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L’origine dell’inferiorità della donna nella dialettica tra natura e cultura

di Alessandra Ciattini*

Immagine per home articolo CIATTININell’articolo si tenta di sciogliere il groviglio formato da fattori materiali e culturali su cui si è fondata l’inferiorità della donna, che nonostante le trasformazioni sociali più recenti non è stata ancora superata. Allo stesso tempo, si tenta di valorizzare la differenza femminile, non annullandola con l’applicazione dei diritti che valgono per l’uno e l’altro sesso. Tale valorizzazione consiste nel pieno riconoscimento della funzione riproduttiva della donna, che dovrebbe essere tutelata con istituzioni ad hoc per permetterle di partecipare in prima persona alla vita sociale, politica e culturale.

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Introduzione

Credo che oggi, dopo decenni di femminismo di vario genere, si possa affermare che esso nella sua complessità e mutevolezza costituisca ormai un’ideologia ufficiale adottata da tutte le forze politiche, con l’esclusione delle più retrive, che intendono deviare l’attenzione generale dalle questioni strutturali della società attuale (la subordinazione sempre più alienante dei salariati) al problema pur importante, ma non risolutivo, dei diritti umani. Per questa ragione ritengo che occorra concentrarsi sull’origine dell’inferiorità della donna per ricalibrare la sua reale natura politica, mostrando come alcuni aspetti primordiali abbiano continuato a influenzarla e come solo il realizzarsi di certe condizioni consentano la sua effettiva soluzione. Mi muoverò quindi sempre secondo lo schema interpretativo della continuità/rottura.

Sono dell’opinione che, per cercare di mettere a fuoco le ragioni che hanno prodotto la storica subordinazione del sesso femminile, una costante della storia umana, nonostante i vagheggiamenti di una fase matriarcale, si debba partire da un tema centrale della riflessione sia antropologica che filosofica, sulla quale il dibattito è tuttora vivace, almeno a livello internazionale. Sto pensando alla vexata quaestio della controversa relazione tra natura e cultura, interpretata spesso secondo prospettive riduzionistiche sia di segno materialistico che di segno culturalistico. In particolare, quest’ultima tendenza, assai forte in ambito antropologico, si propone di inserire ogni dimensione della vita umana nella sfera culturale, annullando ogni specificità e autonomia della sfera biologica e di quella economica.

A parere di alcuni tale espansione della dimensione culturale sarebbe dovuta al sorgere stesso della società dei consumi e dell’industria culturale, in cui domina il valore di scambio e pertanto l’oggetto, ridotto a merce e a immagine nei circuiti della comunicazione di massa, diventa inconsistente, viene derealizzato, perdendo la capacità di fungere da referente, cui rimandano i suoi molteplici e cangianti simulacri seducenti. Ovviamente tale dominanza si sarebbe imposta con il passaggio della società capitalistica dalla fase moderna a quella postmoderna, innescato da vari fattori, tra i quali un’ulteriore rivoluzione tecnologico-scientifica, fondata sull’informatizzazione e sul grande sviluppo delle telecomunicazioni.

Benché si sia costituita per combattere un’altra forma di riduzionismo (quello materialistico), definirei l’impostazione culturalistica altrettanto riduzionistica, sia pure di segno diverso (idealistico) rispetto al biologismo e all’economicismo; e, per superare il riduzionismo di entrambe le tendenze, credo sia opportuno riproporre una terza via, rappresentata dall’impostazione dialettica, secondo la quale natura e cultura, materia e mente interagiscono reciprocamente fino a compenetrarsi in un rapporto complesso e conflittuale, ma non si dissolvono mai l’una nell’altra. Traggo ispirazione per portare avanti questa impostazione dal noto pamphlet di Terry Eagleton (1998) dove, rifiutando la dissoluzione della natura nella cultura e viceversa, lo studioso britannico scrive: <<noi…siamo esseri culturali in virtù della nostra natura, cioè in virtù del corpo che abbiamo e del tipo di mondo cui esso appartiene>>. A ciò aggiunge una riflessione, non certo nuova, sicuramente tratta dalla visione antropologica di Sigmund Freud: <<Poiché nasciamo tutti prematuramente, incapaci di provvedere a noi stessi, la nostra natura contiene una voragine nella quale la cultura deve immettersi all’istante, altrimenti periremmo ben presto. E questa immissione della e nella cultura è insieme la nostra gloria e la nostra catastrofe>> (1998: 87). Eagleton riprende così un tema classico della riflessione antropologica, in senso lato, che ha spesso considerato la cultura un dispositivo costruito per dare una risposta soddisfacente ai bisogni dell’individuo non preso isolatamente, ma in quanto membro di un gruppo sociale. Nello stesso tempo le sue osservazioni ci mettono in guardia contro possibili sviluppi della cultura che – come la nostra storia ha dimostrato – possono contraddire le finalità originarie del sorgere di questa istituzione e accrescere la nostra fragilità e dipendenza.

