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Jacques Attali e il miglior governo del mondo

di Sebastiano Isaia

Alla ricerca del «miglior governo del mondo [che] dovrà farsi carico del pianeta e dell’umanità», Jacques Attali, probabilmente il guru della scienza sociale europea che, con Jacques Délors, più influenzò il dibattito politico dei progressisti del Vecchio Continente negli anni Novanta, nonché l’autore di frasi celebri come quella che segue: «Ma cosa crede, la plebaglia europea: che l’euro l’abbiamo creato per la loro felicità?», ma anche, dulcis in fundo, teorico del «poliamore», risposta tecno-scientifica alla deriva del Continente Amore nell’epoca della baumaniana vita liquida (forti delle nuove conoscenze sul cervello, gli scienziati già brevettato le «tecnologie di induzione dei sentimenti»); nel suo girovagare attraverso la storia millenaria dell’uomo, dicevo, Attali inciampa su una pietra molto dura, e per certi versi inaspettata. Questa: «La maggior parte di noi è incapace di utopia». Finalmente un personaggio che non ne vuol più sapere della grigia Realpolitik! Direte che sto scherzando. E infatti scherzo.

La confessione vale anche a tranquillizzare Massimo D’Alema, grande estimatore dell’economista francese già ai tempi dell’ingresso del Bel Paese nella moneta unica: Attali non è diventato pazzo. Egli è rimasto il «tecnocrate visionario» che elabora arditi progetti di riforma sociale assai apprezzati a “destra” come a “sinistra”.

Quanto in basso sia caduta anche la parola utopia, è sufficiente leggere la risposta che Attali dà all’impegnativa domanda che costituisce il titolo di un suo libro pubblicato nel 2013 (Fazi Ed.): Domani, chi governerà il mondo?

«Arriverà un momento in cui ci si imporrà questa realtà: il mercato non può funzionare correttamente senza uno Stato di diritto; lo Stato di diritto non può essere applicato e rispettato senza uno Stato; uno Stato non può durare se non è realmente democratico». Una filastrocca davvero commovente per uno che, come chi scrive, pensa che:

1. Il cosiddetto mercato (leggi Capitalismo) funziona correttamente quando genera profitti adeguati alla portata degli investimenti, e la stessa crisi economica riafferma, non contraddice, la “correttezza” della prassi capitalistica.

2. Lungi dall’aver liquidato i rapporti di forza, lo Stato di diritto continua ad essere essenzialmente una questione di rapporti di forza, sul versante interno, nei rapporti tra dominanti e dominati, e sul fronte esterno, nei rapporti tra gli Stati. Il diritto equivale a forza e, sotto questo aspetto, non c’è Stato che non sia «di diritto», checché ne dicano gli apologeti del Contratto Sociale. «Gli economisti borghesi dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto, e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma nel loro “Stato di diritto”» (K. Marx, Lineamenti). La stessa violenza connaturata al Potere Sovrano rappresenta il respiro del Diritto: essa si espande e si contrare sempre di nuovo per assicurare nelle diverse circostanze la migliore “ossigenazione” al corpo sociale.

3. Lo Stato, compreso quello democratico, è il feroce cane da guardia dei rapporti sociali capitalistici, è il Moloch che non esita a colpire chiunque osi mettere in radicale discussione lo status quo che vede gli individui nella disumana condizione di «capitale umano» da mettere in qualche modo a profitto. Tutte le volte che il Leviatano abbandona la carota e usa il bastone, il fucile e il carcere quando il conflitto sociale supera i bronzei limiti della Civiltà borghese, ebbene esso lo fa con piena legittimità, con il diritto che gli deriva dalla sua funzione storico-sociale.

4.La democrazia, compresa quella «realmente» tale auspicata, con gran sfoggio di originalità di pensiero, occorre ammetterlo, da Attali, non è che una delle forme politico-ideologiche che può assumere il Dominio.  Ciò che a mio avviso oggi deve prevalere nella riflessione critica intorno alla natura del potere sociale è il carattere necessariamente totalitario, e anzi sempre più totalitario, delle esigenze che fanno capo, magari attraverso mille mediazioni, alla sfera economica.

Nell’epoca della sussunzione totalitaria e planetaria degli individui sotto le esigenze del Capitale, discorrere di un governo del mondo «realmente democratico» mi suona addirittura cinico.

Per delineare «il migliore governo del mondo», secondo Attali «non basterà riformare uno Stato imperfetto: non c’è da prendere una Bastiglia, non c’è da rimpiazzare un sovrano, non ci sono ministeri o palazzi nazionali da occupare. L’aereo non solo non ha pilota, ma neppure cabina di pilotaggio. Non si può dunque pensare a un governo di questo genere in termini di presa del potere». In effetti, per come la vedo io, per il «governo del mondo» che ho in testa, il potere non si prende, ma piuttosto si abbatte per costruirne uno interamente nuovo attraverso una prassi emancipativa che per essere davvero tale deve porsi l’obiettivo minimo di superare l’orizzonte capitalistico, e questo ovviamente in una dimensione necessariamente mondiale. Come riconosce di fatto lo stesso Attali, la dimensione più adeguata al Capitalismo è il mondo, e perciò la risposta anticapitalistica deve necessariamente avere un analogo respiro geosociale, cosa che peraltro complica non poco il lavoro dei rivoluzionari attivi in questa epoca storica.

