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sinistra

La militarizzazione delle scuole, la cultura della difesa e la forma della guerra

di Serena Tusini*

Militarizzazione delle scuoleL'Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole sta registrando un crescendo impressionante di segnalazioni da ogni parte d’Italia: le occasioni di contatto tra student* e militari si moltiplicano e si dispiegano in attività diversificate adattandosi ai diversi ordini di scuola (non manca la scuola dell’infanzia, affiancata da primaria e secondaria di primo e secondo grado).

Questo tipo di interventi non rappresenta una completa novità, ma è innegabile che negli ultimissimi anni il fenomeno sia in netto aumento; la Difesa da tempo sta investendo molto, anche economicamente, nel rapporto con la società civile tutta e il Ministro Crosetto ha recentemente rilanciato con l’istituzione del “Comitato per lo sviluppo e la valorizzazione della cultura della difesa”. 1

A cosa è dovuto questo imponente investimento da parte dello Stato? In che contesto si colloca e cosa si prefigge?

Sarebbe profondamente sbagliato ascrivere tale implementazione all’avvento del governo Meloni: benché la conquista del governo permetta alla cultura guerrafondaia delle destre di intervenire nel dibattito pubblico con maggiore tracotanza, il fenomeno inizia precedentemente ed è assolutamente bipartisan. La “cultura della difesa” infatti non è un artificio della politica politicante, ma è un’esigenza strutturale che ha le sue radici nell’attuale fase del capitalismo e nello scontro tra imperialismi oggi in atto.

Per rispondere infatti alle domande sopra formulate, occorre focalizzarsi sul cambiamento che ha interessato la forma guerra dalla caduta del muro di Berlino, tenendo presente che essa è sempre espressione dei rapporti sociali e permea di sé la relazione che le classi dominati stabiliscono con i subalterni sia a livello nazionale che sovranazionale.

Per anni abbiamo visto dispiegarsi guerre asimmetriche: le molte guerre che si sono prodotte (ex Jugoslavia, Kossovo, Afghanistan, Iraq, Libia) sono state guerre giocate sul grande vantaggio tecnologico del mondo occidentale; l’asimmetria delle forze in campo aveva prodotto delle vere e proprie “guerre lampo”: l’operazione NATO nella ex Yugoslavia parte il 30 agosto 1995 e si conclude il 20 settembre 1995; in Kossovo la Nato interviene nel marzo 1999 e il conflitto si chiude a giugno; la guerra in Afghanistan, iniziata nell’ottobre 2001, vedeva già a novembre la caduta di Kabul; la seconda guerra del Golfo inizia il 20 marzo 2003 e il 1 maggio già il presidente Bush dichiarava la conclusione delle operazioni; in Libia l’intervento internazionale iniziava a metà marzo del 2011 e a ottobre era già cessato. Questa tipologia di guerra non richiedeva un esercito ampio, bastavano dei top gun, super addestrati e in grado di utilizzare le tecnologie avanzate di cui gli avversari non disponevano; in alcuni casi queste guerre lampo potevano anche trasformarsi in guerre a bassa intensità e/o guerre ibride, a seconda se le regioni destabilizzate lo richiedessero e potevano rimanere tale per molti anni, per poi magari sfociare in ritirate precipitose, come accaduto in Afghanistan. In questi scenari le perdite umane occidentali sono state, nel complesso, decisamente contenute e spesso maturate nella fase successiva alla guerra guerreggiata.

Oggi questa tipologia di guerra è profondamente messa in discussione: le prime avvisaglie si sono viste con la guerra in Siria, quando nel 2014 la coalizione internazionale a guida americana, che ha l’obiettivo di rovesciare Assad, trova sulla sua strada il supporto che ad Assad fornisce la Russia e anche quello della Cina che invia delle navi militari, tanto che gli USA annunciano il ritiro nel 2018, mentre Assad continua ancora oggi a guidare un paese profondamente distrutto. Non una guerra lampo dunque, ma una guerra lunga, che vedeva pericolosamente contrapposte le principali forze militari mondiali.

Ciò che si è sviluppato in Siria si sta riproponendo in misura ancora maggiore nella guerra in Ucraina, anch’essa ormai una guerra lunga e che anzi ci viene presentata costantemente come una guerra che non si risolverà in tempi brevi. La forma della guerra dunque è cambiata: non siamo più di fronte a guerre asimmetriche; oggi la guerra è scesa a terra e recupera i caratteri classici di guerra tra nazioni dello stesso peso: i relativamente pochi top gun sono affiancati da decine e decine di migliaia di soldati, la simmetria delle forze in campo richiede la conquista del terreno palmo a palmo e, per quanto la propaganda sia una fitta nebbia dentro la quale è difficile districarsi, vediamo che il numero dei morti, e precisamente dei morti militari, è enorme e non bastano più i contractor, mercenari organizzati in vere e proprie compagnie di ventura contemporanee, che abbiamo imparato a conoscere.

