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lanatra di vaucan

Quando il capitalismo si è messo in quarantena

La crisi del Covid-19 secondo la critica del valore

di Afshin Kaveh

Anselm Jappe, Sandrine Aumercier, Clément Homs e Gabriel Zacarias: Capitalismo in quarantena. Pandemia e crisi globale, ombre corte, Verona 2021, pp. 128

www.mondadoristoreAl momento la prima parvenza di un dibattito pubblico sul Covid-19 – che poi si è a lungo perso polarizzandosi nel tracciare una linea di demarcazione tra chi, di fronte alla nascita, alla diffusione e alla gestione del virus si pretendeva ragionevole, accusando invece di irragionevolezza la fazione opposta e così viceversa – sembra oggi essersi completamente disinteressato di sé, svanendo nel nulla. Di quel poco che ha prodotto ciò che sembra cadere sempre di più nel dimenticatoio è l’accrescimento del livello di coscienza e consapevolezza che, successivamente a quella che riguardandoci indietro viene ricordata come “prima ondata”, sembrava già poter ridisegnare le pratiche necessarie verso vere e proprie rotture emancipatrici: la tragica portata dell’evento aveva illuminato determinati angoli bui della logica del funzionamento del modo di produzione capitalistico tanto che in un primo momento sembrava prendere piede una lettura abbastanza radicale della deforestazione, dell’agricoltura industriale, degli allevamenti intensivi, dell’inquinamento, degli scambi commerciali, della relazione animale umano, animale non-umano e natura e il nesso di questi specifici fattori alla malattia del Covid-19.

A questo proposito il libro Capitalismo in quarantena. Pandemia e crisi globale (ombre corte, Verona 2021, pp. 128) è uno strumento prezioso per poter riaccendere quella luce. Composto a più mani da alcuni dei membri redazionali della rivista francese Jaggernaut ruotante attorno alla corrente internazionale della “critica del valore”, Anselm Jappe, Sandrine Aumercier, Clément Homs e Gabriel Zacarias ne iniziarono la stesura in concomitanza al primo confinamento nel marzo 2020 e poco dopo, verso la fine di agosto, veniva stampato dalle edizioni Crise&Critique col titolo De virus Illustribus. Crise du coronavirus et épuisement structurel du capitalisme, mentre contemporaneamente veniva tradotto ed edito in Brasile come Capitalismo em quarentena, titolo poi ereditato sia dall’edizione uscita in Portogallo che da quella italiana.

Questa diffusione – a cui si aggiungono alcuni capitoli tradotti per delle riviste in spagnolo e in tedesco – deve certo tenere conto della propria naturale temporalizzazione: giusto per fare un piccolo esempio, ha visto luce in italiano subito dopo che uno dei tanti attori citati non era più protagonista in prima persona sotto i riflettori mediatici, ovvero il signor Trump; eppure la genuinità radicale dello sguardo degli autori e delle loro letture, poste e composte direttamente nel cuore dell’evento, è stata capace di costruire una serie di efficaci attrezzi che riutilizzati oggi, a pochi anni di distanza, riescono ancora non solo a cogliere nel segno ma anche ad andarne oltre. Questo perché il cominciamento del loro metodo d’analisi, ben lungi dai malvagi soggetti empirici affannosamente ricercati da una determinata critica populista trasversale e ibernata alla sola fase economica neoliberale, riconosce il modo di produzione capitalistico come storicamente determinato nelle categorie di “merce”, “lavoro”, “denaro” e “valore” e l’automovimento tautologico di quest’ultimo, nella logica della “valorizzazione del valore”, assume in tutto e per tutto il ruolo di “soggetto automatico” in un’inversione feticistica del soggetto-oggetto, ovvero l’irrazionale appiattimento della forma sociale sul contenuto materiale. A partire da questa specifica definizione gli autori pongono come «punto di partenza dell’analisi e delle riflessioni sulla crisi del coronavirus» quello che definiscono «l’insieme del processo di crisi fondamentale» che da decenni investe il modo di produzione capitalistico, di cui il Covid-19 è «l’acceleratore ma non la causa». Sì, perché la «crisi planetaria legata alla pandemia non appare nel cielo sereno di un capitalismo in buona salute»; proprio questo pessimo stato di salute è una chiave utile per comprendere lo stato generale delle cose formatosi dal relazionarsi dialettico di molteplici fattori in gioco.

