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palermograd

La Rivoluzione d'Ottobre

di China Miéville*

Ottobre rosso1 800X400 800x400L’alba del 25 si avvicinava. Kerensky, disperato, lanciò un appello ai cosacchi «in nome della libertà, dell’onore e della gloria del nostro Paese natio […] per venire in aiuto del Comitato centrale esecutivo del soviet, della democrazia rivoluzionaria e del governo provvisorio, e per salvare lo Stato russo morente».

Ma i cosacchi volevano sapere se la fanteria stesse arrivando. La riposta del governo fu evasiva, e allora tutti, ad eccezione di pochi fedelissimi, risposero che non erano disposti ad agire da soli «facendo da bersagli viventi».

Ripetutamente, in diversi punti della città, il Comitato militare rivoluzionario (Cmr) disarmava senza colpo ferire le guardie fedeli al governo, invitandole semplicemente a tornarsene a casa. Nella maggior parte dei casi, esse obbedirono. Gli insorti occuparono il Palazzo dei genieri semplicemente entrandovi. «Entrarono e si misero a sedere, mentre quelli che erano seduti si alzarono e se ne andarono», secondo un aneddoto. Alle sei del mattino quaranta marinai rivoluzionari si diressero verso la Banca di Stato di Pietrogrado, le cui guardie, del reggimento Semenovsky, si erano dichiarate neutrali: avrebbero difeso la banca da rapinatori e criminali, ma non avrebbero preso posizione tra reazione e rivoluzione, né sarebbero intervenuti. Si fecero allora da parte e lasciarono che il Cmr prendesse il loro posto.

Nel volgere di un’ora, mentre la luce acquosa dell’inverno inumidiva la città, un distaccamento del reggimento Keksgolmsky, al comando di Zakharov, un insolito cadetto della scuola militare passato alla rivoluzione, marciò verso la centrale telefonica principale. Zakharov vi aveva lavorato e ne conosceva i sistemi di sicurezza. Quando arrivò lì, non ebbe difficoltà a dirigere le sue truppe per isolare e disarmare i cadetti apatici e impotenti di guardia sul posto. I rivoluzionari staccarono le linee del governo.

Ne lasciarono attive due, grazie alle quali i ministri del governo rimasero attaccati ai telefoni intorno alle filigrane bianche e dorate, ai pilastri e ai lampadari della sala Malachite del Palazzo d’Inverno, mantenendo i contatti con le loro esigue forze. Davano inutili istruzioni, litigando a bassa voce mentre Kerensky fissava il vuoto.

A metà mattinata, a Kronstadt, come già era accaduto in precedenza, i marinai armati si imbarcarono su tutto ciò che trovarono di adatto alla navigazione. Da Helsingfors partirono su cinque cacciatorpediniere e guardacoste, tutte decorate con bandiere rivoluzionarie. In tutta Pietrogrado i rivoluzionari stavano ancora una volta svuotando le prigioni.

Allo Smolny una figura trasandata piombò nel bel mezzo dei lavori nella sala operativa dei bolscevichi. Gli attivisti fissarono sconcertati il nuovo arrivato, finché Vladimir BonchBruevich urlò correndo verso di lui a braccia aperte. «Vladimir Ilich, nostro padre! Non ti avevo riconosciuto, mio caro!».

Lenin si sedette per scrivere un proclama. Fremeva ansiosamente in una disperata lotta contro il tempo per rovesciare definitivamente il governo prima dell’apertura del secondo congresso. Conosceva bene il potere del fatto compiuto.

«Ai cittadini di Russia.

Il governo provvisorio è stato abbattuto. Il potere statale è passato nelle mani dell’organo del soviet dei deputati operai e soldati di Pietrogrado, il Comitato militare rivoluzionario, che è alla testa del proletariato e della guarnigione di Pietrogrado.

La causa per la quale il popolo ha lottato, l’immediata proposta di una pace democratica, l’abolizione della grande proprietà fondiaria, il controllo operaio della produzione, la creazione di un governo sovietico, questa causa è assicurata.

Viva la rivoluzione degli operai, dei soldati e dei contadini!».

Ormai abbastanza convinto dell’utilità del Cmr, Lenin non firmò il proclama a nome dei bolscevichi, ma a nome di quest’organismo “apartitico”. Il proclama fu in tutta fretta stampato negli spessi caratteri tipici del cirillico. Non appena le copie furono pronte vennero affisse a mo’ di manifesti su un’infinità di muri. Gli operatori dei telegrafi ne inviavano le parole attraverso i cavi.

In realtà, non era la verità ma un’aspirazione.