Mi è sembrato opportuno riprendere questa prospettiva, basata sul presupposto dell’irriducibilità reciproca della natura alla cultura, sia pure dialetticamente interconnesse, per tornare sul tema tanto dibattuto dell’origine della storica inferiorità del sesso femminile; questione che suscita il mio interesse per la sua duplice natura: da un lato, essa ha un contenuto teorico concernente le modalità di interrelazione delle dimensioni costitutive dell’essere umano; dall’altro, non si tratta di un problema esclusivamente scientifico o accademico, perché tocca la vita e le aspettative di emancipazione di circa metà del genere umano.

 

Sottomissione alla specie

Un altro punto di riferimento della mia riflessione è rappresentato da un articolo non recente scritto da un’antropologa statunitense, che è certamente un classico dell’antropologia femminista ormai a mio parere alquanto ripiegata su se stessa. Nello specifico, sto parlando dello scritto di Sherry Ortner Is Female to Male as Nature to Culture? uscito nel 1972 per la prima volta nella Rivista Feminist Studies, periodo storico che ha visto nascere il movimento femminista, anche se – come è noto – il tema dell’emancipazione della donna è assai più antico e, nelle sue forme esplicite, può esser fatto risalire alla Rivoluzione francese. Con questo suo scritto la Ortner si propone di dare un contributo all’individuazione delle molteplici ragioni dalle quali, in tutte le forme di vita sociale conosciute, è scaturita la stretta associazione della donna con la natura; assimilazione che avrebbe a sua volta prodotto la subordinazione politica e sociale del sesso femminile e il suo confino nella sfera domestica, dove le erano e sono riconosciuti certi privilegi e prerogative. In sintonia con quanto ha scritto Simone De Beauvoir ne Il secondo sesso, pubblicato in Francia nel 1949, l’antropologa statunitense ritiene che la donna, per il più pesante e complesso ruolo che svolge nella riproduzione umana, si trovi ad essere più sottomessa dell’uomo alle esigenze della specie, che si pone l’obiettivo del ricambio generazionale. Pertanto, la stessa fisiologia femminile fa sì che nella donna la dimensione naturale si palesi in maniera più prepotente rispetto a quanto invece accade al sesso maschile, per il quale – come gli antropologi hanno potuto ricavare studiando l’antico rito della couvade – l’acquisizione e l’accettazione del ruolo paterno si realizzano sul piano simbolico e sociale attraverso il processo di imitazione simpatetica della madre. D’altronde, se per quanto riguarda la questione della riproduzione umana, la donna – almeno fino a oggi – si trova ad essere più sottomessa alle perentorie esigenze della specie, la situazione cambia radicalmente se riflettiamo sull’inesorabile fine della vicenda umana; in questo caso, infatti, entrambi i sessi si trovano nelle stesse condizioni, giacché i singoli, che ad essi appartengono, debbono inevitabilmente scomparire per cedere il passo alla generazioni future, arrendendosi così alle pretese della specie che tengono assi poco in conto quelle individuali (Eagleton 2013: 83).

La riflessione antropologica, sempre in senso lato, ha messo in evidenza altre ragioni che starebbero alla base dell’inferiorità della donna e dalle quali, allo stesso tempo, scaturirebbero i fondamenti della stessa organizzazione sociale e culturale, che la specie umana si è data e che probabilmente solo in tempi recenti sono stati messi in questione. Per individuare tali ragioni, a mio parere, bisogna tornare a riflettere sull’origine della repressione sessuale, con la quale si stabilisce la regolamentazione delle relazioni sessuali, indispensabile allo svolgimento delle relazioni tra gruppi e individui. Come è noto, Freud e Claude Lévi-Strauss hanno riflettuto su questo tema, individuando nell’istituzione della regolamentazione sessuale, la quale ci indica quali partners sessuali sono accessibili, e nell’imposizione del tabù dell’incesto il momento, in cui si sarebbe verificato il passaggio dallo Stato naturale a quello sociale.

Ne Le strutture elementari della parentela Lévi-Strauss critica Freud, accusandolo di aver elaborato il mito dell’orda primordiale e dell’assassinio del padre per spiegare il costituirsi della vita sociale, l’insorgere della cultura e della religione (1972: 628-631), ma sostanzialmente il ragionamento che egli sviluppa presenta lo stesso tenore. Infatti, – se interpreto correttamente i procedimenti dei due autori – entrambi si muovono secondo la logica deduttiva, che permette loro di ricostruire qualcosa di non documentato e di non verificabile, ricavando dall’osservazione del funzionamento della vita sociale i possibili eventi fondativi di quest’ultima, che in quanto tali sono invarianti e costanti. In particolare, riprendendo l’ipotesi elaborata dall’antropologo vittoriano Edward Burnett Tylor, l’antropologo francese propone la sua cosiddetta teoria dell’alleanza per spiegare l’istituzione delle relazioni di parentela, alla cui origine starebbe la decisione presa dagli uomini dei vari gruppi di rinunciare alle proprie donne e di scambiarle tra loro; decisione ispirata dal principio di reciprocità. A questo proposito è necessario precisare che, come osserva ancora il fondatore dello strutturalismo: <<il legame di reciprocità che fonda il matrimonio non si stabilisce tra uomini e donne, ma tra uomini per mezzo di donne che ne sono soltanto la principale occasione>> (1972: 179).

