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gramsci oggi

La rivoluzione d'Ottobre continua

di Bruno Casati

lenin arringa i delegatiL’insurrezione in Russia dell’Ottobre di 100 anni fa fu l’atto conclusivo, liberatorio, di un lungo processo rivoluzionario. Un processo che si apre e si chiude a Pietrogrado, la capitale dell’impero, e poi dilaga nell’immenso paese.

Si apre nel 1905 in quella che passò come “la domenica di sangue” quando, davanti al Palazzo dello Zar, i soldati massacrarono il popolo inerme che chiedeva pane, pace e libertà. Migliaia i morti e i feriti in quell’eccidio spaventoso voluto dall’autocrazia che da oltre tre secoli opprimeva i cittadini russi che, quel giorno, supplicavano lo Zar, ingenuamente chiedendogli di rinunciare ad essere quel che era (questa prima parte dell’articolo è liberamente estratta da alcune pagine del recente libro di Angelo D’Orsi “1917, l’anno della Rivoluzione” Editore Laterza). Ingenuità del popolo, stolta crudeltà dello Zar. Ma è proprio in quel giorno tragico, che si ripeterà mesi dopo a Mosca, che si avvia la Rivoluzione Russa. Una rivoluzione che non dispone né di una guida, ne di una strategia: è un Movimento. E tale resta anche 12 anni dopo quando, nel Marzo 1917, ancora il popolo di Pietrogrado in rivolta, sempre per il pane, la pace e la libertà, si trova di nuovo schierati davanti i soldati dello Zar che, questa la novità, si rifiutano di sparare e si ammutinano: “la guarnigione della capitale ha issato la bandiera rossa”, così Leone Trotsky nella sua fondamentale “Storia della Rivoluzione Russa”.