Nel Palazzo d’Inverno, Kerensky usò i suoi ultimi canali di comunicazione per far riunire le truppe che stavano marciando verso la capitale. Raggiungerle ora, tuttavia, non era proprio facile. Avrebbe potuto fuggire, ma il Cmr controllava le stazioni.

Gli serviva aiuto. Lo Stato maggiore fece una lunga e sempre più frenetica ricerca, e alla fine trovò una vettura adatta. Implorando riuscì ad assicurarsi l’uso di un’altra automobile dell’ambasciata americana, un veicolo con un’utilissima targa diplomatica.

Verso le undici del mattino del giorno 25, proprio mentre il proclama anticipatore di Lenin iniziava a circolare, i due veicoli sfrecciarono davanti ai posti di blocco del Cmr, più animati di entusiasmo che di efficienza.

Un Kerensky distrutto fuggiva dalla città col suo piccolo seguito, alla ricerca di soldati fedeli.

Nonostante la sollevazione, a molti cittadini sembrava di vivere quasi un giorno normale a Pietrogrado. Certo, era impossibile ignorare una certa confusione e agitazione, ma relativamente poche erano le persone coinvolte nei veri e propri scontri, e solo in zone strategiche. Mentre questi combattenti erano impegnati nelle loro attività insurrezionali o controrivoluzionarie per rimodellare il mondo, la maggior parte dei tram effettuava le proprie corse, la maggior parte dei negozi era aperta.

A mezzogiorno alcuni soldati rivoluzionari in armi e marinai arrivarono a Palazzo Mariinsky. I membri del preparlamento discutevano ansiosamente il dramma che si stava consumando e al quale stavano per prendere parte.

Un commissario del Cmr fece irruzione nella sala e ordinò al presidente del preparlamento, Avksentiev, di sgombrare il palazzo. I soldati e i marinai, armi in pugno, si fecero strada per entrare, disperdendo i deputati terrorizzati. Avksentiev, in stato confusionale, riunì in tutta fretta quanti più membri poté del comitato dirigente. Sapevano che ogni resistenza sarebbe stata vana, ma abbandonarono la sala protestando formalmente come meglio riuscirono a fare, con l’impegno che la seduta sarebbe stata riconvocata appena possibile.

Quando uscirono nel freddo pungente, le nuove guardie del palazzo controllarono i loro documenti, ma non li trattennero. Non era certo il ridicolo preparlamento quel premio che, per la folle esasperazione di Lenin, continuava a sfuggire loro.

Quel premio, ormai senza più Kerensky, si trovava nel Palazzo d’Inverno: dove, mentre il mondo crollava intorno, la cupa brace del governo provvisorio ancora brillava.

A mezzogiorno, nella grande sala Malachite, il magnate tessile Konovalov, del partito cadetto, convocò il consiglio.

«Non so perché sia stata convocata questa riunione», borbottò il ministro della Marina, l’ammiraglio Verderevsky. «Non abbiamo alcuna tangibile forza militare, per cui siamo incapaci di intraprendere qualsiasi azione». Forse, ipotizzò, avrebbero dovuto riunirsi con il preparlamento: ma, proprio mentre parlava, giunse la notizia che era stato sciolto.

I ministri ricevevano rapporti e rivolgevano appelli alla sempre più ristretta cerchia dei propri interlocutori. Quelli che non erano presi dal triste realismo di Verderevsky si abbandonavano a fantasticherie. Con gli ultimi brandelli di potere che stavano per essere spazzati via, vagheggiavano di una nuova autorità.

Con tutta la serietà di questo mondo, a guisa di fiammiferi spenti che raccontavano truci storie di conflagrazioni che stavano per iniziare, le ceneri del governo provvisorio russo discutevano su chi di loro avrebbe dovuto fare il dittatore.

Questa volta, le forze di Kronstadt raggiunsero le acque di Pietrogrado a bordo di un’ex nave da diporto, due posamine, una nave scuola, un’antica nave da battaglia e una falange di piccole chiatte. Un’altra flottiglia pazzesca.

Non lontano da dove il governo fantasticava sulla dittatura, i marinai rivoluzionari arrestarono l’ammiragliato e l’alto comando navale. Il reggimento Pavlovsky installò dei picchetti sui ponti. Il reggimento Keksgolmsky prese il controllo della parte a nord del fiume Moika.

Mezzogiorno, l’ora in origine fissata per la presa del Palazzo d’Inverno, era scoccato e passato. La scadenza venne rinviata di tre ore, il che significava che l’arresto del governo era fissato per dopo le due pomeridiane, ora dell’inaugurazione del congresso dei soviet: esattamente ciò che Lenin voleva evitare. Sicché, quell’inaugurazione venne rinviata.

Ma l’atrio dello Smolny era ormai gremito di delegati dei soviet di Pietrogrado e della provincia che chiedevano notizie e non potevano più essere tenuti all’oscuro.

