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carmilla

Memorie dall’Osteria Melotti

A dieci anni dalla scomparsa di Marco

di Fabio Ciabatti

foto marco smallMi perdoneranno le masse operaie e contadine se in questo articolo si parlerà anche di me. Ma questo è un omaggio personale ad un compagno, e soprattutto a un amico, scomparso dieci anni fa all’improvviso in un giorno di settembre, subito dopo essersi fatto una delle sue proverbiali e fragorose risate. Un omaggio così personale che ci finisco dentro pure io. Marco Melotti si affacciò alla politica nel ’68, quando era poco più che ventenne, partecipando all’occupazione della facoltà di Lettere della Sapienza di Roma e poi ai gruppi di studenti e operai che tentarono di avviare nella capitale interventi nelle fabbriche in alternativa alle organizzazioni sindacali riconosciute. Attraversò poi l’esperienza dei “gruppi”, su posizioni eterodosse se non apertamente critiche. Nel ’77 divenne, suo malgrado, una figura di riferimento del movimento romano. Le prime assemblee all’università le aveva infatti passate facendo casino insieme agli indiani metropolitani. Poi aveva visto alla presidenza di quelle assemblee chi, pochi anni prima, l’aveva espulso da Avanguardia operaia per deviazioni piccolo borghesi. Marco raccontava che scattò in lui una molla, quella che gli consentì di prendersi la sua rivincita (ebbene sì, aveva una memoria da elefante), ma soprattutto di immergersi completamente nelle mobilitazioni, fino alla fase finale in cui cercò di mantenere dritta la barra del movimento mentre rimaneva schiacciato tra la feroce repressione dello Stato e l’avventurismo della lotta armata. Senza mai aderire a nessuna struttura organizzata, fu dunque tra i più attivi nelle assemblee della facoltà di Lettere occupata e poi tra gli animatori della “commissione fabbriche e quartieri”, costituita all’università dopo la fine dell’occupazione.

Dalla commissione nacque poi il giornale Filo rosso di cui Marco fu il principale responsabile. Probabilmente fu tra i primi a prendere atto con lucidità che un’intera fase storica si era conclusa, come testimonia uno degli articoli di cui andava più fiero, “Tecnica di una sconfitta”, dedicato, quasi in diretta, all’amara vicenda dell’occupazione della Fiat di Mirafiori nel 1980. Venne poi l’attraversamento del deserto degli anni ‘80 con i vari tentativi di preservare sedimenti di soggettività politica e di memoria di quel soggetto collettivo che proprio ai cancelli della Fiat nell’’80 aveva visto sancita la sua definitiva sconfitta, grazie anche all’attiva complicità di Pci e sindacato (proprio al nefasto ruolo svolto dalle organizzazioni storiche del movimento operaio si riferiva il titolo del citato articolo). In questa logica ha continuato a confrontarsi attivamente con le principali esperienze di mobilitazione e intervento sociale e politico, come la nascita del sindacalismo di base e il movimento della Pantera nel 1990. Parallelamente ha proseguito nell’attività di intervento culturale militante, iniziata a metà degli anni ’70, che lo ha portato a organizzare e prendere parte a convegni e seminari (tra i risultati, il volume, da lui curato, Macchine e utopie, edito da Dedalo nel 1986) e a collaborare con diverse riviste della sinistra rivoluzionaria, Primo maggio, Collegamenti wobbly, Quaderni del NO e Incompatibili.

Marco non volle mai essere un politico di professione e neanche un membro in servizio permanente di quello che definiva “ceto politico di movimento”. L’intensità del suo impegno seguiva l’andamento carsico dei movimenti. Ma al momento giusto c’era sempre. Per il resto amava troppo la vita per consumarla appresso ad accanite battaglie politiche quando la posta in gioco era un piatto di lenticchie. Preferiva cazzeggiare con gli amici, soddisfare il suo insaziabile appetito (non a caso dagli amici era variamente appellato Ciccio, Palla, Pallina e via arrotondando), correre in macchina (al volante era un vero criminale). E soprattutto la sua attività preferita era quella di seduttore seriale, con la quale si riscattava gioiosamente dalle sue gambette poliomielitiche. Tra i suoi amici, quelli veri, il suo handicap era un oggetto di frequenti frizzi e lazzi su cui lui si faceva grasse risate. Amava ripetere che potevano pure chiamarlo diversamente abile, ma lui sempre zoppo rimaneva. Non lo diceva, però, con il risentimento di chi sentiva di aver perso qualcosa di irrecuperabile, ma con la consapevolezza che fare i conti con la sua fisicità lo aveva reso quello che era, caratterialmente più forte della maggior parte di quelli che si divertiva a chiamare “normodotati” (termine cui spesso seguiva la qualifica “del cazzo”). La necessità di guardarsi dentro lo aveva reso capace di una comprensione umana profonda, decisamente fuori dal comune, e di una straordinaria attitudine all’accoglienza, emotivamente calda. E per questo finiva per raccogliere intorno a sé una varia umanità che spesso zoppicava più di lui, psicologicamente parlando, e che lui aiutava a camminare. Persino Bombo, il suo bulldog, era un tipo un po’ problematico, tanto che veniva amorevolmente imboccato da Marco.