Ma chi poi avrebbe dovuto prendere la testa della ribellione popolare? Di questo si discuteva da gran tempo tra i rivoluzionari russi costretti all’esilio. Se ne discusse già nel 1903, nel II° Congresso del POSDR (il Partito Operaio Socialdemocratico Russo che Plechanov fondò nel 1898), che si svolse prima a Londra poi a Bruxelles. La discussione, in quell’occasione e non solo, fu accesa e Lenin, che svilupperà compiutamente il suo pensiero nel saggio “un passo avanti e due indietro”, si trovò in contrasto con i suoi stessi compagni (e poi con la stessa Luxemburg) sulla natura da imprimere a quel Partito che avrebbe dovuto dirigere il processo. Il contrasto era sui criteri di ammissibilità allo stesso Partito e poi sulla concezione centralistica da imprimere alla sua direzione. Questa divergenza profonda attraversò i moti del 1905 e si ripresentò nel marzo del 1917 in quella che venne poi ricordata come la “Rivoluzione di Febbraio”. In verità il contrasto principale tra i rivoluzionari russi, in quei primi mesi del 17, non fu tanto sul carattere del partito ma su altro. Perché i Menscevichi, che erano una delle correnti del POSDR, sostenevano che, per l’arretratezza del Paese, doveva essere la borghesia a guidare il movimento di lotta. Di posizione diametralmente opposta i Bolscevichi, l’altra corrente del POSDR, ritenevano che quel ruolo spettasse alla classe operaia in alleanza con i contadini, che erano la stragrande maggioranza del popolo, e aggiungevano che lo strumento decisivo per esercitarlo, quel ruolo, dovesse essere, appunto, il Partito. Questione non da poco quella così dispiegata alla quale guardavano, partecipi, anche i rivoluzionari di altri Paesi Europei tra i quali, ad esempio, Jean Jaurès, il fondatore dell’Humanitè, arrivato a scrivere, ben prima del fatidico '17 (Jaures viene assassinato nel 1914) che il popolo russo non avrebbe dovuto affidarsi all’ambiguità delle Classi Medie ma “all’energia indomita del proletariato delle officine e all’immensa riserva di forze dei contadini spogliati ed esasperati”. Ma, schierato contro il regime zarista non esisteva in Russia solo il proletariato “dei campi e delle officine”. Più defilati, e oltretutto in contrasto profondo tra loro, si collocavano sia i settori conservatori della Borghesia come quelli liberali, mercantili, della stessa. I primi pensavano che lo Zar Nicola II e la sua Corte dovessero essere tolti di scena, liquidati, prima che, con il loro crollo annunciato, travolgessero anche i loro privilegi di casta e, quindi, costoro tramavano con l’Impero Germanico per sottoscrivere una pace separata. I secondi, invece, erano per la prosecuzione della guerra che, si fosse conclusa vittoriosamente, avrebbe dischiuso nuovi profittevoli mercati, dal Mediterraneo sino addirittura a Costantinopoli. Ma, per avere successo, questa cinica linea di condotta -che mandava al macello il proletariato russo per far guadagnare i mercanti russi – voleva anch’essa che fossero allontanati Nicola e la sua Corte corrotta, ormai impresentabile in Europa. La borghesia russa, in sintesi, diverge sul tema della guerra, ma converge sulla liquidazione degli Zar. La questione ovviamente non sfugge all’Impero Germanico, al nemico del tempo, che ha tutto l’interesse ad alimentare le ribellioni che esplodono nelle città russe come tra i soldati al fronte. Così facilita il ritorno in patria dei rivoluzionari russi in esilio, alla fin fine gli unici che possono cacciare lo Zar. Lenin fu accusato, al suo rientro, dopo aver attraversato l’Europa con il famoso treno blindato, di essere un agente al soldo dei tedeschi e dovette nascondersi di nuovo. È in questo contesto che l’effetto scontato della “rivoluzione di febbraio” diventa l’abdicazione di Nicola II a favore del fratello Michele, che però rinuncia. Nasce così la Repubblica e la borghesia liberale, in assenza di alternative, assume il governo del Paese ed il controllo della DUMA, il Parlamento. Ma la guerra continua. Da quel Febbraio la Duma, per breve periodo, diventa ”il Centro di resistenza” della Borghesia. Ma è nato un altro Centro, antagonista e competitivo con quello della Borghesia: ed è il Soviet, “Centro di Resistenza Democratica e Socialista”. Una diarchia in conflitto. Ma arriva il momento della resa dei conti. Però anche il Soviet è diviso tra Socialdemocratici (nelle due richiamate correnti dei Menscevichi e Bolscevichi) e i Socialisti Rivoluzionari, i Populisti Narodnicki, che sono la maggioranza. E mentre i moti di Pietrogrado a macchia d’olio si propagano nell’immensa Russia e raggiungono Mosca, il loro eco si diffonde in tutta Europa nel dibattito tra i Marxisti che si interrogano: “fermarsi allo stadio democratico? O portare avanti la Rivoluzione? E trattasi davvero di Rivoluzione Marxista? O è una rivoluzione borghese e tale non può che essere? “(sempre Angelo D’Orsi nel già citato libro). Poi con il 7 novembre tutto il potere passa nelle mani dei Soviet di cui i Bolscevichi hanno conquistato la maggioranza. E comincia un’altra storia.

La Storia dell’Unione Sovietica, che durerà 74 anni.