La deliberazione di praticare lo scambio delle donne, presa anche per stabilire relazioni amichevoli con i potenziali nemici, avrebbe trasformato queste in oggetti preziosi, e non solo per il loro ruolo riproduttore, ma sempre oggetti, la cui gestione e controllo sono di fondamentale importanza in tutte le forme di vita sociale fondate sull’uso quasi esclusivo della forza di lavoro umana. Oggetti, il cui accaparramento garantisce anche l’acquisizione di prestigio sociale ed esprime la capacità di intessere relazioni di carattere sia verticale che orizzontale.

La <<relazione di asimmetria>> tra i due sessi, costitutiva della società umana, salta agli occhi anche nei sistemi matrilineari, nei quali sicuramente le donne si vedono riconosciuto un ruolo sociale più consistente, ma che nella maggior parte dei casi conosciuti sono caratterizzati dalla residenza patrilocale. La compresenza di queste istituzioni genera conflitti, giacché la donna e i suoi figli si troveranno ad essere degli estranei nella residenza paterna; d’altra parte, in condizioni non meno difficili si trova a vivere l’uomo che si trasferisce nel gruppo della moglie, che lo tratterà sempre come un intruso, che risiede ivi momentaneamente (Lévi-Strauss 1972: 112).

L’altra faccia della repressione sessuale è rappresentata dalla nozione di “contaminazione”, anch’esso un tema assai dibattuto in ambito antropologico. Con l’affermarsi di quest’ultima numerosi aspetti “naturali” della nostra fisiologia sono marcati come impuri, sporchi, e sono sottoposti al controllo sociale, che tende a dividerli e a separarli soprattutto dagli eventi più significativi della vita collettiva, emarginandoli sia spazialmente che temporalmente. Per la centralità della funzione riproduttiva l’istituto della contaminazione tende a estendersi, abbracciando molti aspetti della vita sessuale e focalizzandosi sulla necessità di “proteggere” e “isolare” i momenti fondamentali, che scandiscono la vita femminile, come il ciclo mestruale. In particolare, esso instaura una frontiera tra la dimensione quotidiana e quella religiosa, indica in quali circostanze e occasioni uomo e donna possono avere relazioni sessuali, collocando questo evento sempre lontano spazialmente e temporalmente dagli eventi rituali più importanti. Ovviamente, nonostante la dominanza culturale della “lotta contro i tabù”, tali limitazioni non si sono dissolte con l’apparire della post-modernità e funzionano ancora non come mere sopravvivenze, giacché operano come elementi fondativi della stessa socialità.

Nella misura in cui – come sosteneva Aristotele – l’uomo è un animale politico, e quindi vive con i suoi simili in comunione seppure antagonistica, deve inevitabilmente darsi una regolamentazione delle relazioni sessuali, la quale d’altra parte va di pari passo con la regolamentazione dell’accesso alle risorse; e ciò per non lasciare la gestione di tali importanti sfere all’arbitrio o alla prepotenza dei singoli, prefigurando per quanto è possibile soluzioni concordate e condivise degli inevitabili conflitti, anche se un rapido sguardo alla storia umana ci mostra come essa sia sempre stata percorsa da profonde asimmetrie, che hanno opposto pochi privilegiati a una maggioranza dotata di scarsi diritti.

Sulla scia di Freud e Lévi-Strauss, a mio giudizio, dobbiamo individuare il passaggio dalla natura alla cultura proprio in questo processo globale di regolamentazione, sollecitato dalla natura stessa, ma a cui la cultura può – come di fatto è avvenuto – rispondere in forme diverse, instaurando modalità di vita sociale differenti, ma mai frutto di una scelta culturale del tutto scissa dal complesso delle determinanti ambientali ed economiche. E tutto ciò in vista della riproduzione della specie, anche se – esaminando con preoccupazione e sconcerto le criticità e le conflittualità presenti nella società contemporanea – sembrerebbe ragionevole osservare che tale obiettivo rischia di essere abbandonato o addirittura essere messo a repentaglio dalle stesse strategie che la indirizzano.

Tornando al tema dell’inferiorità del sesso femminile, che abbiamo visto essere collegata al suo potere generatore e alla sua maggiore subordinazione ai diktat della specie, si può registrare che essa ha sempre limitato la donna nell’acquisizione e nell’esercizio dei ruoli religiosi più importanti ; ruoli religiosi che in certi contesti storici sono stati concepiti come esclusiva attribuzione maschile fondata sulla totale rinuncia alle relazioni sessuali, intese come un indebito e peccaminoso cedimento alla “natura”, quale zavorra materiale e corruttibile dell’anima immortale. Anche in quei contesti, in cui si celebrano con enfasi figure divine collegate alla fecondità e fertilità della natura e delle sue creature, aspetti centrali nelle società agrarie, le posizioni sacerdotali assegnate alla donna sono subordinate e spesso connesse alla rinuncia alla vita sessuale e all’entrata nella menopausa, quando il potere generatore non è messo in atto o si è ormai estinto, e quindi non c’è più nulla da mettere sotto controllo.