Anche così, animali a parte, si era popolata l’Osteria Melotti: una banda variegata e bizzarra che attraversava a tutte le ore, anche in sua assenza, la sua casa di Roma, per molti anni un porto di mare a metà tra la sede politica e il circolo amicale. Con il tempo la prima funzione venne sempre più relegata in secondo piano. La cerchia più stretta dell’Osteria era tenuta al pagamento di un contributo mensile per il “materiale di consumo”, una quota poco più che simbolica, almeno per i più, perché si trattava di una imposta progressiva in base al reddito dell’accolito (i pagamenti furono sospesi quando Marco ereditò dalla vecchia e poco amata mamma). Il brand dell’Osteria era ufficializzato da un ex libris con cui Marco marchiava i volumi della sua fornitissima biblioteca. Volumi che accumulava compulsivamente (insieme a dischi e cd) e che prestava solo dopo la registrazione, su un apposito quadernetto, del nome del mutuatario e della data di uscita del libro (non sai quanti non ne sono tornati indietro, diceva ogni volta, quasi a scusarsi). Marco, però, non era sempre un cioccolatino. Era una persona capace di grandi durezze. Le rotture con amici e compagni non sono state poche. E normalmente erano definitive, con tanto di ukase di espulsione dall’Osteria. Poteva poi essere un gran caccacazzi. Proprio per quella sua incredibile capacità di scandaglio psicologico non te ne faceva passare liscia una. E poteva essere davvero martellante. Ne so qualcosa.

Ho conosciuto Marco nel 1995 quando mi stavo per laureare. Avevo partecipato al movimento della Pantera, continuato a fare politica all’università e partecipato alla stagione politica dei centri sociali. Nel frattempo avevo studiato con impegno Marx interpretato anche alla luce dell’operaismo di Panzieri. La mia produzione teorico-politica era iniziata polemizzando con gli epigoni del post-operaismo di Toni Negri & C., cosa che mi avvicinò da subito a Marco che, con quell’area politico-intellettuale, aveva un conto aperto da molto più tempo di me. Attraverso Marco ho avuto accesso ad un ricchissimo repertorio di stimoli politico-teorici e di memorie di movimento. Le due cose indissolubilmente intrecciate. A Marco piaceva molto raccontare e raccontarsi, magari durante lunghe serate in cui non ti mollava anche se tu cadevi dal sonno o attraverso interminabili telefonate quando tu eri al lavoro e non potevi tirare la conversazione troppo per le lunghe.

Insomma, ho conosciuto Marco quando dovevo ancora decidere cosa fare da grande. Senza di lui oggi sarei probabilmente una persona diversa. Almeno un po’. Ciò nonostante il nostro primo incontro, quantomeno a suo dire, rischiò di essere anche l’ultimo. Per molto tempo, infatti, rimproverò a Lodi, la sua compagna di una vita, di aver preparato una cena troppo frugale per me e il compagno con cui ero andato a trovarlo. Ma come, arrivano i giovani e gli facciamo fare la fame. Questi non tornano più! Ovviamente la cosa io la venni a sapere un po’ di tempo dopo, mentre, all’epoca del fattaccio, della presunta scarsità del cibo non mi ero minimamente accorto. Un po’ di tempo fa sono stato a cena da Lodi. Mi ha raccontato di aver sognato Marco che ancora la rimproverava per quella cena troppo scarsa. Lodi, l’ho rassicurata, se lo sogni di nuovo digli che questa volta la cena era buonissima e, soprattutto, abbondante.