Ma, ritorniamo all’Ottobre, e domandiamoci perché i Bolscevichi di Lenin e poi di Trotsky, si affermano nei Soviet e poi tra le masse? La risposta è semplice: perché in questo contesto, i Bolscevichi furono gli unici a mettere la pace al primo posto del loro programma e ciò consentì loro di conquistare i consensi, oltre degli operai, anche dei soldati, che erano in larga misura contadini poveri (sono 12 milioni i soldati al fronte su una popolazione di 170 milioni di abitanti). La pace era indispensabile, ma i Bolscevichi seppero farla diventare inevitabile. Paradossalmente, la conquista del potere fu una operazione semplice in quanto il regime zarista prima e il Governo provvisorio poi non erano in condizione di reggere all’offensiva Sovietica che li spazzò via. I problemi per il Governo Sovietico si presentarono subito dopo. Perché in Russia cala la produttività industriale, aumentano i furti, il freddo e la carestia faranno 5 milioni di morti, le città si spopolano con gli abitanti che cercano cibo fuggendo nelle campagne (Pietrogrado passa così da 2,4 milioni di abitanti a 722mila). Perché l’Ucraina fa mancare il 35% dei cereali al resto dell’Unione, e la piccola borghesia rurale dei Kulaki nasconde il grano. Perché ancora nella guerra civile che prosegue fino al 1923, i bianchi riconquistano un milione e mezzo di KM quadrati. Il malcontento perciò esplode: ed è la rivolta degli operai delle officine Putilov, sedata dai marinai della Base Navale di Kronstadt che, mesi dopo, si ribellano a loro volta e saranno repressi nel sangue. Tremendi gli ostacoli iniziali con cui l’Unione Sovietica deve misurarsi. Il che mi fa dire che la Rivoluzione non si è conclusa nell’Ottobre ma è proseguita con contraddizioni, tragedie come la distruzione della vecchia guardia bolscevica, ed errori. Ma anche con innegabili successi, in quanto, l’Unione Sovietica” ha spuntato le armi all’imperialismo più aggressivo, ne ha ridotto i margini di manovra e lo strapotere internazionale, ha contribuito in modo determinante alla sconfitta del Fascismo e del Nazismo, lottando in seguito con estrema coerenza per la pace e la distensione tra i popoli” (così Luigi Longo, alla celebrazione del 60° della Rivoluzione). Ma oggi l’Unione Sovietica non c’è più e quindi, il 100° Anniversario dell’Ottobre cade dopo un quarto di secolo dal crollo del primo Stato Socialista della Storia dell’Umanità, che fu l’espressione geo-politica di quell’Ottobre. Quello Stato fu cancellato, politicamente e geograficamente, non dalla cosiddetta “piattaforma di Eltsin”, ma dalla crisi profonda dovuta all’esplosione dei nazionalismi, certo pilotata dall’esterno, ma che faceva perno, all’interno, sulla penuria dei beni essenziali e sulla corruzione diffusa. Negli ambienti di certa Sinistra Europea si indicò in Gorbaciov il responsabile del crollo. Certo Gorbaciov ebbe le sue responsabilità, ma le maggiori vanno attribuite a gruppi dirigenti sovietici che via via si sono allontanati dallo spirito dell’Ottobre: e così si sono allontanati dal popolo. E il popolo non ha reagito, non si è ribellato al crollo del sistema. Poi la reazione ha fatto il suo. L’Ottobre e il processo che l’ha partorito non portano, e questo va detto con forza, le responsabilità per la fine dell’Unione Sovietica. Esattamente come la Rivoluzione Francese non ha in sé le colpe per il colpo di Stato del 18 brumaio che spianò la strada a Napoleone e all’Impero.