Si tratta dunque di una vera e propria svolta nella forma della guerra, svolta determinata dalla tipologia del conflitto in atto e della sua posta in gioco: la rideterminazione delle egemonie a livello globale passa necessariamente da un confronto tra le grandi potenze e questo confronto ha già raggiunto lo step più pericoloso, quello dello scontro armato il quale si dispiega in forme nettamente differenti dalle guerre del primo decennio degli anni Duemila.

Tale cambiamento della forma della guerra ha decisive implicazioni anche per le popolazioni delle coalizioni militari impegnate nel conflitto.

 

La forma della guerra, la sua narrazione e la cultura della difesa

Gli stati impegnati nelle coalizioni delle guerre asimmetriche, per la velocità delle operazioni e per l’esiguità delle perdite umane occidentali, non avevano la necessità di avere dietro le spalle un forte appoggio delle loro popolazioni; erano anzi guerre in qualche modo negate di fronte alle proprie opinioni pubbliche, guerre che non dovevano nemmeno apparire tali, “guerre umanitarie” o “operazioni di polizia internazionale”; le loro vittime, massimamente civili, non dovevano apparire, se non in modo indistinto. La nuova forma della guerra invece ha altre necessità: di fronte a una guerra che tende ad essere una guerra totale, che si prospetta come un lungo conflitto guerreggiato, è assolutamente necessario l’appoggio delle popolazioni delle nazioni coinvolte perché i cittadini devono essere pronti a sopportare i sacrifici che la guerra comporta da un punto di vista economico e l’obiettivo del 2% del PIL e il conseguente disinvestimento in stato sociale indica l’enormità delle risorse economiche coinvolte. È dunque imprescindibile una forte azione di propaganda: nelle nostre case, a differenza di quanto succedeva prima, entrano quotidianamente immagini ben definite delle vittime, che ci parlano della loro disperazione guardandoci negli occhi; la narrazione della guerra punta dritta a muovere la nostra empatia perché questa guerra, a differenza delle guerre asimmetriche, deve essere molto presente nel nostro quotidiano. La narrazione del conflitto in Ucraina sta mettendo in scena un livello di manipolazione e propaganda che già aveva dato prova di sé nel periodo pandemico: pochissime le voci, anche solo lievemente critiche, ammesse nella discussione pubblica su stampa e TV e su tutto l’accusa di “putiniano” a chiunque provi anche semplicemente a ragionare sul conflitto, un’occupazione unidirezionale del dibattito pubblico funzionale a creare adesione alla politica atlantica di sostegno all’Ucraina.

Ma una guerra che tende ad essere totale non può costruire il consenso delle popolazioni solo attraverso l’esibizione del dolore delle vittime; è necessario che i cittadini riattivino una identificazione con l’esercito, che lo percepiscano come parte integrante e positiva della nazione. Da qui l’esplosione della presenza di uomini e mezzi militari nelle nostre città nelle più svariate occasioni, momenti in cui l’esercito viene presentato con il suo volto positivo, quale strumento essenziale nelle situazioni di emergenza (soccorso nelle calamità, hub vaccinali, operazione strade sicure, trasporto organi per trapianti, ecc.) o come settore trainante dell’economia in varie sfaccettature. Questi militari si presentano di fronte ai cittadini come impegnati in svariate attività, tutte positive; i militari sembrano fare di tutto tranne che la guerra: niente si racconta rispetto alle missioni di guerra che vedono impegnata l’Italia in varie parti del mondo o di cosa significhi o abbia significato, nel concreto del tessuto vivo dei popoli, la guerra. La campagna di comunicazione è ben avviata e ben finanziata, è diventata sempre più capillare, nelle piazze italiane, ma anche nella piazza televisiva dove in quattro puntate (molto seguite) è andata in onda la docu-serie Basco Rosso, degna del miglior Kubrik di Full Metal Jacket, dove l’umiliazione costante degli aspiranti “cacciatori” è stata veicolata come valore positivo con cui formare i giovani, insieme all’esaltazione dei valori fondanti delle forze armate e dunque dei concetti di Patria, Nazione, Sacrificio, Coraggio, Dedizione, Amore per la Bandiera, per l’Inno, ecc.