 

Ambiguità della donna

Se ci soffermiamo a riflettere sulla nozione di “contaminazione” getteremo una luce significativa su altri aspetti della vita sociale, la quale, anche là dove gli individui sembrano muoversi in piena libertà e in sintonia con i loro impulsi spontanei, è inquadrata in un complesso di comportamenti stereotipati e istituzionalizzati; questi ultimi sono considerati adeguati e legittimi solo in certi contesti e riprovati se da questi esportati, anche se spesso l’invito a comportarsi in una certa maniera fa parte solo del sapere tacito. Come è noto questa mappatura del tessuto sociale è stata delineata da Mary Douglas, la quale ha mostrato come sulla sua base vengono costituite sfere di competenza di certi segmenti, nelle quali i membri degli altri gruppi non possono interferire; tali linee di confine immaginarie sono dotate di un’esistenza concreta che si palesa in proibizioni esplicite o in simboli, la cui materialità rimanda al loro significato sociologico (Douglas 1975). Mediante tali procedimenti talune classi di individui vengono separate e relegate da un determinato spazio sociale; al contempo tale segregazione viene giustificata, affermando che essa è dovuta all’inadeguatezza e imperfezione dei suddetti individui, ai quali viene così addossata la responsabilità dell’istituzione delle barriere sociali. In questa prospettiva, la più frequente impurità della donna, rispetto all’uomo, scaturita dalla necessità di tenere sotto controllo la sua funzione riproduttrice, diventerebbe dunque un ulteriore strumento, con il quale si sancisce e si legittima la sua esclusione da quelle sfere sociali, che vengono dunque ad esser monopolizzate dagli uomini; allo stesso tempo si ribadisce così la sua inferiorità, la quale viene concepita come un attributo ineliminabile della sua stessa natura, occultando così che essa non le è consustanziale, ma è invece scaturita da come si è strutturato lo Stato sociale.

Pertanto, benché nelle diverse tradizioni religiose anche l’uomo di fatto è considerato contaminante e può per questo rendere impura la donna, dal momento che essa si trova già ad essere esclusa dalle posizioni religiose più rilevanti, l’istituto della contaminazione accentua la sua svalutazione e promuove la sua assimilazione alla sfera degli istinti, a sua volta identificata con la natura; ossia con quella entità che, istituendo lo Stato sociale, gli esseri umani si propongono di governare e di controllare. Paradossalmente tale svalutazione e assimilazione, presentata quasi come un ornamento del sesso femminile, è stata consapevolmente o inconsapevolmente accettata e interiorizzata dalla donna. Per converso, l’identificazione donna-natura porta con sé l’assimilazione dell’uomo alla sfera della cultura, ossia al dominio dell’agire razionale e strutturato su una dimensione inferiore e subordinata, concepita come materia passiva e inerte.

È possibile ricavare ulteriori osservazioni dalla riflessione della Douglas, con il supporto delle quali forse potremo far luce sull’intreccio di ragioni materiali e culturali, reciprocamente interagenti, alle quali è sgorgata l’inferiorità femminile.

Come si ricorderà, l’antropologa britannica dimostra che, sulla base delle sue specifiche esigenze, ogni sistema sociale costruisce forme di classificazione degli esseri animati e inanimati, dei fenomeni naturali e culturali, che fanno parte della sua sfera di interesse. Tali classificazioni si basano sull’individuazione di una serie di tratti che accomunano elementi simili e che al contempo acconsentono di distinguerli dai gruppi dotati di caratteristiche diverse. Se un’entità individuale presenta caratteri contraddittori, che rendono difficile la sua collocazione in una certa classe, ci troviamo di fronte ad un’anomalia. A parere della Douglas, tali entità anomale, non collocabili nella mappatura prestabilita, generalmente sono considerate impure. Così per esempio nel Levitico, le cui proibizioni dietetiche sono sottoposte a una serrata analisi dalla Douglas, gli animali definibili come ungulati ruminanti dallo zoccolo diviso costituiscono il cibo confacente e non contaminante, mentre il maiale, che ha l’unghia spaccata, ma non è ruminante, risulta essere inclassificabile; da ciò ne consegue che è impuro e proibito (Douglas 1975: 91).