Allora, alle 14:35, Trotsky aprì una seduta straordinaria del soviet di Pietrogrado.

«In nome del Comitato militare rivoluzionario – esclamò – dichiaro che il governo provvisorio non esiste più».

Le sue parole scatenarono un’ondata di giubilo. Le principali istituzioni erano nelle mani del Cmr, proseguì Trotsky sovrastando il frastuono. Il Palazzo d’Inverno sarebbe caduto «a momenti». Ci fu un’altra enorme acclamazione: Lenin stava entrando nella sala.

«Viva il compagno Lenin! – urlò Trotsky – Di nuovo qui con noi!».

La prima apparizione in pubblico da luglio fu breve e trionfante. Non fornì dettagli, ma annunciò «l’inizio di un nuovo periodo» ed esortò: «Viva la rivoluzione socialista mondiale!».

La maggior parte dei presenti urlò dalla gioia. Ma ci fu qualche dissenso.

«Stai anticipando la volontà del secondo congresso dei soviet!», gridò qualcuno.

«La volontà del secondo congresso dei soviet è già stata predeterminata dal fatto compiuto dell’insurrezione degli operai e dei soldati», rispose urlando Trotsky. «Ora dobbiamo solo sviluppare questo trionfo».

Ma tra i proclami di Volodarsky, Zinoviev e Lunacharsky, un piccolo numero di moderati, perlopiù menscevichi, abbandonò gli organi esecutivi del soviet, avvertendo delle terribili conseguenze che sarebbero scaturite da questa cospirazione.

Dopo quasi otto ore di stallo, i delegati dei soviet non accettarono ulteriori rinvii. Un’ora dopo il primo colpo, nella grande sala colonnata delle assemblee dello Smolny si aprì il secondo congresso dei soviet.

La sala era avvolta nel fumo delle sigarette, nonostante i ripetuti avvisi – spesso allegramente lanciati dagli stessi fumatori – che era vietato fumare. I delegati, come ricorda Sukhanov con un brivido, perlopiù mostravano «i grigi lineamenti delle province bolsceviche». Sembravano, al suo sguardo raffinato, «cupi» e «primitivi» e «tetri», «crudeli e ignoranti».

Dei 670 delegati, 300 erano bolscevichi, 193 socialisti rivoluzionari, di cui più della metà della sinistra del partito; 68 erano i menscevichi e 14 i menscevichi internazionalisti. La restante parte era composta da indipendenti, o membri di piccoli gruppi. Il peso della presenza dei bolscevichi rendeva chiaro che il sostegno al partito andava crescendo tra coloro che eleggevano i propri rappresentanti: ed era anche aumentato per effetto di alcuni permissivi meccanismi organizzativi, grazie ai quali era stato loro attribuito un peso maggiore rispetto al risultato proporzionale. Anche così, senza la sinistra dei socialrivoluzionari, essi non avevano la maggioranza.

Ad ogni modo, non fu un bolscevico a suonare la campana dell’apertura dei lavori, ma un menscevico. I bolscevichi giocarono sulla vanità di Dan offrendogli questo ruolo. Ma lui frustrò subito ogni speranza di trasversale cameratismo o amabilità.

«Il Comitato esecutivo centrale ritiene superflui i nostri abituali discorsi politici di apertura», annunciò. «Perfino ora, i nostri compagni che disinteressatamente stanno assolvendo i compiti che abbiamo loro affidato sono sotto il tiro dei proiettili nel Palazzo d’Inverno».

Dan e gli altri moderati che avevano guidato sin da marzo il soviet abbandonarono i loro seggi per essere sostituiti dal nuovo presidium, distribuito proporzionalmente. Accompagnati da urla di approvazione, quattordici bolscevichi – tra cui Kollontai, Lunacharsky, Trotsky, Zinoviev – e sette socialrivoluzionari di sinistra, compresa la grande Maria Spiridonova, salirono sul palco. I menscevichi, indignati, rifiutarono i loro tre seggi. Un posto era stato tenuto per i menscevichi internazionalisti: in una mossa al contempo dignitosa e patetica, il gruppo di Martov rifiutò di accettarlo, riservandosi il diritto di farlo in seguito.

Mentre la nuova direzione prendeva posto e si preparava per dare il via ai lavori, la sala fu illuminata dal bagliore di un altro colpo di cannone. Tutti gelarono.

Stavolta, il colpo proveniva dalla Fortezza di Pietro e Paolo. A differenza di quello dell’Aurora, non era a salve.

