Nello specchio del capitalismo della formazione
di Luca Perrone
Recensione di Luca Perrone al libro del ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, "Nello specchio della scuola" (il Mulino 2020).
Nello specchio della scuola è un testo di carattere divulgativo edito da il Mulino nell'ottobre 2020 nella collana "Voci", e che potrebbe essere considerato come uno dei tanti contributi sulla crisi della scuola italiana, se non fosse per il suo autore, Patrizio Bianchi, neo Ministro dell'Istruzione del governo Draghi. Bianchi, come noto, è un economista, è stato Rettore dell’Università di Ferrara fino al 2010 e Assessore alle politiche europee per lo sviluppo, scuola, formazione, ricerca, università e lavoro della Regione Emilia-Romagna, e in questo ruolo nel 2010-12 ha progettato e realizzato la riforma della formazione professionale regionale, suo cavallo di battaglia. Dal gennaio 2020 è stato direttore scientifico della Fondazione Internazionale Big Data e Intelligenza Artificiale per lo Sviluppo Umano. Ha fatto parte del gruppo di lavoro per la gestione della ripartenza scolastica nell'ambito della pandemia Covid voluto dal precedente ministro Azzolina. Nel 2018 ha inoltre pubblicato il libro 4.0. La nuova rivoluzione industriale. Un curriculum di tutto rispetto che forse non ne fa il rappresentante apicale del capitalista collettivo, ma che va ben al di là della ingenerosa maschera di Crozza.
Nello specchio della scuola vale la pena di essere letto e discusso, e ha un interesse specifico per noi. Bianchi parte dall'assioma dello stretto legame fra l'educazione e lo sviluppo: «uno sviluppo socialmente ed economicamente sostenibile nel tempo si fonda sulla capacità di organizzare le competenze, le abilità manuali e il giudizio critico delle persone, e di trasformare queste in quel valore aggiunto che è la vera ricchezza di una comunità». Valore, ricchezza, persone, organizzazione, sviluppo: parole pesanti, mai neutre.
Infatti, mai come in questo testo nel dibattito pubblico degli ultimi anni è stato reso così esplicito e dichiarato il fatto che il sistema di formazione, complessivamente, è essenzialmente formazione di forza lavoro.
Bianchi proprio a partire dallo «stretto legame fra educazione e sviluppo», si interroga sulle cause profonde della minor crescita economica dell'Italia rispetto agli altri competitor della società globale. Per Bianchi è la difficoltà di formare nuove risorse umane adeguate a creare i maggiori problemi al sistema capitalistico italiano di fronte alle sfide della nuova economia basata sulla digitalizzazione della produzione e degli scambi, della "Quarta rivoluzione industriale" e degli straordinari processi di riorganizzazione della società ad esse collegate.
«Il vero vincolo - scrive Bianchi - è dato dalla disponibilità di risorse umane adeguate».
Risorse umane (forza lavoro, iper-proletariato) che dovrebbero essere dotate di quelle competenze (calde) rivolte alla risoluzione dei problemi complessi, alla capacità di diffondere conoscenze e competenze legate alla pervasività delle nuove tecnologie di connessione, alla predisposizione ad affrontare un cambiamento continuo, ma anche dotate di capacità critiche per affrontare questi cambiamenti e un futuro sempre più incerto, tutte capacità (in primis relazionali, affettive, timiche) che oggi sembrano essere sempre più irrinunciabili per lo sviluppo (capitalistico), in uno scenario caratterizzato, a partire dalla crisi del 2009, da un ridisegnarsi delle catene di valore a livello globale.
Il disastro educativo e sociale nel campo della formazione nel nostro paese viene fotografato nel testo in termini non solo di aumento della povertà culturale e della dispersione scolastica, ma è impresso nei dati che collocano l'Italia agli ultimi posti per livello di istruzione dell'Unione Europea (62% di italiani sono in possesso di diploma di scuola superiore contro una media UE del 79%; solo il 19% dei giovani tra i 25-34 anni possiedono una laurea o un titolo equivalente a fronte del 33% dell'UE; con differenze territoriali drammatiche tra nord e sud) e di investimenti nel campo educativo.