A questo punto, ispirandosi alla riflessione dell’antropologa britannica, sembrerebbe opportuno porsi una domanda: la più frequente impurità della donna, legata al suo vincolo più stretto con la sfera riproduttiva e con la natura, scaturisce dal suo esser un’entità dotata di uno status ambiguo? Credo di sì, perché per le sue caratteristiche, in precedenza descritte, essa si colloca proprio sul crinale tra natura e cultura; inoltre, bisogna soffermarsi sulle difficoltà di controllare il suo potere generatore, giacché essa è in grado di ribellarsi e di sfuggire, sia pure talvolta nascostamente, alla vigilanza esercitata su di lei dall’autorità familiare e sociale. In questo senso, in quanto creatura dominabile e dominata, ma sfuggente e non totalmente incorporata nell’universo culturale, essa è ambigua e richiede una continua sorveglianza volta a favorire la sua consonanza con i bisogni del gruppo. Tutte queste caratteristiche della donna ne fanno, nelle antiche tradizioni religiose e culturali, un essere particolare, dotato di una sua peculiare specificità, che non le permette di assumere ruoli prettamente maschili.

Ma c’è un altro importante aspetto da mettere in risalto che ci fa comprendere più a fondo l’ambiguità della donna, riflettendo rapidamente sulla dinamica dell’atto sessuale. In tale contesto, a seguito del rapporto sessuale, la donna può trasformarsi in contenitore di una nuova vita, al contrario l’uomo si trova inevitabilmente a perdere ciò che nelle culture più disparate viene identificato con la “forza vitale”, la cui dotazione è necessariamente limitata. In questo senso, nonostante l’uomo abbia ricavato dall’atto sessuale un intenso piacere che lo rivitalizza, egli ne esce per così dire menomato, ridimensionato poiché ha consumato parte di quelle energie, che stanno alla base dell’integrità complessiva della sua persona.

Da tale concezione scaturisce la pratica dell’evitazione rituale dell’attività sessuale prima di entrare in contatto con il sovrannaturale, il quale richiede che chi si accosta ad esso sia nel pieno possesso di tutte le sue forze e le sue energie. Inoltre, essa è legata a un immaginario complesso, espresso in numerosi e conosciuti miti, i quali attribuiscono alla donna un ruolo attivo nell’atto sessuale e ne cristallizzano l’immagine nel mitema della vagina dentata o evirante, che mutila il corpo del partner, rendendolo imperfetto e incompleto.

Tirando le fila delle precedenti argomentazioni e seguendo la prospettiva dialettica su preannunciata, possiamo dire che, se il legame più stretto della donna con la natura le assegna un ruolo inferiore nella vita sociale, paradossalmente questo stesso vincolo finisce con conferirle una superiorità più vissuta che apertamente riconosciuta, dovuta alla difficoltà di governare la sua facoltà generatrice e alla sua capacità di stimolare la perdita della “forza vitale”, che irrimediabilmente si produce nell’atto sessuale. Secondo quest’ipotesi interpretativa nell’atto sessuale si disperde la sostanza vitale, indispensabile per trasmettere la vita, e che per i pitagorici e gli ippocratici sarebbe derivata da una secrezione del cervello, dal quale si diffonderebbe per raggiungere le parti inferiori del corpo (Di Caprio 2015). Ovviamente all’interno di tale concezione si fa forte l’accento posto sulla necessità di controllare le pulsioni sessuali, e di far prevalere il governo dell’anima razionale sulle entità animiche inferiori, che indirizzano le funzioni subordinate del corpo; governo, fondato sulla temperanza, che sta alla base del comportamento del cittadino della Grecia antica, il quale deve essere in grado di valutare in maniera equilibrata le diverse situazioni, per prendere le decisioni adeguate alla soluzione delle questioni sociali e politiche (Campese 1983: 26).

 

Psicologia delle relazioni amorose

Ho intitolato questo paragrafo “Psicologia delle relazioni amorose” in aperta polemica con chi riduce questo aspetto della vita umana alla sfera sessuale, utilizzando per esempio l’espressione “fare sesso”, tratta probabilmente dalla cultura mass-mediatica statunitense. La mia decisione non nasce dalla visione romantica dell’amore, ma dall’idea che tutti gli aspetti della vita umana – morali, psicologici, politici – penetrano le relazioni sessuali; relazioni che acquisiscono connotazioni sociali e culturali specifiche a seconda dei contesti, ma la cui struttura non può non tener conto delle diverse funzioni dell’uomo e della donna nel processo di riproduzione della specie umana, che dovrebbe rappresentare anche oggi una delle finalità più importanti della nostra vita.

Anche se il motivo dell’emancipazione femminile appare già durante la Rivoluzione francese con la famosa Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791) di Olimpia De Gouges, si trasforma in un fenomeno di massa negli anni Settanta del secolo XX nel contesto della contestazione giovanile, dalla quale germogliò la “nuova sinistra” e la cosiddetta controcultura, la cui ideologia è ancora dominante intellighèntzia statunitense ed europea. In particolare, il desiderio di emanciparsi dal potere maschile, incarnato nella figura paterna o dello sposo, si manifestò soprattutto nelle donne appartenenti alla media e piccola borghesia, che conquistarono ruoli sempre più importanti nel mondo del lavoro e per questo acquisirono un livello di conoscenze più alto.