Primo tra tutti il contesto che ha dovuto accogliere il virus, infatti il Covid-19 è comparso «nel bel mezzo di una crisi dell’economia mondiale» accentuando di fatto una tendenza che gli autori definiscono la «crisi strutturale» del modo di produzione capitalistico in quanto questa «non è una delle classiche crisi cicliche che hanno accompagnato la sua fase ascendente» con le canoniche «tendenze alla sovraccumulazione e/o alla sovrapproduzione», ma è di una qualità nuova. Infatti, «ciò che mina strutturalmente e irreversibilmente il capitalismo da diversi decenni non è la caduta tendenziale del saggio medio di profitto, come pensano gli ultimi dinosauri del marxismo tradizionale», ma «è la diminuzione assoluta del lavoro vivo coinvolto nell’immediato processo di produzione e la conseguente caduta della massa di plusvalore sociale». Non a caso «il regime di accumulazione, oramai da quattro decenni, non è più strutturalmente un regime di accumulazione alimentato dal plusvalore reale ottenuto solo dallo sfruttamento della corrispondente massa di lavoro vivo» ma, spezzato dalla sua stessa contraddizione divenuta palese col passaggio attraverso la terza rivoluzione industriale e oltre, «il capitalismo di crisi» a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento «non ha potuto fare altro che ristrutturarsi in un nuovo regime di accumulazione che si basa sulla moltiplicazione esponenziale del capitale fittizio, vale a dire sull’anticipazione di una futura produzione di plusvalore» al presente; una massa di plusvalore che è però «già “consumata”», facendo di questa corsa un inseguimento autoreferenziale. Così, «dopo gli anni Ottanta, la storia dell’economia» può benissimo «essere intesa come una successione di bolle speculative e di ondate di debiti che sono cresciute in dimensione e frequenza». Come espongono molto bene gli autori, il centro di questa logica d’accumulazione è «l’inversione della relazione tra capitale funzionante e capitale fittizio» di modo che la moltiplicazione di quest’ultimo non è più il punto di partenza come successo per le politiche keynesiane di indebitamento pubblico in vista del boom fordista del dopoguerra, bensì ne è «il motore principale», la marcia perpetua di un regime di produzione sempre più privo della sua stessa sostanza. Tuttavia, checché ne dicano i paladini della critica troncata alla sola finanza, «anche la moltiplicazione del capitale fittizio non diventa una potenza indipendente» ma questi stessi capitali, in quanto «merci derivate», presuppongono aprioristicamente «che nell’economia reale di sfruttamento del lavoro vivo si trovino dei segnali» su cui poter sostenere aspettative di ricavo. Ma queste stesse aspettative, o meglio queste speranze che arrivano direttamente dal futuro, con l’anticipazione fittizia di plusvalore, devono fare i conti con la realtà di un presente strozzato «dal doppio limite interno» (quello appena descritto) «ed esterno» (quello ecologico) del modo di produzione capitalistico.

Ignorando completamente questi fattori si sono massicciamente palesate nel dibattito pubblico sul virus una serie di robinsonate dallo spirito individualistico e irrazionalistico, sentenziando le molteplici cause del Covid-19 con cadenza «antistorica, biologizzante e naturalizzante»: da una parte colpevolizzando le condotte dei singoli e assolvendo la società e il modo di produzione e riproduzione che la regge e dall’altra parte proiettando ed esternalizzando il virus a cataclisma o flagello biologico che, in quanto tali, sono presentati come inevitabilmente esistenti da sempre e per sempre dall’alba delle società umane. Ma come precisano gli autori, «se le malattie, e a maggior ragione le infezioni virali, sono ovviamente fatti biologici, delle malattie come le epidemie sono sempre strettamente legate a specifiche società storiche» proprio perché «il biologico per l’umanità esiste soltanto “incastonato” nella matrice dei rapporti storico-sociali» (e su questo punto si manifestano tutti i limiti astorici della lettura biopolitica foucaultiana e di conseguenza del suo metodo archeologico e genealogico su cui casca, tra i tanti, anche Agamben). Non a caso la diffusione del Covid-19 ha seguito la traiettoria geografica dei circuiti del capitale, tra i flussi «del turismo di massa e degli affari, dei lavoratori migranti e delle catene di produzione globali che utilizzano rotte aeree, ferroviarie e crocieristiche», e si è poi alimentato attraverso altrettanti fattori come «la densità delle popolazioni, l’urbanizzazione, l’inquinamento atmosferico», le condizioni specifiche delle sanità locali; allo stesso titolo «l’invasione delle attività capitalistiche negli habitat ad altissima biodiversità, le condizioni di concentrazione degli allevamenti intensivi e il cambiamento climatico, sono le cause principali dell’aumento esponenziale di zoonosi» di modo che «unificazione virale e unificazione della vita sulla Terra attraverso il rapporto di capitale vanno di pari passo» facendo dei numerosi fattori che circondando l’affare Covid-19 un grande e dettagliato quadro che, in tutto e per tutto, è storicamente determinato alla e nella fase attuale.