Ma al di là delle cause che l’hanno resa possibile, la fine dell’Unione Sovietica è stata un colpo mortale per il proletariato del pianeta, e se fu salutata con entusiasmo dalla reazione, dalla borghesia, e anche da certa sinistra liberal-democratica, fu guardata con sconcerto e smarrimento da altri, perché quella fine poteva significare, e in gran parte significò, la vittoria del libero mercato portatore di tragedie sociali, dalla guerra alla povertà. Quella fine poteva significare l’avvento di un mondo unipolare sotto il comando unico, economico e militare, degli Stati Uniti. Se oggi non è così, è solo perché è esploso il fenomeno Cina che però è un’altra cosa. I lavoratori occidentali, compresi quelli italiani, soprattutto quelli italiani, potrebbero spiegare cosa ha significato per davvero la scomparsa di quel gigantesco contrappeso, antagonistico al modello capitalistico costituito, con tutti i suoi difetti dall’Unione Sovietica. Farebbero rilevare che le conquiste strappate dal proletariato anche italiano, guidato dal PCI e dalla CGIL, non sarebbero state possibili senza l’ombra immensa che l’Unione Sovietica gettava sull’Occidente, ben oltre quindi i suoi confini. E allora il capitalismo doveva, era costretto, a negoziare. Finita l’Unione Sovietica, spenta la sua influenza, è da un quarto di secolo che i lavoratori debbono ritornare alla borghesia tutte le loro conquiste del dopoguerra. E oggi si subisce in silenzio perché è scattato un nesso tra la caduta del cosidetto socialismo reale e l’estrema debolezza che hanno le posizioni di quanti tuttora generosamente si richiamano al socialismo egualitario. Un’intera generazione è stata così cancellata dall’orizzonte sociale: una catastrofe antropologica anche se per fortuna esistono, sopravvivono, isole di resistenza. Se questa è la realtà, domandiamoci, ha ancora un significato ricordare il giorno della Rivoluzione Russa?

Noi vogliamo celebrare l’anniversario della Rivoluzione per due ragioni: ricordare il passato e cercare di capire meglio il presente. Due cose da tenere insieme. Il passato è rappresentato dalla realizzazione di un sogno: quello di chi non aveva niente e diventa padrone di tutto. Immensi i problema che incontra, i sacrifici che sopporta, gli errori e i crimini che sono stati commessi. Ma, con questo, in settantaquattro anni è partito il primo esperimento di riscatto della classe lavoratrice che ha dato spinta ai movimenti di liberazione dei popoli coloniali (che venivano per davvero “aiutati a casa loro”). Se poi il processo è rallentato sino a bloccarsi non vuol dire che la Rivoluzione d’Ottobre abbia perso il suo valore. In Russia come nei Paesi Socialisti (fanno eccezione, ognuno con la sua peculiarità, la Cina, Cuba, il Vietnam, e anche la Corea del Nord) è finito il sistema socialista come sistema egemone ma non è finita l’esperienza socialista. Con le sue contraddizioni, essa si presenta nel Latino America in forme originali impensabili anni fa. L’esperienza socialista è destinata ad essere ripensata e rielaborata dalle classi operaie e, come sempre accade nei processi storici, prima o poi si dimenticheranno gli aspetti negativi delle esperienze precedenti e si rivaluteranno gli aspetti essenziali e positivi. Mario Alinei, ricordando a Milano il 73° Anniversario dell’Ottobre, concludeva così: “l’esperienza socialista è destinata a tramandarsi di generazione in generazione, a diventare ispirazione di lotta politica, finchè non si affermerà in modo più maturo, quando la classe operaia si accorgerà di essere stata derubata di un bene prezioso”.

La Rivoluzione d’Ottobre non è che l’inizio. 

Comments

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Eros Barone
Monday, 13 November 2017 10:53
Per quanto riguarda il libro di Angelo D’Orsi, “1917, l’anno della rivoluzione”, che l'autore dell'articolo assume come punto di riferimento del suo discorso e di cui trascrive enfaticamente ma erroneamente il termine 'rivoluzione' con la erre maiuscola, mi permetto di sollevare qualche dubbio sulla sua validità. Di questo libro, infatti, non si capisce quale sia il senso, essendo esso più simile ad un lunario di Barbanera in forma retrospettiva che non ad un saggio storico rigoroso. Mescolare Lenin, Mata Har, Caporetto e le apparizioni della Madonna di Fatima non credo cher giovi alla chiarezza del discorso che ci si propone di sviluppare, mentre può forse giustificarsi per modeste ragioni di mercato, poiché siffatte 'trouvaille' possono forse conquistare qualche lettore in più in un mondo della produzione culturale e del mercato librario che deve essere sceso a livelli veramente infimi se i culi di bottiglia vengono scambiati per diamanti.
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