È in tale contesto, in effervescenza per la guerra degli Stati Uniti contro il Vietnam, che una psicologa statunitense scopre il “complesso di Cenerentola”, ossia l’atteggiamento della donna, di origine infantile ma consolidato da millenni di educazione, a credere che il fine della sua vita debba concretarsi nell’attesa di un uomo – un principe nella fiaba – che la possa “salvare”, o riscattare, consentendole così di raggiungere la sua propria auto-realizzazione (1981). Il libro di Colette Dowling, per molti aspetti abbastanza noioso, descrive la condizione di dipendenza, in cui si in generale si trovava e si trova ancora oggi la donna la quale pensa che lo scopo della sua vita sia incontrare un uomo che la possa proteggere, sostenere, dandole tutta la soddisfazione e la felicità che da sola non sarebbe in grado di conquistare. Secondo questa interpretazione la condizione femminile, scaturita dal suo non essere autosufficiente, si fonda nella rinuncia alla libertà e all’auto-realizzazione, ottenuta attraverso l’impegno personale e facendo appello alla consapevolezza che, in questo percorso difficile e angosciante, ogni individuo è solo dinanzi al mondo e ai suoi simili. Secondo la Dowling, a differenza della bambina, che molto presto impara a fantasticare con la fiaba di Cenerentola e di altre assai simili, il maschietto è allevato per essere indipendente e per realizzare i suoi obiettivi, avvalendosi dell’aiuto degli altri in una misura ragionevole che non compromette la sua autonomia.

Alla luce degli elementi che caratterizzano l’antropologia femminile e che in precedenza sono stati evidenziati, la dipendenza della donna, inevitabilmente relazionata con la mancanza di autostima, deriva molto probabilmente dal fatto di esser stata trasformata in oggetto nel contesto delle transazioni matrimoniali e, per questa via, di esser stata considerata solo un’appendice del suo consorte, al destino del quale deve sottomettersi; destino che essa accetta come il proprio, già che non può immaginare la possibilità di una sorte diversa da quella che le offre la vita matrimoniale .

Le rilevanti trasformazioni della condizione femminile a partire dal XX secolo non sono certo il risultato di una lotta astratta, ma sono strettamente connesse ai mutamenti della struttura e della funzione della famiglia innescati dal consolidarsi della società industriale o moderna e dal successivo passaggio da quest’ultima alla società postindustriale o postmoderna, studiato in particolare da Ronald Inglehart (1998). Ovviamente la donna ha lottato e continua a lottare per la sua emancipazione, ma la sua battaglia ha dato risultati concreti solo recentemente, perché la famiglia allargata ha cessato di essere l’unica struttura indispensabile per la riproduzione della specie umana, giacché, dopo la spaventosa tragedia prodotta dalla seconda guerra mondiale, nelle società occidentali, in analogia con quelle socialiste dell’est europeo, si è costruito il cosiddetto Stato sociale, in cui importanti istituzioni sono state preposte a garanzia della sicurezza e del benessere degli individui . In tali contesti, nei quali la maggioranza della popolazione ha raggiunto una certa sicurezza economica, l’individuo non deve più appoggiarsi esclusivamente sulla famiglia per risolvere i problemi relativi alla sua salute, per affrontare crisi esistenziali come la morte del coniuge, la perdita del lavoro, un grave problema economico etc. Secondo Inglehart tali trasformazioni hanno influenzato la sfera dei valori; per esempio, l’atteggiamento verso il divorzio, prima demonizzato perché considerato una minaccia al benessere materiale e spirituale dei figli, si è gradualmente modificato in settori sociali consistenti, che ormai non ritengono più la fine dell’unione matrimoniale un fatto del tutto negativo (1998:65). In maniera analoga si può spiegare la diffusione di un atteggiamento più tollerante verso le diverse forme di sessualità (come l’omosessualità), giacché in molti ambiti della società contemporanea la sopravvivenza e la riproduzione della specie appaiono garantite, o almeno prima dell’attuale devastante crisi; il conseguimento di tali obiettivi fa sì che gli individui si preoccupino oggi soprattutto di raggiungere il benessere in senso onnilaterale, tenendo conto anche degli aspetti psicologici e spirituali. Naturalmente – come mostra Hinglehart nel suo libro dedicato alla trasformazione dei valori in 43 paesi – la ricerca del benessere in senso postmaterialista riguarda solo una parte della popolazione del mondo; quella che vive nei paesi ricchi e che appartiene alle classi più favorite; gli altri paesi e gli altri settori sociali continuano ad essere colpiti, in misura differente, dall’insicurezza economica, spesso per la mancanza delle risorse più elementari; problemi a cui questi paesi cercano di rispondere sviluppando una struttura industriale, centralizzata e burocratica con lo scopo di migliorare il funzionamento della macchina sociale e di promuovere l’innalzamento del tenore di vita della popolazione. In questo senso, essi stanno vivendo oggi la fase della modernizzazione, mentre altrove – per esempio, nei paesi scandinavi e nei Paesi bassi – è già avanzata quella della postmodernità. Invece, gli Stati Uniti, la Germania e la Gran Bretagna sarebbero situati in una fase intermedia (1998: 40); pertanto, secondo l’interpretazione proposta da Inglehart, la società contemporanea non è omogenea dal punto di vista economico e sociale, dal momento che è possibile verificare in essa la presenza simultanea di stadi differenti di sviluppo, a cui sono associati valori da diverso contenuto: materialisti nella fase moderna, postmaterialisti in quella postmoderna.