Il bagliore oleoso delle detonazioni si rifletteva sulla Neva. Le granate schizzavano in aria disegnando archi nel cielo notturno e fischiando mentre cadevano puntando i loro bersagli. Molte di esse, per indulgenza o incapacità, bruciavano rumorosamente, spettacolari e innocue nel cielo. Altre ancora sprofondavano nell’acqua schiantandosi tra gli spruzzi.

Le Guardie rosse spararono anch’esse dalle loro postazioni. I loro colpi sforacchiarono le mura del Palazzo d’Inverno. I residui del governo ancora al suo interno si rintanarono sotto i tavoli mentre i vetri andavano in frantumi intorno a loro.

Allo Smolny, mentre risuonavano i sinistri echi dell’assalto, Martov, con voce tremante e roca, insisteva perché si trovasse una soluzione pacifica, e fece appello per un cessate il fuoco e per l’inizio di negoziati che portassero a un governo trasversale di tutti i partiti socialisti uniti.

Scoppiò un fragoroso applauso dalla sala. Dallo stesso presidium, Mstislavsky, socialrivoluzionario di sinistra, appoggiò con tutto il fiato che aveva la proposta di Martov. Fecero lo stesso a gran voce molti dei presenti, tra cui la maggior parte della base dei bolscevichi.

Per la direzione del partito si levò in piedi Lunacharsky, che, clamorosamente, annunciò che «la frazione bolscevica non aveva assolutamente nulla in contrario rispetto alla proposta di Martov».

I delegati votarono la mozione di Martov, che ottenne un sostegno unanime.

Bessy Beatty, corrispondente del San Francisco Bulletin, era nella sala. Comprese la posta in gioco che c’era in ciò cui stava assistendo. «Fu un momento critico nella storia della Rivoluzione russa», scrisse. Sembrava che stesse per nascere una coalizione socialista democratica.

Ma, mentre quel momento si prolungava, risuonò ancora il rumore delle armi sulla Neva, i cui echi scossero la sala facendo riapparire le divergenze tra i partiti.

«Si sta consumando un’avventura politica criminale alle spalle del congresso panrusso», dichiarò Karash, un ufficiale menscevico. «I menscevichi e i socialisti rivoluzionari ripudiano tutto ciò che sta accadendo qui e si oppongono tenacemente a tutti i tentativi di impadronirsi del governo».

«Non rappresenta la dodicesima armata!», urlò un soldato infuriato. «L’esercito chiede che tutto il potere vada ai soviet!».

Una raffica di interruzioni. Venne il turno dei socialrivoluzionari di destra e dei menscevichi di urlare accuse ai bolscevichi, avvertendo che avrebbero abbandonato i lavori, mentre la sinistra li zittiva gridando.

L’atmosfera si fece ancor più tesa. Khinchuk, del soviet di Mosca, prese la parola. «L’unica possibile soluzione pacifica alla crisi attuale sta nel negoziato col governo provvisorio», ribadì.

Una bolgia. L’intervento di Khinchuk rappresentò o una catastrofica sottovalutazione dell’odio verso Kerensky, oppure una deliberata provocazione, e scatenò la rabbia di molti altri, oltre che degli increduli bolscevichi. Alla fine, nel frastuono generale, Khinchuk urlò: «Abbandoniamo questo congresso!».

Ma tra gli scalpitii di protesta, le urla di disapprovazione e i fischi che accolsero quest’appello, i menscevichi e i socialisti rivoluzionari esitarono. Dopotutto, la minaccia di andarsene era pur sempre l’ultima carta da giocare.

Dall’altro lato di Pietrogrado, la Duma discuteva l’apocalittica telefonata di Maslov. «Facciamo sapere ai nostri compagni che non li abbiamo abbandonati, che sappiano che moriremo insieme a loro», dichiarò il socialrivoluzionario Naum Bykhovsky. I liberali e i conservatori si alzarono per votare a favore, per unirsi a coloro che si trovavano asserragliati nel Palazzo d’Inverno e sotto tiro, pronti persino a morire per la salvezza del regime. La contessa Sofia Panina, del partito cadetto, dichiarò che voleva stare «in piedi di fronte al cannone».

Manifestando disprezzo, i bolscevichi votarono contro, affermando che sarebbero andati anche loro, ma non al Palazzo d’Inverno, bensì al Soviet.

Dopo il voto, i due contrapposti cortei si misero in marcia nell’oscurità.

Allo Smolny, Erlich, membro del Bund ebraico, interruppe i lavori per dare la notizia delle decisioni dei deputati della Duma. Era giunta l’ora – disse – per quelli che «non volevano un bagno di sangue», di unirsi alla marcia verso il Palazzo, in segno di solidarietà verso il governo. Ancora una volta, risuonarono le imprecazioni della sinistra, mentre menscevichi, il Bund, i socialisti rivoluzionari e pochi altri si alzarono e alla fine uscirono dalla sala. Rimasero i bolscevichi, i socialrivoluzionari di sinistra e gli sconvolti menscevichi internazionalisti.