Superato il rischio di una prematura interruzione del nostro rapporto, ho iniziato a collaborare con Marco in quella che è stata la sua ultima grande impresa editoriale: Vis-à-vis. Quaderni per l’autonomia di classe. La rivista era nata a Bologna, grazie all’iniziativa dei compagni di via Avesella che a un certo punto lo avevano coinvolto in un convegno sul ’77. Di lì a qualche tempo Marco divenne l’animatore principale e l’informale caporedattore della rivista di cui uscirono in tutto 8 tomi (sempre più voluminosi e con caratteri sempre più piccoli da quando era intervenuto Marco), l’ultimo nel 2000. Seguì nel 2001 una breve pubblicazione monotematica che, nelle intenzioni, doveva essere la prima di una serie, denominata “i Karletti”, maggiormente adatta, rispetto ai volumi formato mattone della rivista, all’intervento nel movimento nato a Seattle. Il primo numero fu anche l’ultimo. Il titolo del fascicolo, Dalla morte della politica alla politica della morte, non deve aver portato molta fortuna. In quel lasso di tempo ho scritto molte cose a quattro mani con Marco. E quando dico a quattro mani intendo proprio che scrivevamo insieme, uno accanto all’altro nel corso di interminabili serate. Per Marco era una prassi abituale, ma non per me. Lui aveva uno stile spiraliforme che tornava e ritornava sulle stesse questioni, in un processo di avvicinamento graduale alle conclusioni, punteggiando l’argomentazione con un’infinità di spunti polemici. Molto anni ’70. Io avevo invece una modalità argomentativa che tendeva ad andare dritto al punto. Nascevano così lunghi duelli sulla scelta di una frase o addirittura di una parola. In genere vinceva lui, per sfinimento. Il mio ovviamente. Finito il nostro lavoro, arrivava talvolta la revisione di Lodi che si concretizzava, tra l’altro, nel tentativo di decimazione della ridondante falange di aggettivi cui Marco, però, risultava ogni volta particolarmente affezionato. Iniziava un’altra battaglia, in cui io spalleggiavo Lodi, che si concludeva con perdite inferiori a quelle inizialmente previste dalla nostra amichevole ma severa editor. Ricordo un unico caso in cui le cose filarono lisce e il testo risultò breve, essenziale, a tratti immaginifico. Probabilmente non è un caso che lo abbiamo scritto passata la mezzanotte, dopo che ero tornato da una cena di compleanno, sensibilmente obnubilato dall’alcol. Si trattava di un comunicato firmato Vis-à-vis (il primo di una lunga serie che seguì all’interruzione della pubblicazione della rivista) dal titolo “Seattle 1999: il baco o la talpa?”. Iniziò così la sua ultima grande battaglia politica con la partecipazione, appassionata ma critica verso le posizioni egemoni, al cosiddetto “movimento dei movimenti”, nato appunto a Seattle per contestare la globalizzazione capitalistica e proseguito con le mobilitazioni contro la guerra. I suoi crescenti problemi di mobilità limitarono la sua attività alla tessitura di una fitta rete di contatti, ordita attraverso numerosissime telefonate ed e-mail. “Karletto” era l’inconfondibile nome utente che compariva nel suo indirizzo di posta elettronica.