Dalla sua analisi approfondita il sociologo statunitense ricava una visione assai positiva della società postmoderna – non condivisa da altri studiosi -, nella quale a suo parere i livelli straordinari di sicurezza esistenziale raggiunti promuoverebbero la diminuzione del rispetto verso ogni forma di autorità, stimolando la partecipazione e la libertà di espressione degli individui e favorendo così la democratizzazione della vita sociale (1998: 47).

Tornando al tema del complesso di Cenerentola, mi pare interessante soffermarmi brevemente sulla riflessione del già menzionato Reik, perché individua una serie di elementi importanti che ci consentono di comprendere il modo diverso di concepire le relazioni amorose da parte dei due sessi. Reik propone un’interpretazione congetturale della storia delle relazioni amorose, basata sulla sua pratica psicoanalitica, che per molti aspetti ha seguito un percorso diverso da quello indicato a suo tempo da Freud. Nello specifico, egli pensa che l’amore romantico o personale, nel senso di un sentimento diretto verso un determinato individuo e suscitato dalle sue qualità, spesso trasfigurate, è il frutto di un’invenzione delle donne, che si ribellarono, ricorrendo alla resistenza passiva e alla reticenza, all’aggressività sessuale maschile in una fase di difficile collocazione temporale, quando la donna era solo un oggetto sessuale e una compagna di lavoro. Secondo Reik in questa fase l’atto sessuale di fatto era uno stupro, il bacio un morso e non vi era nessuna forma di tenerezza tra i due sessi (1968: 140-145). Secondo la sua ricostruzione le donne si ribellarono, non solo perché non si sentivano gratificate dall’esser considerate solo oggetto di conquista e di possesso temporale, ma anche perché nutrivano invidia e ostilità nei confronti degli uomini per la loro posizione sociale privilegiata. Pertanto, scelsero la strategia del rifiuto tacito, per riuscire a essere amate e non solo possedute; da parte loro, gli uomini appresero ad apprezzare di più la donna che si nega rispetto a quella che si concede senza reticenza e senza aver resistito seriamente. Sono state, pertanto le donne che, dando spazio all’immaginazione e cercando di intensificare il desiderio sessuale con un’attesa indefinita, hanno introdotto l’amore romantico nella vita sessuale, innescando così una vera e propria rivoluzione e suscitando negli uomini quei sentimenti di invidia e di gelosia, che prima le tormentavano (1968: 147).

Credo che quest’aspetto della psicologia femminile, descritto da Reik, può essere connesso con l’opinione dell’antropologo britannico Robin Fox che, in un libro dedicato alla parentela e al matrimonio, sostiene che l’unità sociale basica non è costituita dalla famiglia nucleare (sposa e sposo) , ma dalla madre e dai suoi figli, indipendentemente dal modo in cui questa è stata fecondata. Egli aggiunge che il legame madre-figlio è inevitabile e costante, mentre la relazione coniugale è variabile, giacché il problema della sopravvivenza della coppia originaria si può risolvere in molti modi (1973: 47-48). Quest’osservazione potrebbe suggerire che la donna abbia elaborato varie strategie per potersi garantire l’appoggio di un partner e il necessario al suo sostentamento e a quello della prole.

Non mi soffermo sulle ragioni che secondo Fox starebbero alla base dell’instaurazione del tabù dell’incesto e che non coincidono con quelle individuate da Freud e da Lévi-Strauss, mi limito a sottolineare che la condizione strutturale della donna, inevitabilmente incaricata della cura della prole e del dovere di assicurare la riproduzione della specie, può spiegare perché Reik la definisce una che tende trappole (Reik 1968: 178). Invece, giacché l’uomo deve muoversi sul territorio per procacciare il cibo a sé e alle donne, che risiedono con lui (possono essere anche le sue sorelle), e trovare altre donne, con le quali intrattenere relazioni sessuali, la sua figura può essere identificata con quella del cacciatore. Come è noto, tale identificazione dell’uomo con il cacciatore costituisce uno stereotipo molto diffuso almeno nella cultura europea; figura alla quale si contrappone per il sedentarismo e per il suo desiderio di stabilità l’immagine della donna, che per Victor Hugo era una pescatrice in cerca di un uomo che avrebbe potuto sostenerla nel compito imprescindibile di generare e allevare le future generazioni. Tale contrapposizione cacciatore / pescatrice condensa assai bene l’idea della specificità dei due sessi, con i suoi addentellati religiosi, che ha dominato la storia umana fino al momento in cui uomini e donne cominciarono a condividere gli stessi ruoli nella vita sociale, entrando anche in competizione diretta.