 

La forma della guerra e la militarizzazione delle scuole

E c'è di più, perché, oltre e insieme a tutto questo, è necessario lavorare ulteriormente in profondità, è necessario cioè riattivare questi “valori” fondanti delle forze armate ed è proprio con questo obiettivo che la Difesa ha da tempo individuato nelle scuole un terreno da arare: a partire dalla scuola dell’infanzia fino agli Istituti Superiori non si contano gli interventi di esercito e forze dell’ordine; uomini e donne in divisa che vengono a contatto con bambin* e ragazz*, che si presentano sotto la faccia buonista, che mai accennano alla “mission” principale delle forze militari (la guerra), che a seconda delle età di riferimento fanno costruire cartelloni, parlano di Costituzione, esaltano il ruolo delle forze armate nelle guerre passate, ecc. La cultura della difesa attecchisce meglio in età e luoghi predisposti all’apprendimento e sono le stesse forze armate a pressare le scuole, ad avere un programma serrato di penetrazione, aiutate dallo stesso ministero o dagli uffici scolastici regionale e provinciali che premono sui presidi che a loro volta premono sui docenti. E così sempre più spesso assistiamo a scene degne del ventennio, con bambin* e ragazz* che, con la mano sul cuore, cantano l’inno nazionale alla cerimonia dell’alzabandiera attorniati da militari.

Da questo punto di vista il territorio della scuola si rivela strategico per respingere la cultura della difesa: come conciliare la funzione costituzionale e istituzionale della scuola pubblica italiana con la presenza al suo interno di militari e della cultura militare? Come conciliare i Piani dell’Offerta Formativa (e/o i Patti di corresponsabilità con le famiglie), che riportano sempre l’importanza della pace e dell’educazione alla pace, con attività “didattiche” svolte da militari? La contraddizione è talmente forte ed evidente che la scuola rappresenta un luogo privilegiato da cui contrastare la cultura della difesa: la scuola è molto importante per loro, ed altrettanto forte deve essere su questo terreno l’organizzazione della resistenza.

Ma se tutto questo non bastasse, c’è ancora un altro motivo, preciso, concreto, stringente per il quale la forma contemporanea della guerra ha bisogno delle nostre scuole.

Per comprenderlo occorre spostare l’attenzione sulle riforme che si stanno dispiegando in merito al reclutamento nelle forze armate, in particolare occorre attenzionare non solo le dichiarazioni di Meloni, La Russa e Crosetto che hanno cominciato a parlare pubblicamente di mini-naja volontaria, ma quello che normativamente è già stato prospettato dall’agosto 2022 con la legge 119 (votata da tutte le forze politiche: su 387 presenti, solo tre astenuti e nessun contrario), quella legge che rinvia di dieci anni la riduzione del numero delle varie forze armate in Italia che era prevista entro il 2024; in questa legge, che riforma in parte il reclutamento, sono previste delle deleghe al governo tra cui particolarmente importante l’articolo 9 c. d in cui si prevede la costituzione di una riserva ausiliaria dello stato, i cui contorni saranno appunto definiti per decreto che deve essere approvato entro 12 mesi, cioè entro agosto 2023. Vedremo il decreto, ma il progetto è chiaro ed è assimilabile a ciò che accade in altre nazioni dove non c’è la leva obbligatoria: si tratta di avere dei cittadini che non sono a tempo pieno militari, ma che, dopo aver svolto un periodo di addestramento, tornano alla vita civile e vengono richiamati per un numero stabilito di giorni ogni anno; in caso di necessità questi cittadini hanno l’obbligo di leva (nessuna opinione pubblica potrebbe tollerare perdite umane se non su base volontaria) e per incentivare questo riserva ausiliaria sicuramente verranno inseriti vari incentivi (le anticipazioni di stampa rilasciate da La Russa parlano di punti per la maturità per tutti i tipi di scuola, una serie di incentivi per la laurea, come un esame in più o un vantaggio a livello di formazione e un punteggio aggiuntivo per tutti i concorsi pubblici”. Altre anticipazioni insistono su sgravi fiscali per i datori di lavoro e per i lavoratori stessi, vantaggi pensionistici, riserve posti di lavoro, ecc. Vedremo i dettagli, ma quello che è chiaro è che puntano a reclutare molti giovani, garantendo una formazione simile a quella scolastica o comunque spendibile sul mercato del lavoro, legandoli poi al richiamo sia per l’addestramento sia in caso di conflitto ( I militari della riserva hanno obblighi di servizio soltanto in tempo di guerra o di grave crisi internazionale2 ). E tutto questo impatterà in modo importante sulle scuole, soprattutto nelle zone del paese in cui più drammatica è la disoccupazione.