Secondo Bianchi il problema italiano, dello sviluppo italiano, è quello di essere caduto nella «trappola della bassa crescita», determinata nell'attuale società della conoscenza, da una riduzione delle risorse alla scuola, che a sua volta determinerebbe una riduzione di quelle competenze necessarie allo sviluppo economico, costringendo la società in un «circolo vizioso che perpetua una condizione di stagnazione che si traduce in disuguaglianza fra persone e fra territori». Questo è l'orizzonte del neo ministro dell'Istruzione. Per sfuggire alla trappola della bassa crescita la soluzione è quella di tornare ad investire massicciamente nella formazione, nella istruzione e nella ricerca e sviluppo. Staremo a vedere, verrebbe da dire... Oggi Patrizio Bianchi è Ministro di un governo di unità nazionale, il Recovery plan si sta predisponendo [1] e occorrerà studiarlo per capire quanto questo piano di investimenti e di riforme possano incidere realmente sul corpaccione della scuola.
Bianchi pone una domanda importante, che merita di essere raccolta: «A cosa serve la scuola nell'epoca di internet?» Non a caso, a questo tema, è stato dedicato il n. 9 di Jacobin Italia, intitolato provocatoriamente La scuola non serve. Ma il tema del senso della scuola e della formazione, deve essere posto in maniera rinnovata, non dandolo per scontato. Anche perché in questo senso la risposta di Patrizio Bianchi è molto esplicita: la formazione è fondamentale per lo sviluppo capitalistico.
Ad essere posta come centrale, dicevamo, in Nello specchio della scuola, vi è la questione del lavoro vivo, della sua formazione e qualificazione, e si evidenzia che la formazione della capacità-umana (merce) è la partita fondamentale dei prossimi anni per lo sviluppo (capitalistico). Perché di questo si parla, di Attività e Capacità umane che sono merci, con capacità che tendono e tenderanno ad essere sempre più macchinizzate. Questo in perfetta linea, ad esempio, con il rapporto Future of Jobs 2020 del World Economic Forum pubblicato nell'ottobre scorso, che stima che entro il 2025 a livello globale, 85 milioni di posti di lavoro possono essere sostituiti da un cambiamento nella divisione di lavoro tra uomo e macchina, cioè saranno persi e sostituiti da macchine, mentre potrebbero emergere 97 milioni di nuovi ruoli lavorativi. Da qui la convinzione che la formazione di questa enorme massa di forza lavoro sia un elemento centrale per il rilancio del capitalismo. Non si tratta più soltanto di riqualificare forza lavoro, ma di formare forza lavoro per ruoli che sono a oggi non solo nuovi, ma addirittura difficili da immaginare, vista l'accelerazione dei cambiamenti in atto, accelerazione che la crisi pandemica ha semplicemente aumentato. Questo evidentemente il significato per il livello del dominio del capitale dello slogan "che nulla sia più come prima", coniato con ben altre speranze…
Nel libro, edito nell'ottobre 2020, molto spazio ha la crisi Covid. E nella sua insistenza ad «approfittare dell’emergenza covid per risolvere i vecchi problemi della scuola che è fondamentale per tirar via il paese dalle secche della bassa crescita», Patrizio Bianchi rischia di vedersi etichettare come un esponente della Shock economy. D'altra parte spesso Bianchi fa riferimento alla sua esperienza maturata dopo il terremoto che ha colpito l'Emilia nel 2012, quando ha gestito il riavvio delle attività didattiche e la ricostruzione delle scuole dell’area colpite dal sisma, e ripropone più volte il parallelo tra terremoto e crisi Covid, con il corollario della filosofia spicciola che «agli shock si reagisce innovando e ritrovando un nuovo percorso». Non a caso, la prima uscita degna di nota del neo Ministro Bianchi si riferiva al mantenimento della «Dad anche dopo il Covid» [2]; una ovvietà che non era certo sfuggita a nessuno: la pandemia svolge un ruolo di sperimentazione di massa e di acceleratore di cambiamento non solo nel mondo della scuola, e quindi è evidente che tutto il processo di macchinizzazione della formazione che stiamo praticando lascerà profonde tracce nella didattica, nell'organizzazione, nella relazione educativa della scuola italiana e più in generale della formazione.