Se l’analisi qui proposta ha senso, i diversi atteggiamenti verso la vita amorosa dei due sessi, da un lato, sono in relazione con i ruoli differenti, che essi hanno nella riproduzione della specie, dall’altro, si trasformano nella misura in cui questa questione viene posta nelle diverse forme di vita sociale.

 

La messa in questione della pretesa specificità femminile

Come abbiamo cercato di illustrare nelle pagine precedenti, l’inferiorità della donna deve essere intesa come il risultato di un insieme di pratiche e di credenze, che sorgono nelle condizioni di vita delle società preindustriali, dove era forte la divisione del lavoro tra i sessi e dove la donna non poteva controllare in forma autonoma la sua fertilità; condizioni che in molti casi persistono per le differenze sociali e culturali tra le diverse regioni del mondo e per il loro radicamento ideologico. D’altra parte, l’inferiorità era anche, per così dire, “naturalizzata” e giustificata con la specificità irriducibile della donna rispetto all’uomo, e spesso presentata come un ornamento, se non come un vantaggio della natura femminile. In questo senso, quanto derivava dalla strutturazione originaria della vita sociale si attribuiva ed è stato attribuito per millenni a un’essenza ipotetica della donna, e in essa è stato cristallizzato fino a costituire un modello ipostatizzato del comportamento femminile.

Come conseguenza del passaggio complesso e tormentoso dalla società pre-industriale a quella industriale, nella misura in cui la donna fu inserita nel lavoro extra-domestico e apprese a controllare il risultato della sua attività sessuale, si cominciò a porre in questione lo stereotipo dell’inferiorità femminile e ad affermare l’idea che i due sessi condividono determinate prerogative. Scopriamo questa prospettiva nella già menzionata Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, scritta da O. De Gouges nel contesto della Rivoluzione francese, che ha costituito un momento importante nel processo di consolidamento della società moderna.

Come si è visto, questo processo di trasformazione, che ha avuto un costo umano incalcolabile, non si è sviluppato in maniera uniforme e non ha coinvolto nella stessa misura le diverse regioni del mondo; inoltre, anche in quei luoghi in cui la nozione, secondo la quale entrambi i sessi sono dotati di caratteristiche simili, si è consolidata, assai spesso è restata lettera morta; proprio in questi contesti, dove sembra che la donna abbia conquistato un’ampia libertà e significative possibilità di riconoscimento nella sfera politica e pubblica, si segnalano fenomeni di segno diverso, come l’incremento dello sfruttamento sessuale.

Tuttavia, quest’aspetto merita di essere approfondito, benché brevemente. Ritengo che l’antica tradizione culturale e religiosa, che le società preindustriali ci hanno trasmesso e che sanzionava la specificità della donna rispetto all’uomo, debba essere in parte recuperata e coniugata con l’idea moderna, secondo la quale è necessario riconoscere gli stessi diritti a entrambi i sessi. E ciò nel senso che in primo luogo è necessario dar vita a molte delle condizioni sociali, ancora molto carenti, che rendono possibile il concreto esercizio di questi diritti. In secondo luogo, per essere equo, l’autentico riconoscimento di questa parità si deve concretare nel rispetto della differenza non eliminabile tra uomo e donna, che corrisponde ancora oggi al ruolo distinto giocato dai due sessi nella riproduzione della specie; indiscutibile elemento di continuità storica. Solo per questa via potrà stabilirsi una parità concreta, molto diversa dall’uguaglianza astratta contemplata da numerose leggi, che spesso costituiscono un involucro astratto e formale, incapace di incidere sulla complessità e il carattere contraddittorio della vita reale.

Se ho ragione e se questo scritto ha senso, solo nella società contemporanea sono presenti le condizioni, che consentono l’istituzione di tale parità concreta e l’affermarsi di una concezione differente della donna, non più considerata un essere peculiare e irriducibile all’uomo, ma sempre legata alla sua condizione naturale, che la differenzia dall’altro sesso. Solo in questa prospettiva – mi sembra – natura e cultura interagiscono in maniera corretta, mostrando che l’”essenza” della donna, benché radicata nella sua natura, deriva in grande misura dall’insieme delle relazioni sociali che caratterizzano una determinata fase storica e che si sono trasformate, oltre ad essere ulteriormente trasformabili. Mettendo a fuoco in questa maniera la millenaria questione femminile, siamo in grado di superare la visione ideologica della donna e di comprenderne anche le diverse condizioni in quelle società che non hanno seguito il nostro tragitto storico.


* Docente universitaria di Antropologia Culturale. Presidente Università popolare “A. Gramsci”, redazione de “La Città Futura”. Del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo” e dei suoi Gruppi di Lavoro “Marxismo, teoria della rivoluzione in occidente e questioni del Socialismo del XXI Secolo”; “Diritti sociali e Stato sociale, diritti civili e questione di genere nella lotta di classe”; “Scuola, università, ricerca”. Coordinatrice del Gruppo di Lavoro “Ambiente, territorio, urbanistica”.

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