche di una realtà ben più complessa e articolata. Può accadere che un singolo fatto (o alcuni singoli fatti) non sia esemplificativo della realtà, ma fuorviante. In ciò la mia critica di astrattezza al commento di Eros Barone.
Dissento con lui su queste questioni, ma senza che venga meno la mia stima e la mia ammirazione nei suoi confronti. Da lui imparo e ho da imparare molto, ma ciò non impedisce che possa valutare diversamente alcuni problemi.
Non c'è esperienza storica concreta che, discostandosi necessariamente dalle previsioni e dalle aspettative e dagli schemi consolidati, non possa rientrare nel tradimento degli ideali.
La mia è solo una battuta e non intendo affatto accomunare le affermazioni argomentate di Eros Barone a quelle perentorie di un certo messianismo religioso.
Cercherò di approfondire gli spunti che offre Eros Barone, ma in tutti questi anni non ho modificato la convinzione che dietro a certi giudizi severi sull'esperienza del partito comunista italiano "togliattiano" operi la categoria che separa la dirigenza opportunista dalle masse rivoluzionarie. Non credo che la categoria del tradimento possa spiegare certi processi.
Ottima osservazione,
Lenin, un grande opportunista, con il suo partito bolscevico schiaccia i consigli sovietici.
Da buon riformatore, sostiene di essere un comunista, una tragica farsa, non c'è nulla di comunista nell'ex URSS.
Il comunismo è l'abolizione delle categorie del capitale.
Il riformismo è una controrivoluzione, che in ultima analisi fa risparmiare capitali.
Tuttavia, con la caduta del tasso di profitto del capitale non può diminuire in nessun momento della storia.
Cade quando le condizioni materiali della sua auto-riproduzione diventano impossibili.
La storia non è un piatto soggettivo e narcisistico che vi è ambientato, è un piatto mondiale per tutta la storia del mondo, che dal Neolitico fino alla fine del capitale è in movimento.
Quindi ci sono leggi oggettive.
E che il proletariato mondiale non deve mai dimenticare il ruolo dei bolscevichi nella repressione del comunismo una volta per tutte!
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Quanto agli altri errori di opportunistica collaborazione post bellica, vorrei ricordare ciò che avvenne in Francia nella redazione della costituzione: il PCF, che pure era entrato nel governo sino al 1947, cercó di presentare un suo testo alternativo di costituzione, ma fu sconfitto e la Francia si trovó con una costituzione interamente scritta dagli avversari.
È vero, in Occidente i partiti comunisti hanno operato (e teorizzato, ma sino a un certo punto) una politica socialdemocratica, ma in un contesto diverso da quello della Seconda Internazionale.
C'era l'Unione Sovietica, il suo blocco, la lotta di liberazione coloniale in atto. La politica socialdemocratica del PCI e del PCF va inserita in questo contesto, nel quale non ha mai significato tradimento opportunistico, ma articolazione del movimento comunista nel contesto mondiale, in un quadro mondiale ben preciso e diverso da quello degli anni '20 e '30. Ovviamente, tutto ciò sino a un certo punto, sia temporale che di contenuti. Il processo degenerativo c'è stato, eccome. L'imborghesimento, il mutamento della base di classe, gli errori e i cedimenti teorici, alla base della degenerazione sono reali. Ma attribuire tutto questo processo alla maturazione dei germi ideologici iniettati nel partito negli anni '30 e, soprattutto, alla presunta resa opportunistica del dopoguerra, lo ritengo astratto. Alla base di questi giudizi vi è la valutazione che la situazione fosse rivoluzionaria e che aspettasse soltanto una guida decisa. La situazione internazionale e l'intreccio di classe e dei rapporti di forza, invece, erano molto più complesse e complicate di quanto viene presentato.
È evidente che, sempre più nel tempo, al realismo tattico e strategico si veniva sostituendo un vero opportunismo; ma ciò non è stato solo il frutto della direzione opportunistica del partito di contro a masse potenzialmente rivoluzionarie: semmai è stato di più il contrario. Che vi fosse una frazione conseguentemente rivoluzionaria tra i lavoratori, nessun dubbio. Ma basta ciò per dire che la situazione è rivoluzionaria? Quali erano le reali aspirazioni delle masse nel dopoguerra? E quali erano le reali aspirazioni alcuni decenni dopo, quando, pur in clima di conflitto, la crescita economica e la creazione di una certa classe media, in senso americano, erano una realtà?
Il PCI di questo secondo periodo non era il PCI del dopoguerra e di Togliatti, già nella sua composizione di classe, prima che nella diversità teorica. La quale diversità teorica non è il semplice sviluppo conseguenziale e inevitabile dell'"opportunismo" togliattiano, ma il riflesso della base di massa più piccolo borghese (il partito dei professori, degli impiegati, dell'aristocrazia operaia. È vero, ogni vittoria elettorale in quel tempo era una sconfitta) divenuta base di classe.
marxismo-leninismo e il passaggio al revisionismo di stampo kruscioviano, spianando la via alla collaborazione con la borghesia. Si può dire che il resto della vicenda del partito nato a Livorno nel 1921 e sciolto nel 1991, con i passaggi intermedi delle successive metamorfosi, tutte di carattere opportunistico - PDS, PRC, DS, PD -, obbedisce alla "logica delle matrioske" ciascuna delle quali. a partire da quella più grande che le contiene tutte, contiene quella immediatamente più piccola: in tal modo è stato prodotto quel 'monstrum' centrista, borghese, filoimperialista e anticomunista che è l'attuale PD.