Di fronte allo sviluppo dello scenario odierno appaiono sempre più deboli quelle sedicenti soluzioni che pretendono non solo di contrapporre positivisticamente il lavoro al capitale ma che, nonostante le esperienze, auspicano un ritorno dello Stato sociale e del keynesismo vedendo nello Stato la capacità di imporsi e contrapporsi all’economia come se ne fosse il nemico naturale in un immaginario scontro tra astratta ragione politico-statale e classe capitalista empiricamente definita. Gli Stati, in tutte le proprie specificità geopolitiche, si sono ritrovati «sconvolti dal coronavirus» come «presi tra l’incudine e il martello» senza poter «né sacrificare vite alla luce del sole se non vogliono perdere i loro ultimi brandelli di credibilità, né salvare vite rispettando i tempi dell’epidemia e del suo costo economico, senza precipitare la popolazione mondiale nell’abisso del sovraindebitamento», giocando così le risposte alla crisi sanitaria al di sopra di questa difficile negoziazione e delle esigenze contrastanti che ne derivano. Se invece si parte dagli insegnamenti di Robert Kurz sullo Stato che nella sua genesi e logica di funzionamento può essere definito engelsianamente come “capitalista collettivo ideale”, si riesce a cogliere quanto «la sfera politico-statale e quella economica» siano «prese in un rapporto di reciproca complementarità, ciascuna è insieme risultato e presupposto dell’altro». Crollano così nell’inefficacia e nell’anacronismo anche quelle visioni tradizionali che «hanno commesso l’errore di difendere una visione strumentale della natura dello Stato, considerando quest’ultimo come il semplice strumento della classe capitalista, come oggettivazione del rapporto di classe», cercando di riaffermare la positività dello Stato fermamente convinti della possibilità di poterlo liberare dalla strumentalizzazione della classe borghese. Queste letture decapitate non vedono che «gli Stati si fanno carico delle condizioni generali della riproduzione delle società capitaliste che la logica concorrenziale della sfera dell’economia aziendale non può, per la sua stessa logica, sostenere», così la ragione economica, ovvero «il processo di valorizzazione», e la ragione di Stato, ovvero «le condizioni generali di questo stesso processo» si sviluppano in una relazione dialettica senza derivazioni gerarchiche, anche quando le due sfere entrano in ostilità complementari, per esempio quando lo Stato si impone sull’economia o viceversa. Ebbene, «statalismo o liberalismo, dittatura politica o dittatura del mercato autoregolato», si parla sempre di modo di produzione capitalistico, ed è la logica di quest’ultimo ad essere la guida degli Stati (e così viceversa) di fronte al Covid-19, pur nella particolarità di ogni situazione specifica.

Senza mettere in discussione il “soggetto automatico” si perde di vista non solo il funzionamento del modo di produzione capitalistico, ma anche i suoi collassi derivati, crisi ambientale ed epidemie comprese. Finché vivremo feticisticamente secondo la “valorizzazione del valore” le risposte, in quanto altrettanto feticistiche, non potranno che desiderare esclusivamente quelle categorie storicamente determinate che, estese a ogni ambito della vita quotidiana, sono da noi vissute come naturali e ontologicamente date: più Stato, più lavoro, più merci, più denaro. Ma questa è davvero la risposta? Seppur la logica contraddittoria della “valorizzazione” lo richieda essa deve fare i conti con il doppio limite interno ed esterno del sistema che l’ha generata e da cui esso stesso è stato generato. Un virus lo ha ormai reso del tutto palese. Lo scenario futuro si giocherà dunque su pratiche e lotte che stiano al di fuori del suo collasso, del suo crollo e del suo inevitabile imbarbarimento. In tutto questo la cassetta degli attrezzi della “critica del valore” è preziosa, ma l’esito, come ammettono gli stessi autori tra le pagine di Capitalismo in quarantena, non è del tutto certo, per quanto inevitabilmente necessario.

Comments

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Renato
Saturday, 12 August 2023 10:00
Perchè ? Non hanno forse pienamente ragione? Un altra civiltà esula dalle parole, concetti, modo di pensare ed agire della /dalla visione della merce che in questo dominio capitalistico è prodotta e consumata, non per soddisfare valori d'uso, ma per la sua autovalorizzazione. cioè la valorizzazione del valore (di scambio). Nient'altro . E' l'unico modo per uscire dal labirinto infernale che ci portato al limite della catastrofe, tra l'altro appena iniziata con i suoi segnali evidenti chiamati eventi estremi climatici, o emigrazione di massa, guerre imperiali ecc ecc. mega accumulazione finanziaria annunciatrice di nuove bolle gonfiate a dismisura rischiosissime per tenuta stessa del valore della merce denaro e quindi a cascata della sopravvivenza delle moltitudini proletarie dedite alla produzione di plus valore . Forse è meglio cosi' , il pilota automatico non si accorge del suo suicidio, si perchè gli umani oramai non vedono la via d'uscita immersi come sono nella quotidianità e attualità del fantasma della libertà consumistica e oggettivata.
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Romolo
Friday, 11 August 2023 16:43
"Questo perché il cominciamento del loro metodo d’analisi, ben lungi dai malvagi soggetti empirici affannosamente ricercati da una determinata critica populista trasversale e ibernata alla sola fase economica neoliberale, riconosce il modo di produzione capitalistico come storicamente determinato nelle categorie di “merce”, “lavoro”, “denaro” e “valore” e l’automovimento tautologico di quest’ultimo, nella logica della “valorizzazione del valore”, assume in tutto e per tutto il ruolo di “soggetto automatico” in un’inversione feticistica del soggetto-oggetto, ovvero l’irrazionale appiattimento della forma sociale sul contenuto materiale."

Da prendere a piccole dosi e non sotto l'ombrellone. Si rischia colpo apoplettico.
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