Camminando a fatica sotto la fredda pioggia notturna, i moderati autoesiliati dallo Smolny raggiunsero la Prospettiva Nevsky e la Duma. Lì si unirono ai loro deputati, ai menscevichi e socialisti rivoluzionari membri del Comitato esecutivo del soviet dei contadini, e insieme si mossero per manifestare la loro solidarietà al governo. Camminarono in fila per quattro dietro il sindaco Shreider e il ministro degli Approvvigionamenti Sergei Prokopovic. Portando pane e salsicce per rifocillare i ministri, trecento persone in gruppo, intonando la Marsigliese, marciavano per andare a morire per il governo provvisorio.

Non riuscirono a percorrere un solo isolato che, all’angolo del canale, i rivoluzionari sbarrarono loro la strada.

«Vi chiediamo di lasciarci passare!», urlarono Shreider e Prokopovich. «Stiamo andando al Palazzo d’Inverno!».

Perplesso, un marinaio si rifiutò di farli proseguire.

«Sparateci pure, se volete!» dissero i manifestanti in tono di sfida. «Siamo pronti a morire, se avete il coraggio di sparare a dei russi, a dei compagni … Offriamo il nostro petto ai vostri fucili!».

La singolare impasse continuava. La sinistra non voleva sparare, la destra rivendicava il proprio diritto di passare o di essere fermata con le pallottole. «Che farete?», urlò qualcuno al marinaio che si rifiutava ostinatamente di ucciderlo.

Il racconto di John Reed, che vide coi propri occhi cosa successe in seguito, è famoso. «Venne fuori un altro marinaio, estremamente irritato. “Vi prenderemo a calci nel sedere!”, esclamò in tono energico. “E se sarà necessario vi spareremo pure. Andatevene a casa ora, e lasciateci in pace”».

Non sarebbe stato un destino onorevole per dei campioni di democrazia. In piedi su una cassa, brandendo l’ombrello, Prokopovich annunciò ai suoi seguaci che avrebbero salvato quei marinai da se stessi. «Non possiamo sporcare del nostro sangue innocente le mani di questa gente ignorante! … Non è dignitoso per noi farci sparare addosso» – figuriamoci essere presi a calci – «qui, in mezzo alla strada da dei manovratori. Torniamo alla Duma, e discutiamo sul modo migliore per salvare il Paese e la rivoluzione!».

Dopodiché, gli autoproclamatisi morituri per la democrazia liberale girarono i tacchi e presero la strada di un rapido e imbarazzato ritorno, portando con sé le loro salsicce.

Martov era rimasto alla riunione generale nella sala delle assemblee. Cercava ancora disperatamente un compromesso. A quel punto propose una mozione di critica ai bolscevichi per avere anticipato la volontà del congresso, suggerendo – ancora una volta – che iniziassero i negoziati per un governo socialista ampio e inclusivo. Era simile alla mozione proposta due ore prima, cui i bolscevichi non si erano opposti, a dispetto della volontà di Lenin di rompere coi moderati.

Ma due ore sono un tempo lungo.

Mentre Martov si sedeva, ci fu un certo subbuglio, e la rappresentanza bolscevica alla Duma fece il suo ingresso in sala piacevolmente sorprendendo gli altri delegati. Erano venuti, come dichiararono, «per vincere o morire con il congresso panrusso».

Quando gli applausi cessarono, Trotsky in persona si levò per rispondere a Martov.

«Una sollevazione delle masse popolari non richiede alcuna giustificazione», dichiarò. «Ciò che è accaduto è un’insurrezione, e non già una cospirazione. Noi abbiamo temprato l’energia rivoluzionaria dei lavoratori e dei soldati di Pietroburgo. Abbiamo forgiato alla luce del sole la volontà delle masse per un’insurrezione, non per una cospirazione. Le masse popolari hanno seguito le nostre bandiere e la nostra insurrezione ha vinto. E ora ci viene detto: rinunciate alla vostra vittoria, fate concessioni, compromessi. Con chi? Chiedo: con chi dovremmo fare un compromesso? Con quei gruppi di miserabili che ci hanno lasciato o che stanno avanzando questa proposta? Ma dopotutto sappiamo benissimo chi sono. In Russia non c’è più nessuno che stia dalla loro parte. E si dovrebbe fare questo compromesso, come fossero due parti sullo stesso piano, tra i milioni di lavoratori e contadini rappresentati in questo congresso e chi invece è pronto – e non sarebbe né la prima volta, né l’ultima – a mercanteggiare sol perché la borghesia lo ritiene giusto. No, nessun compromesso è possibile. A coloro che se ne sono andati e a chi ci chiede di fare questo noi rispondiamo: siete dei miserabili falliti, siete fuori dai giochi. Andate dove dovete andare: nell’immondezzaio della storia!».