Per questo occorre ritessere una analisi della questione della formazione all'altezza della sfida. Anche perché attorno alla questione della scuola e della formazione qualcosa ha iniziato nuovamente a muoversi a livello profondo della società e in termini di prime timide mobilitazioni, come le azioni ancora embrionali del movimento "Priorità alla scuola", che sono un primo indizio che qualcosa in quel mondo sta accadendo, qualcosa che ha avuto per detonatore la crisi pandemica e che ha evidenziato come trent'anni di impoverimento della scuola pubblica siano stati davvero devastanti. Movimenti che non sembrano fermarsi alla richiesta di risorse (certo importanti) e di una modernizzazione della scuola, ma che stanno ponendo le basi per la ripresa per un discorso pubblico di massa sulla questione formazione.
Per questo, per ricostruire un nostro "punto di vista" su questo argomento, ci può aiutare il recupero del pensiero dell'ultimo Romano Alquati (di cui presto inizierà meritoriamente la pubblicazione delle opere da parte della casa editrice Deriveapprodi), sociologo torinese d'adozione scomparso nel 2010, noto soprattutto per i temi della conricerca e della composizione di classe legati alla sua esperienza nelle riviste operaiste Quaderni Rossi e Classe Operaia negli anni '60, ma che a partire dalla metà degli anni '70 e per tre decenni, ha approfondito un lavoro di analisi proprio sul tema della formazione. Alquati dipana dettagliatamente la trama della formazione nella “specificità” capitalistica (quel «fenomeno e processo e rapporto di grande complessità che è la Formazione nel Capitalismo»), formazione che assume nella neo-modernità capitalista una centralità strategica [3]. E, secondo il suo inconfondibile stile militante, propone le sue analisi sempre in termini di ipotesi da verificare in percorsi di conricerca.
Per Alquati la formazione [4] è Riproduzione allargata [5] del Valore della Capacità Attiva (e quindi anche lavorativa) umana, capacità “potente” di trasformazione, ricondotta dal capitalismo a capitale umano. «Formare - avverte Alquati - è cambiare qualcosa di rilevante nella soggettività della gente, oltreché nella sua competenza e cultura». Se la Formazione cambia e produce capacità umana, questa capacità riguarda la soggettività complessiva e non solo le competenze. Nel suo percorso di analisi che occorre riprendere, il processo di Formazione, proprio perché in realtà investe l'intera persona, con la sua complessità di desideri, aspettative, esperienze, storie, è per definizione ambivalente [6], ed è un processo che ha una sua politicità intrinseca, che si connette all'irrisolto carattere antagonistico dal rapporto capitalistico che è ancora presente oggi. E' in quell'ambivalenza che occorre inserirsi e che bisogna indagare. Anche perché gli stessi processi formativi, che hanno per obiettivo un Potenziamento della capacità-umana, spesso non offrono l'Arricchimento atteso di queste capacità, ma addirittura ci si trova di fronte a un loro Impoverimento.
Alquati sottolinea che spesso la "Formazione ufficiale" al di là di illusioni e credenze, è o può essere ridotta e riduttiva ed insufficiente per la persona [7] che viene coinvolta in questo processo, sia a livello individuale che collettivo. Inoltre la Formazione valorizza capacità umane usate da altri rispetto a chi le possiede, e per fini diversi da quelli della persona che ne è depositario, definendo così asimmetrie tipiche dei rapporti sociali capitalistici, asimmetrie potenzialmente antagonistiche, che lasciano intravedere momenti di Autonomia (che possono assumere anche la veste di percorsi di contro-formazione).