Quella definizione, “movimento dei movimenti”, non gli era mai piaciuta. Per Marco il movimento era uno, oppure non era tale. Perché per lui il termine movimento, se utilizzato in senso concettualmente forte, era praticamente sinonimo di soggetto collettivo rivoluzionario. Con questa espressione intendeva un insieme multiforme di attori sociali in grado di raggiungere l’unità, senza annullare la sua molteplicità, facendo perno sulla soggettività di un segmento di una determinata composizione di classe, capace, per la sua posizione all’interno del processo produttivo, di sostenere una conflittualità permanente e di esercitare un potere di veto nei confronti della valorizzazione capitalistica. Il paradigma, storicamente determinato, era costituito dall’operaio massa, analizzato sulla base delle suggestioni provenienti dall’operaismo di Panzieri (particolare rilievo dava all’inchiesta a caldo, cioè quella effettuata in prossimità di un evento conflittuale) e dal concetto di “gruppo in fusione”, proveniente dal Sartre della Critica della ragione dialettica. I soggetti sociali, soprattutto quando agivano come movimento nel senso sopra richiamato, erano secondo lui capaci di espressione autonoma e non avevano perciò bisogno di una coscienza o di una avanguardia esterne, del partito, per dare corpo a un progetto unitario di superamento dello stato di cose presenti. I comunisti, per Marco, dovevano sciogliersi nel soggetto collettivo rivoluzionario, quando esso si manifestava. I movimenti hanno però un andamento carsico e quando il soggetto collettivo si inabissa i comunisti non possono sostituirsi ad esso, ma possono soltanto “abbreviare le doglie del parto” di un nuovo soggetto, tessendo il filo rosso della memoria e sostenendo fattivamente la residua conflittualità di classe. In questo senso per Marco era fondamentale la “critica della politica” del giovane Marx (Althusser, con la sua rottura epistemologica tra il vecchio e il giovane Marx, non l’aveva mai digerito) attraverso la quale era possibile cogliere i meccanismi intrinsecamente alienanti della rappresentanza politica che portano all’espropriazione della libera capacità decisionale dei soggetti sociali. Il “cielo della politica” era per Marco il regno dell’astrazione, della separazione dai concreti rapporti sociali di produzione in cui la carica antagonistica della classe poteva trovare al massimo una mediazione al ribasso con gli interessi del suo irriducibile antagonista storico, il capitale. Era questa una lezione che aveva imparato sul campo, attraverso la critica pratica del ‘68 e del ‘77. Ma era anche una convinzione consolidata attraverso la frequentazione teorica dei numerosi rivoli della tradizione eretica del comunismo, tra cui spiccava senz’altro Maximilien Rubel con il suo Marx critico del marxismo. Un Marx libertario, anarchico, antigiacobino e per questo antileninista ante litteram. Lo spirito libertario non era però l’unica caratteristica che faceva di Marco un marxista atipico rispetto ai cliché di una certa ortodossia comunista. Infatti, sebbene ritenesse necessario partire dalle ristrutturazioni tecnologico-produttive per indagare le mutazioni della soggettività di classe, ciò per lui non significava che dalla composizione tecnica di classe si potesse dedurre automaticamente la sua composizione politica. Per questo diveniva necessario studiare la sfera dell’immaginario collettivo, una tematica che lo aveva portato ai confini del pensiero negativo per scandagliare l’importanza politica del lato pulsionale, irrazionale, emotivo dell’umano. Il tutto veniva interpretato attraverso la chiave di lettura offerta dall’“utopia concreta” di Bloch; attraverso, cioè, quella tensione umana a trascendere lo stato di cose presenti che affonda le sue radici non nelle fantasticherie individuali, ma nell’esperienza collettiva delle contraddizioni del presente e nella percezione comune delle effettive possibilità di liberazione che da queste contraddizioni scaturiscono.

Utilizzando le categorie blochiane, nei contributi politici e teorici di Marco la “corrente calda” e la “corrente fredda” del marxismo non rimanevano separate, ma tendevano ad amalgamarsi in una miscela talvolta instabile, non di rado esplosiva, quasi sempre originale. Eppure lui non si riteneva un intellettuale. Di sé stesso diceva che, da un punto di vista intellettuale, era un “abborracciato”. Raccontava di aver sempre cercato il suo Marx, per potersi limitare, come Engels, al ruolo di “secondo violino”. Purtroppo la sua ricerca non aveva dato l’esito sperato ed era stato costretto a impegnarsi più di quanto avrebbe voluto nell’elaborazione teorica (sospetto che in tutto questo discorso ci fosse anche una identificazione umana con il godereccio Engels maggiore di quella che gli riuscisse con il maniacale e a tratti monacale Marx). Anche grazie a questa sua infruttuosa ricerca mi è capitato di incontrarlo. Nei miei confronti credo abbia nutrito qualche aspettativa di troppo. Great Expectations a parte, penso che quell’insieme di percorsi politico-teorici che ho brevemente sintetizzato facciano irrevocabilmente parte del mio bagaglio intellettuale. Lungo alcune delle strade tracciate da Marco, per quanto a modo mio, credo di aver fatto qualche passo in avanti. E sono convinto di non essere stato l’unico. Perché sono veramente tante le persone che Marco ha incontrato, rincoglionito di chiacchere, raccolto con il cucchiaino, illuminato, sedotto, accolto, affrontato a brutto muso, stimolato, aiutato a formarsi umanamente, politicamente e intellettualmente. Ben scavato vecchio Karletto!

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