La sala esplose. Tra i fragorosi e prolungati applausi, Martov si alzò in piedi. «E allora ce ne andiamo!», esclamò.

Quando fece per voltarsi, un delegato gli sbarrò la strada. Lo fissò con un’espressione a metà tra il dispiaciuto e l’accusatorio.

«E noi che pensavamo che almeno Martov sarebbe rimasto con noi», disse.

«Un giorno comprenderete», rispose Martov con la voce rotta, «il crimine al quale state partecipando».

E uscì.

Rapidamente, il congresso approvò una sprezzante risoluzione di denuncia di coloro che si erano ritirati dai lavori, compreso Martov. Queste frecciate risultavano sgradite e inutili ai restanti socialrivoluzionari di sinistra e menscevichi internazionalisti; e così pure a molti bolscevichi.

Boris Kamkov fu caldamente applaudito quando annunciò che il suo gruppo, i socialisti rivoluzionari di sinistra, sarebbe rimasto. Cercò di riprendere la proposta di Martov, criticando con garbo la maggioranza bolscevica. Essi non rappresentavano i contadini, o la maggioranza dell’esercito, ricordò all’uditorio. Perciò un compromesso era ancora necessario.

Stavolta non fu Trotsky a rispondere, ma il popolare Lunacharsky, che aveva in precedenza concordato con la proposta di Martov. I nuovi compiti erano certamente gravosi, convenne, ma

«le critiche che ci muove Kamkov sono infondate»«Se, inaugurando questa sessione, avessimo cominciato a porre in essere qualsiasi atto per rifiutare o eliminare altri esponenti, Kamkov avrebbe ragione», continuò Lunacharsky. «Ma tutti noi abbiamo unanimemente accettato la proposta di Martov di discutere la maniera pacifica di risolvere la crisi. E siamo stati subissati da una valanga di dichiarazioni. È stato condotto un sistematico attacco contro di noi … Senza ascoltarci, senza nemmeno preoccuparsi di discutere la loro stessa proposta, essi [i menscevichi e i socialisti rivoluzionari] hanno voluto separarsi da noi».

Si sarebbe potuto rispondere a Lunacharsky che Lenin aveva, per settimane, insistito affinché il suo partito prendesse il potere da solo. Eppure, nonostante tutto quello scetticismo, Lunacharsky aveva ragione.

Sia stato per una sincera solidarietà, brutalmente, per confusione, o per qualsiasi altro motivo, tutti i bolscevichi, così come chiunque di ogni altro partito, avevano appoggiato la cooperazione – un governo di unità socialista – quando Martov per la prima volta l’aveva proposta.

Bessie Beatty ha ipotizzato che Trotsky non sia riuscito a muoversi rapidamente come avrebbe potuto in risposta a questa proposta, forse a causa di «qualche amaro ricordo di insulti subiti ad opera di questi altri dirigenti». Ma ciò è opinabile, e, se pure fosse vero, i menscevichi i socialrivoluzionari di destra e altri avevano scelto di rinfacciare il voto ai bolscevichi. Erano da ciò direttamente passati all’opposizione, stigmatizzando quelli alla loro sinistra.

La domanda di Lunacharsky era ragionevole: come si può collaborare con chi ha respinto la collaborazione?

Come per sottolineare il punto, proprio in quel preciso momento i moderati che erano usciti dalla sala etichettavano la riunione come «un incontro privato dei delegati bolscevichi», annunciando che il Comitato centrale esecutivo «riteneva che il secondo congresso non avesse neppure avuto luogo».

Nella sala, la discussione sulla conciliazione si trascinò nel momento peggiore. Ma a quel punto l’opinione prevalente era dalla parte di Lunacharsky, e di Trotsky.

Al Palazzo d’Inverno si giocava l’ultima partita.

Il vento entrava attraverso i vetri rotti. Le grandi sale erano gelide. Soldati sconsolati, privi di ogni scopo, vagavano vicino alle aquile bicipiti della sala del trono. Gli invasori avevano raggiunto la stanza personale dell’imperatore, vuota, e si attardarono a infierire a colpi di baionetta sul dipinto che lo ritraeva mentre egli, calmo, li guardava dalla parete. Sfregiarono il quadro come bestie coi loro artigli, lasciando lunghi squarci che segnarono la figura dell’ex zar dalla testa ai piedi.