Attività e Capacità umane sono mercificate, perché sono alienate e vendute per bisogni dell'altro. D'altra parte «gli attori proprietari delle Capacità non potrebbero cambiare questa condizione che li svaluta pur potenziandoli (nella loro Capacità) senza ri-soggettivizzarsi antagonisticamente e ri-formarsi in questo movimento di ri-soggettivazione».
Appena abbozzato, è questo il quadro teorico che Alquati ci offre per collocare gli enormi processi di formazione che giovani e adulti si trovano ad affrontare ogni giorno (non solo nella scuola ma anche...) in una dilatazione della fase di formazione che coinvolge ormai la vita intera delle persone, come formazione permanente, a partire dalla scuola, fino all'università, ma che ha invaso ormai la dimensione dei media, della riqualificazione professionale, della formazione aziendale, delle piattaforme, della fascia 0-6 anni. Qui mercificazione della formazione e processi sempre più spinti di mezzificazione e macchinizzazione sono davvero esplosi, mantenendo però sempre quel carattere di ambivalenza che l'analisi di Alquati fa continuamente emergere.
Possiamo soffermarci brevemente sull'esempio più immediato (e più facile) di questi tempi, la didattica a distanza. Il tema dello scontro che ci viene proposto è quello tra chi è favorevole alla DAD (il ministro Bianchi che dice che la Dad continuerà dopo la pandemia) e chi, studenti e parte degli insegnanti, che sostengono che "la DAD non è scuola" [8]. Questa accelerazione della macchinizzazione e della mezzificazione della formazione che si è avuta durante la crisi Covid, dopo una grande aspettativa iniziale anche tra gli insegnanti, ha suscitato quel senso generalizzato di ostilità verso questo mezzo [9], che anziché arricchire come promesso il rapporto formativo ed educativo, lo ha impoverito, almeno nel senso comune di massa sia degli insegnanti che degli studenti (e dei genitori). Questo non vuol dire certo che la DAD (o meglio la Didattica Digitale Integrata, ma anche la didattica a distanza tout court) sparirà a fine pandemia, ma la percezione di massa della Didattica a distanza come di un mezzo-ostile esperita in questi mesi non sarà ininfluente e lascerà un segno che bisogna capitalizzare in un contro-percorso di formazione di massa. Anche perché «la Mezzificazione dell'Attività formativa potenzia e uniforma anche la Formazione, come ogni Attività umana, residua o nuova nel residuo medesimo; ma al contempo la sostituisce e divora incorporandola emulativamente e soprattutto imitativamente nei Mezzi, nel Capitale-mezzi e così capitalizzandola» [10]. Esperienza quest'ultima che stiamo facendo quotidianamente a scuola e che si consoliderà nei prossimi anni quando si moltiplicheranno formazioni per utilizzare al meglio le piattaforme e offerte di moduli per insegnare in DAD forniti dalle case editrici, ad esempio.
Non credo che ci interessi molto invece qui soffermarci sulle "ricette per la scuola del futuro" che Bianchi propone e che articola nel capitolo finale Tre questioni e dieci temi per un dibattito nazionale sulla scuola e sullo sviluppo [11], mentre più importante sarà probabilmente cercare di capire la direzione delle politiche sulla formazione tratteggiate nella (bozza) del Recovery plan del governo Draghi, con cui dovremo confrontarci nei prossimi anni.