Inutile dire che dalle mie parti il Sovranismo Nazionale, compreso – direi soprattutto – quello di matrice sinistrorsa, non viene preso in considerazione nemmeno come “espediente tattico” in vista di una strategia “radicalmente anticapitalistica” (sic!). Né d’altra parte posso affettare serietà dinanzi a chi spaccia per “internazionalismo moltitudinario“ un europeismo che non supera di un solo millimetro la prospettiva politica di una Barbara Spinelli. Alludo a Toni Negri? Certamente. E non è certo un caso se tanto la progressista europeista quanto il “rivoluzionario” cognitivista si siano schierati a favore della candidatura del leader di Syriza  Alexis Tsipras a presidente della Commissione europea, in vista di «un’altra Europa, contro l’austerity e i nuovi nazionalismi» (Barbara Spinelli).

Per Toni Negri si tratta di «rompere tanto l’incanto neoliberale quanto il suo corollario, secondo cui l’unica opposizione possibile alla forma attuale dell’Unione Europea è il “populismo” anti-europeo» (Editoriale su EuroNomade); per me si tratta invece di mostrare come «l’incanto neoliberale», il «populismo antieuropeo» e la terza via comunarda abborracciata dai teorici del Capitalismo cognitivo si collochino sullo stesso miserabile terreno capitalistico. Oggi esattamente come ai tempi di Lenin, la parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa a rapporti sociali invariati o è «assurda e bugiarda», nella misura in cui viene confezionata con frasi pacifiste e progressiste, oppure è concepibile solo come il titolo di un programma ultrareazionario finalizzato a fare del Vecchio Continente uno spazio imperialistico in grado di competere adeguatamente con le altre aree imperialistiche del pianeta, in primis quella americana e quella cinese. Detto di passata, l’evocazione del Lenin formato 1915 vuole anche sfiorare l’evento (la Grande Guerra) che si celebrerà quest’anno, fra gesti scaramantici e nostalgie inconfessabili (se si esclude Paul Krugman) *.

Ma ritorniamo al nostro scienziato francese, il quale in attesa del «migliore governo del mondo» possibile, ritenuto peraltro da egli stesso «impossibile nel mondo reale», si accontenta di un risultato «più modesto e più pragmatico: la fusione del G20 con il Consiglio delle Nazioni Unite, ponendo sotto la sua autorità tutte le organizzazioni di competenza mondiale, come il FMI e la Banca Mondiale, e sottoponendo l’insieme al controllo dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Un simile trattato sta in due righe. Può essere adottato in una giornata». Vaste programme en effet, direte con il generale de Gaulle. Vasto ma semplicissimo da implementare, replicherebbe Attali, la cui ingenuità, che a me appare a dir poco imbarazzante, sembra far pendant con la sua assoluta ignoranza circa la natura dell’ONU, «un cesso» secondo la sobria e intelligente definizione di Giuliano Ferrara, «un covo di briganti» secondo una definizione a me più congeniale mutuata da Lenin e da lui coniata per la Società delle Nazioni. È mai possibile che una testa d’uovo del calibro di Attali creda davvero in quella mostruosa chimera (che peraltro somiglia un po’ al Super Imperialismo teorizzato da alcuni socialdemocratici durante la prima carneficina mondiale)? Eppure!

È vero, anzi verissimo: «La teoria del complotto è soltanto una manifestazione dell’impotenza dell’umanità nell’affrontare il suo destino». Ciò che ovviamente non può capire Attali (d’altra parte, perché dovrebbe?) è che il complotto ai nostri danni lo organizza tutti i santi giorni la società che ha nella ricerca del massimo profitto la sua suprema Legge. Esiste un’alternativa realistica a questo disumano destino? Certamente, ma purtroppo «la maggior parte di noi è incapace di utopia».

Il problema posto ultimamente da diversi scienziati sociali sembra essere questo: come ottenere gli effetti virtuosi di una guerra mondiale senza passare attraverso un conflitto mondiale armato. In effetti, molti economisti di fama mondiale si sono convinti che senza l’effetto tonificante di un grande shock sociale, paragonabile appunto a quello di una guerra mondiale, il Capitalismo non è in grado di superare quel destino di «secolare ristagno», per citare Alvin Hansen, di cui ha parlato Larry Summers, ex segretario al Tesero nel governo Clinton, in un convegno del Fondo Monetario Internazionale tenutosi nel novembre 2013.

«Negli anni Trenta del secolo scorso ci sono stati grandi progressi. Ma non sono bastati a porre termine alla Grande Depressione. C’è voluta la guerra» (Niall Ferguson, Il Grande Declino, Mondadori, 2013 p. 120). In un saggio del 1999, Paul Krugman sostenne la stessa tesi: «Negli Stati Uniti la Grande Depressione finì grazie a un ingente programma di lavori pubblici finanziati dal deficit, conosciuto sotto il nome di Seconda guerra mondiale» (Il ritorno dell’economia della depressione, Garzanti, 2001). Solo gli ingenui credono ancora nella leggenda metropolitana della Seconda carneficina mondiale come Guerra di Liberazione, secondo l’ideologia che allora i vincitori (USA-URSS) imposero ai vinti, Francia e Inghilterra comprese.

Ospite da Fareed Zakaria GPS (CNN) nell’ottobre del 2011, Krugman, critico “da sinistra” delle misure economiche varate dal «traditore» Obama subito dopo la sua elezione, attualizzò la cosa: «Se scoprissimo, diciamo, che gli alieni stessero progettando un attacco ed avessimo bisogno di una preparazione massiccia per contrastarne la minaccia, allora sul serio l’inflazione e il deficit del budget passerebbero in secondo piano e questa crisi finirebbe in 18 mesi. E se quindi scoprissimo, oops, che ci sbagliavamo, che non c’è nessun alieno, staremmo meglio». In mancanza di dittatori da eliminare, di democrazie da ristabilire, di torti da riparare e di proditori attacchi da vendicare, l’astuzia del debito pubblico incarnata da Krugman esigerebbe un attacco alieno. Pare che la cosa al momento non sia praticabile.

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