Delle sagome di uomini apparivano e scomparivano, ciascuno incerto dell’identità dell’altro. Un certo tenente Sinegub era rimasto, incaricato di difendere il governo. In quelle ore confuse aveva sorvegliato i corridoi assediati aspettandosi un attacco, alla deriva in una specie di panico calmo, di estrema e narcotizzante stanchezza, assistendo a scene come scampoli di una qualche storia confusa: un anziano gentiluomo in uniforme da ammiraglio seduto immobile su una poltrona; un centralino spento e abbandonato; dei soldati accovacciati sotto gli sguardi attenti di ritratti in una galleria.

Le scaramucce tra gli uomini avvenivano sulle scale. Ogni scricchiolio sulle assi del pavimento poteva essere la rivoluzione. Giunse uno junker diretto da qualche parte, per una qualche missione. Con una calma innaturale, avvisò che la persona vicino alla quale Sinegub era appena passato – sì, era proprio passato vicino a qualcuno – era probabilmente uno dei nemici. «Bene, eccellente», disse Sinegub. «Guardate! Me ne assicurerò subito». Si voltò e lo immobilizzò – effettivamente l’altro uomo era uno degli insorti – tirandogli giù il pastrano come un bambino in una rissa da cortile, così che non potesse più muovere le braccia.

Intorno alle due del mattino, le forze del Cmr fecero irruzione in massa nel Palazzo. Fuori di sé, Konovalov telefonò a Shreider. «Non ci resta che una piccola forza di cadetti», disse. «Ci arresteranno presto». La linea cadde.

I ministri sentirono colpi inutili provenire dai corridoi. L’ultima loro difesa. Rumore di passi. Un cadetto ansimante entrò correndo per ricevere ordini. «Combattiamo fino all’ultimo uomo?», chiese.

«Nessuno spargimento di sangue!», gli risposero urlando. «Dobbiamo arrenderci».

Rimasero in attesa. Uno strano disagio. Come era meglio farsi trovare? Certamente, non mentre si aggiravano imbarazzati, con i soprabiti posati sul braccio come uomini d’affari in attesa del treno.

Kishkin il dittatore prese il controllo. Diede gli ultimi due ordini del suo regno.

«Lasciate i vostri soprabiti», disse. «Sediamoci intorno al tavolo».

Obbedirono. E così stavano, come l’immagine congelata di una seduta di governo, allorquando Antonov fece irruzione in modo spettacolare, col suo eccentrico cappello da artista calcato all’indietro sui capelli rossi. Dietro di lui, soldati, marinai e Guardie rosse.

«Il governo provvisorio è qui», disse con una straordinaria dignità Konovalev, come se stesse rispondendo a una bussata alla porta piuttosto che a un’insurrezione. «Cosa desiderate?».

«Informo voi tutti, membri del governo provvisorio», disse Antonov, «che siete tratti in arresto».

Prima della rivoluzione – era passata una vita politica – uno dei ministri presenti, Maliantovich, aveva dato rifugio nella sua casa ad Antonov. I due si scambiarono uno sguardo, ma non dissero nulla.

Le Guardie rosse divennero furibonde quando scoprirono che Kerensky era da tempo andato via. Inferocito, uno gridò: «Facciamo fuori tutti questi figli di puttana a colpi di baionetta!».

«Non tollererò alcuna violenza contro di loro», replicò con molta calma Antonov.

Subito dopo condusse via i ministri, lasciandosi dietro sommarie bozze di proclami, cancellate, incroci senza senso come farneticazioni di dittatura in fantasiosi progetti. Cominciò a squillare un telefono.

Sinegub guardava dal corridoio. Quando tutto fu finito, sparito il suo governo, il suo dovere compiuto, si voltò in silenzio e andò via, uscendo sotto la luce dei riflettori.

Dei ladri rovistarono nel dedalo di stanze. Ignorarono le opere d’arte e presero vestiti e ninnoli, calpestando fogli sparsi sul pavimento. Quando uscirono, furono perquisiti dai soldati rivoluzionari che confiscarono i loro souvenir. «Questo palazzo appartiene al popolo», li rimproverò un tenente bolscevico. «Questo è il nostro palazzo. Non derubate il popolo».

L’elsa di una spada spezzata, una candela di cera. I ladruncoli abbandonarono il loro bottino. Una coperta, un cuscino di un divano.

Antonov fece uscire gli ex ministri. Li accolse una folla violenta, eccitata e infuriata. Per proteggerli, egli stette in piedi davanti a loro. «Non li toccate», disse orgogliosamente insieme ad altri esperti bolscevichi. «È da barbari».