Le proposte di Bianchi colpiscono spesso per la vaghezza di contenuti. Non basta certo dire che la scuola nell'epoca di internet «deve essere il luogo in cui far crescere capacità critiche, visioni del mondo oltre il presente, il luogo in cui affrontare un futuro che appare come non mai incerto e fragile», oppure scrivere che occorre «pensare innanzitutto ai contenuti e ai modi di una didattica che sia veramente inclusiva», affinché si insegni ai «nostri ragazzi» a «fare comunità, cioè a ricomporre diritti e solidarietà». E' chiaro però che anche in questo si coglie un'ambivalenza, perché anche per noi è necessario superare il concetto di “classe”, aula, disciplina, materia, ecc. e questo è il minimo per rimettere in discussione la scuola anche da parte nostra. Certo che occorre «uscire dagli schemi concettuali del Novecento, dalla scuola basata su programmi, orari, discipline strutturate da ordinanze e disposizioni centrali», ma con quali mezzi e per quali fini? Queste dichiarazioni si rivelano parole buone per una intervista, ma che cosa vogliano dire in pratica, in una scuola che ha smarrito il senso della sua missione, sommersa dal precariato, dall'aumento delle diseguaglianze culturali e sociali, è difficile da stabilire. Sarà sufficiente una iniezione di STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), di digitalizzazione e di corsi sul problem solving a rimettere in sesto la baracca? Si apre probabilmente una fase di trasformazione della scuola. Se è così conviene accettare quel terreno di scontro per rilanciarlo, iniziando anche noi a discutere quale scuola ci serve al tempo dello sfruttamento dell'ipercapitalismo e per fare cosa. La conricerca è una pratica per iniziare questa discussione.
Bianchi sembra riproporre l'illusione socialdemocratica in cui «tutti i cittadini partecipano alla ricchezza delle nazione», così lontana dalla realtà, rifacendosi al suo mito fondativo, quell'articolo 3 della Costituzione che indica come compito della Repubblica di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana» e che avrebbe dovuto avere nel sistema scolastico il suo strumento principale. A definire il carattere illusorio di questa eterna promessa riformista, basta dare un'occhiata a Il Sole 24 Ore di domenica 28 febbraio 2021, che, rilanciando in prima pagina come apertura un'indagine dell'Inapp (l'Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche), titola "Scuola, solo il 12% di figli laureati se i genitori sono poco istruiti" (titolo, per inciso, colpevolizzante nei confronti dei genitori meno istruiti...). Oppure bastava scalare le decine di statistiche che l'economista francese Thomas Piketty nel suo recente libro Capitale e ideologia dedica all'abbandono scolastico delle classi popolari a partire dagli anni '80, all'impatto del sistema legale, fiscale e dell'istruzione sulle diseguaglianze sociali, alle diseguaglianze nell'accesso all'istruzione.
Bianchi riconosce tutti gli elementi che Piketty indica come il limite maggiore del fallimento del progetto socialdemocratico senza trarne la logica conseguenza rispetto alla sua «uguaglianza incompiuta», semplicemente riproducendone i miti e puntando tutto sulle risorse europee.
Eppure, si sente che trapela il dubbio quando, dall'alto del suo osservatorio privilegiato della Fondazione Internazionale Big Data e Intelligenza Artificiale per lo Sviluppo Umano, osserva il capitalismo reale in cui, a fianco di attività ad alto valore aggiunto, «sussistono attività talmente povere di competenze da non giustificare l'acquisto di complesse macchine automatizzate o di conoscenze tecniche più elaborate», divaricazione che predispone a acute polarizzazioni sociali.
Per concludere, la lettura di questo testo ci indica come la formazione è e sarà sempre più un terreno centrale nel processo di valorizzazione capitalistica, riconsegnando un ruolo importante a uomini e donne che saranno costretti a intraprendere percorsi volti a modificare e potenziare le loro capacità umane e lavorative.
Per questo occorre attrezzare il lavoro militante in questa direzione. Sapendo che il contesto, che Alquati trasforma in una ipotesi di lavoro politico, è che «la Formazione odierna induce gli Attori a massimizzare come singoli il Valore della loro Capacità in una situazione che li svaluta collettivamente e in cui la concorrenza fra loro è per spartirsi una remunerazione, non solo monetaria, che è sempre più bassa del Valore della loro Capacità complessiva» [12]. In questa contraddizione sistemica occorre insinuarsi.