Ci aspettiamo dunque una forte implementazione della presenza dei militari nelle scuole italiane, sia verso bambin* (che evidentemente sin da piccoli devono sognare di fare i militari) che soprattutto verso i ragazzi e le ragazze delle scuole medie e superiori, vero bacino di reclutamento. Anche da questo punto di vista l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole è perfettamente posizionato per provare ad arginare questa pericolosissima invasione di campo.

Ma ci aspettiamo un’implementazione della presenza dei militari anche nelle strade e nelle piazze, nel tentativo di rilanciare con forza la positività delle forze armate secondo i dettami della cultura della difesa.

Crediamo però che, dopo trent’anni di neoliberismo, dopo che le classi subalterne sono state abbandonate a se stesse da una politica di feroci privatizzazioni che ha ingrassato i grandi e impoverito i medi e i piccoli, non sarà per loro facile centrare l’obiettivo di riavvicinare i cittadini a una patria, a una nazione che viene sempre più percepita come del tutto staccata dagli interessi materiali delle classi subalterne e sempre più espressione di lobby di potere con qualche differente colore politico, ma sostanzialmente espressione dei medesimi interessi materiali.

Quali cittadini potranno seguire una nazione i cui rappresentanti sono ormai votati da poco più della metà degli aventi diritto e sono percepiti, giustamente, a una distanza siderale dai bisogni materiali della grande maggioranza? Il neoliberismo ha prodotto uno iato, sta facendo scricchiolare lo stesso modello di democrazia rappresentativa borghese; in questo iato i pacifisti devono sapersi inserire e lavorare affinché l’escalation militare sia fermata, affinché i guerrafondai che soffiano sul fuoco di una nuova guerra mondiale si sentano le spalle scoperte e temano che l’innesco di una guerra di proporzioni molto ampie possa far vacillare il precario piedistallo sul quale poggiano oggi le malate democrazie occidentali.


* Cobas Scuola autoconvocati La Spezia-Massa Carrara

Note
1 Istituito il 6 marzo 2023 con il compito di promuovere la cultura della difesa: “ La diffusione di una cultura della Difesa è strumento essenziale di implementazione del Programma del Ministro della difesa non solo per valorizzare al massimo l’operatività dello strumento militare nazionale ma, altresì, per diffondere sia a livello istituzionale sia nella collettività, i valori che connotano l’agire e l’essere del personale della Difesa”. Presieduto dal Ministro della Difesa, è composto da: Geminello Alvi (economista), Giulio Anselmi (Presidente dell’agenzia di stampa “ANSA”), Pietrangelo Buttafuoco (scrittore), Anna Coliva (storica dell’arte), Pier Domenico Garrone (Consigliere del Ministro), Michèle Roberta Lavagna (Professore ordinario del Politecnico di Milano, Dipartimento di Scienze e Tecnologie Aerospaziali), Giancarlo Leone (Presidente Associazione Produttori Audiovisivi), Angelo Panebianco (editorialista), Vittorio Emanuele Parsi (Professore ordinario dell’Università cattolica del Sacro Cuore e Direttore dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni internazionali della medesima Università), Angelo Maria Petroni (Segretario generale Aspen Institute), Gianni Riotta (editorialista), Fabio Tamburini (Direttore de “Il Sole 24 ore”), Antonio Zoccoli (Professore ordinario dell’Università di Bologna, Presidente dell’Associazione Big Data), Filippo Maria Grasso (Direttore Relazioni Istituzionali di Leonardo).
2 Articolo 887, comma 2, del codice di cui al decreto legislativo n. 66 del 2010

Comments

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Jerry Polemica
Friday, 28 July 2023 20:55
A parte lo snervante uso dell'asterisco come finale di parola, vorrei segnalare agli estensori dell'articolo che la parola "implementare" non significa quello che sembrano credere, ed è usata del tutto fuori contesto.
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Giueseppe
Friday, 28 July 2023 20:41
La cultura guerrafondaia della destra? A parte che, come diceva Giorgio Gaber, dov'è la destra, dov'è la sinistra?" mi pare che anche la "sinistra" in quanto a essere guerrafondaia non sia da meno; ricordiamoci quello che dicevano tipi come Letta o di Maio a proposito dell' Ucraina.
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