Ma il ruggito rabbioso della folla non si sarebbe placato così facilmente se non ci fosse stato un colpo di fortuna. Dopo alcuni attimi di tensione, il crepitio di mitragliatrici vicine indusse la gente a disperdersi in preda al panico, sicché Antonov colse al volo l’opportunità per attraversare di corsa il ponte, spingendo e trascinando i prigionieri verso le carceri della fortezza di Pietro e Paolo.

Prima che la porta della sua cella si chiudesse, il ministro degli Interni, il menscevico Nikitin, estrasse dalla tasca un telegramma inviatogli dalla Rada ucraina.

«Ieri ho ricevuto questo», disse consegnandolo ad Antonov. «Ora è affar vostro».

Allo Smolny, fu quell’ostinato pessimista di Kamenev a dare la notizia ai delegati: «I dirigenti controrivoluzionari insediati nel Palazzo d’Inverno sono stati catturati dalla guarnigione rivoluzionaria». Scatenò un caos festante.

Erano passate le tre del mattino, ma c’era ancora lavoro da svolgere. Per altre due ore il congresso ascoltò i resoconti che arrivavano: di unità che passavano dalla loro parte, di generali che riconoscevano l’autorità del Cmr. C’era ancora qualche dissenziente. A qualcuno che aveva chiesto il rilascio dalla prigione dei ministri socialrivoluzionari Trotsky rispose rimproverandolo di non essere un vero compagno.

Intorno alle quattro, l’uscita del gruppo di Martov registrò un indecoroso epilogo, con una delegazione rientrata a testa bassa per cercare di ripresentare la mozione per un governo socialista di collaborazione. Kamenev ricordò all’assemblea che Martov aveva caldeggiato un compromesso con chi aveva poi voltato le spalle alla sua proposta. Eppure, moderato come sempre, pose all’ordine del giorno la mozione presentata da Trotsky di condanna dei socialrivoluzionari e dei menscevichi infilandola con discrezione in un limbo procedurale per potersi risparmiare imbarazzi nel caso fossero riprese le trattative.

Lenin non avrebbe fatto ritorno alla riunione quella notte. Stava preparando dei piani. Ma aveva scritto un documento che fu Lunacharsky a presentare.

Indirizzandolo «Agli operai, ai soldati e ai contadini», Lenin proclamava il potere dei soviet e si impegnava a proporre immediatamente una pace democratica. La terra sarebbe stata trasferita ai contadini. Alle città sarebbe stato assicurato il pane, alle nazioni dell’impero sarebbe stato garantito il diritto all’autodeterminazione. Ma Lenin avvertiva pure che la rivoluzione era ancora in pericolo, minacciata dall’esterno e dall’interno.

«I kornilovisti […] tentano di condurre le truppe contro Pietrogrado. […] Soldati, opponete un’attiva resistenza al kornilovista Kerensky! […] Ferrovieri, fermate tutti i convogli di truppe che Kerensky dirige contro Pietrogrado! Soldati, operai, impiegati! Le sorti della rivoluzione e della pace democratica sono nelle vostre mani!».

Occorse molto tempo a Lunacharsky per leggere l’intero documento ad alta voce, dato che veniva spesso interrotto da forti grida di approvazione. Una lieve modifica verbale assicurò il consenso della sinistra socialrivoluzionaria. Una minuscola frazione dei menscevichi si astenne, preparando la strada per una riconciliazione tra martoviani di sinistra e bolscevichi. Poco male. Alle cinque del mattino del 26 ottobre, una schiacciante maggioranza approvò il manifesto di Lenin.

Ci fu un boato. Quando se ne spense l’eco, la portata di quella risoluzione letta urlando divenne lentamente chiara a tutti. Uomini e donne si guardavano intorno gli uni con gli altri. Era stata approvata. Era fatta.

Fu proclamato il governo rivoluzionario.

Il governo rivoluzionario era stato proclamato, ed era già abbastanza per quella notte. Sarebbe stato già molto per una prima seduta. Certamente.

Esausti, ubriachi di storia, con i nervi ancora tesi come cavi elettrici, i delegati al secondo Congresso dei soviet uscirono vacillando dallo Smolny. Abbandonarono quel collegio femminile per entrare in un nuovo momento della storia, un primo giorno del tutto nuovo, quello del governo degli operai, in un mattino di una città nuova, la capitale dello Stato dei lavoratori.

Marciarono nell’aria invernale, sotto un cielo nebbioso ma che si stava rischiarando.


[Traduzione di Valerio Torre]

* China Miéville è l’autore di October: The Story of the Russian Revolution, così come di This Census-Taker, Three Moments of an Explosion, Railsea, Embassytown, Kraken, The City & The City, e Perdido Street Station. Le sue opere hanno vinto il World Fantasy Award, l‘Hugo Award, e l’Arthur C. Clarke Award (tre volte). Vive e lavora a Londra.

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