Comments
In questo senso, è possibile affermare che il modello epistemologico che ha orientato le riforme scolastiche e, in particolare, la concezione, ad esse sottesa, del rapporto tra scuola ed economia di mercato, è rimasto sostanzialmente lo stesso da Berlinguer alla Moratti e da quest’ultima a Bianchi, come si desume 'ad abundantiam' dal libro qui recensito, mentre sono stati in qualche misura differenti i fini
politico-sociali di tali riforme. La tendenza è stata ed è quella di creare sistemi formativi a due marce, delle quali una è sincronizzata sul tradizionale mercato fordista e l’altra è calibrata in funzione di un mercato postfordista. Si tratta, cioè, di una politica malthusiana e tecnocratica che poggia su una strategia di contenimento delle spesa pubblica nel campo dell’istruzione e di riduzione drastica dell’impegno statale verso la scuola, e che si muove pertanto in direzione di un sistema formativo integrato, ossia di un sistema misto pubblico-privato dell’istruzione, in cui la stessa scuola statale, chiamata a rimodellare i suoi assetti secondo i sistemi organizzativi d’impresa, deve attrezzarsi per consentire al paese di affrontare, in quanto nazione a rischio formativo, le sfide poste dal mercato capitalistico mondiale. La domanda strategica che occorre porsi è allora se la forma-scuola favorisce od ostacola la relazione educativa tra i docenti, mediatori del curricolo esplicito e formale, e gli studenti, portatori di un curricolo implicito e informale, in altri termini se i saperi e i linguaggi formalizzati della nostra epoca trovano una mediazione flessibile ed efficace, pur preservando il rigore concettuale e la coerenza semantica che sono propri dello statuto epistemologico delle discipline, nel lavoro didattico organizzato. L’impressione, che spesso diviene certezza, è invece che questo aspetto concreto della ricostruzione dei codici culturali e simbolici, in cui consiste il valore cognitivo, etico e metariflessivo dell’attività formativa che ha luogo nella scuola, venga, ancora una volta, sacrificato a una visione tecnocratica protesa a trasporre meccanicamente in essa un metodo che, tra l’altro, non sempre si rivela efficace nella produzione di merci: un metodo basato sull’idea che il mutamento di processo è di per sé un’innovazione di prodotto. Ma se la scuola viene concepita come lo spazio metaforico di una rielaborazione cognitiva e affettiva, fondata su esperienze di stupore e di scoperta del mondo, è difficile considerare il prodotto che essa fornisce come un prodotto replicabile in dimensioni seriali, senza contare che quella visione è antitetica ad una rappresentazione della scuola che la configuri, secondo il grande principio di Comenio: ‘omnia omnibus omnino’, come un’‘utopia concreta’ offerta a tutti. In questo senso, due indifferibili esigenze, peraltro intrecciate tra di loro, oggi emergono dal mondo della scuola: ridare un ruolo all’istituzione e indicare a tutti coloro che operano nella scuola e, in particolare, agli insegnanti ragioni non solo sufficienti ma anche cogenti per impegnarsi in un lavoro quotidiano che sia riscattato, grazie ad un potenziamento di senso e di significato, dai rischi della banalizzazione culturale, della burocratizzazione istituzionale, del cretinismo digitale e della deprofessionalizzazione didattico-pedagogica. Questo implica la capacità di delineare un modello di scuola non solo idealmente alternativo a quello di tipo 'catastrofale' e produttivistico delineato, sulle orme dei suoi predecessori, dal ministro Bianchi, ma anche praticamente operativo e quindi antitetico rispetto a quella sorta di autoschediasma tanto seriale quanto dispersivo che è la "didattica a distanza". A questo proposito, è allora importante recuperare, sul piano del rigore epistemologico e della concretezza operativa, la lezione di uno studioso di teoria dell'organizzazione, anche lui emiliano, purtroppo scomparso prematuramente: Piero Romei.