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sinistra

2 + 2 = 5. L’emulazione socialista in URSS. Parte III

di Paolo Selmi

Qui e qui le parti I e II

225 I puntata html f791dd08ae94218eCari compagni,

questo lavoro è nato come paragrafo alla parte introduttiva del manuale sulla pianificazione che sto traducendo. Poi, le questioni sollevate man mano che la ricerca proseguiva erano tante e tali... che in questi mesi è diventata una piccola monografia: 150 pagine delle mie, un libro vero e proprio usando un'impaginazione editoriale. Per motivi di dimensione, difficile da gestire anche per software potenti come l'editor di sinistrainrete.info, è stata decisa una suddivisione (del tutto strumentale) in quattro puntate. Lo scopo primario di questo lavoro è stato riproporre e sviluppare alcune questioni su cui e, peggio ancora, di cui oggi nessuno parla quando si parla di socialismo e di storia sovietica. Lo scopo ultimo e, infine, l'auspicio con cui chiudo queste poche righe è che ciascuno di voi, sia singolarmente che come gruppo di lavoro e collettivo di ricerca, tragga da questi materiali, la cui traduzione è inedita nella stragrande maggioranza dei casi, spunto per ulteriori analisi, riflessioni, collegamenti, approfondimenti. Di carne al fuoco ce n'è davvero molta, per cui grazie per l'attenzione, per le osservazioni, per gli spunti che vorrete condividere, ma soprattutto...

Buona lettura!

* * * *

Entuziazm (Simfonija Donbassa)

Come dicono gli etologi, quanto accaduto sinora costituì l’imprinting, la struttura ideologica che condizionò, nel bene e nel male, con comportamenti a essa del tutto conformi o, all’opposto, del tutto antagonistici, gli anni successivi, per certi versi – come abbiam visto nell’articoletto del giornale di Ferrara, fin dopo l’esperienza sovietica. Preferisco lavorare su tale impronta e il suo lascito, e non su nozioni come “mito fondativo”, perché l’URSS (e l’attuale Federazione Russa, insieme a tutte le ex-Repubbliche dell’Unione, persino quelle governate oggi da neonazisti e neofascisti), ebbe nel corso della sua breve vita almeno un altro battesimo del fuoco: la Grande Guerra Patriottica, col suo tributo di sangue e una vittoria che fu una vittoria di un popolo intero, una vittoria come poche si videro nel corso della storia di quest’essere antropomorfo chiamato uomo.

Nel dopoguerra altri “miti fondativi” di un’idea di socialismo in continua trasformazione seguirono, dal nuovo internazionalismo dato dal supporto ai movimenti di liberazione dal colonialismo e dal neocolonialismo, sino alle conquiste spaziali. Certe categorie, pur di moda insieme a quella ormai insopportabile di “narrazione”, sono come le chiavi inglesi del numero sbagliato quando si deve sbullonare la ruota di una macchina: puoi averne a decine ma la ruota bucata non la cambi; a mio avviso, l’idea di imprinting, di impronta su cui (o in opposizione a cui) si costruisce non solo una sovrastruttura ideologica, può essere utile a spiegare il prosieguo di questa storia.

Quanto accadde dopo fu, infatti,una sintesi fra quanto appena accennato ed elementi, meccanismi più che altro,il cui carattere di innovazione, vera o presunta che sia, andremo presto ad affrontare: onde lunghe che perdevano man mano di slancio e di sostanza, diventando rituali più o meno vuoti, “cose vecchie con il vestito nuovo” e, quel che era peggio, “cose nuove con il vestito vecchio”, di cui l’ultima, fatale, presentava un’ipocrita voglia sulla fronte; ipocrita perché nascondeva i suoi reali propositi dietro una parola che da mezzo secolo era sinonimo, in URSS, di cambiamenti verso il meglio, di trasformare senza distruggere, di irrobustire senza compromettere, ovvero di “ristrutturazione” e “ricostituzione” (perestrojka). La caccia ai colpevoli la lascio ad altre sedi: mi limito solo a osservare che chi, ancora oggi,salva il periodo precedente e attacca con la reprimenda a partiredai dirigenti sovietici post-staliniani perché “revisionisti”, o perché presero di mira Stalin, o perché li incolpa in qualche misura dell’inizio della fine, alla luce di quanto appena accennato dovrebbe iniziare da Stalin stesso a compiere tale disamina e spostare l’asse della critica di almeno vent’anni: se non altro, nell’improbabile ipotesi di riprendere il Palazzo d’Inverno, per non ripetere esattamente gli stessi errori, andando peraltro a sbattere la testa dove già sbattuta.

Torniamo, tuttavia, a dove ci siamo lasciati. Dopo il primo piano quinquennale i nodi strutturali lasciati insoluti o, peggio, aggravati da uno sviluppo tanto impetuoso quanto disarmonico e squilibrato, resero necessaria una profonda riflessione, oltre che ulteriori aggiustamenti e correzioni in corso d’opera,di cui non poté non risentire anche l’andamento di un’emulazione socialistica già ridotta a stampella, più che a seconda gamba, dell’apparato produttivo. Restava quello, tuttavia, a livello di massa un periodo di enorme fermento e mobilità sociale, fra campagne e città, fra settori economici e all’interno di ciascuna unità produttiva. Al punto che, a fine agosto 1935, un semplice minatore del Donbass, che fino ad allora aveva vissuto nel più completo anonimato, non solo ebbe un’intuizione geniale, ma trovò orecchie attente per valorizzarla e testarla sul campo. Stiamo parlando di Aleksej Grigor’evič Stachanov (1906-1977): dall’esperienza maturata nel corso degli anni in miniera in tutte le mansioni relative all’attività estrattiva, si era convinto che scavo, puntellamento e trasporto del materiale estratto dovevano essere eseguite da persone diverse, in una diversa organizzazione del lavoro, tale da dividerlo diversamente e ottimizzare l’efficienza complessiva.

Quando scrivo “trovò orecchie attente”, vorrei sottolineare che quanto accadde, non accadde in un’area qualsiasi dell’URSS, ma nel Donbass (Donbas in ucraino), un’area a forte caratterizzazione rivoluzionaria, sin dalle origini. Ad attestare quanto appena esposto, in piazza Lenin a Doneck, a fianco della statua del padre della Rivoluzione, c’è un pilone su cui è incisa una sua frase: Il Donbass non è una regione come tutte le altre; il Donbass è una regione senza cui l’edificazione socialista resta un semplice e candido auspicio («Донбасс, это — не случайный район, а это — район, без которого социалистическое строительство останется простым, добрым пожеланием»)”1.

Il Donbass per il carbone era come l’Azerbaigian per il petrolio, entrambi vitali per il Paese dei Soviet, con una “piccola” differenza: il primo si estraeva a mani nude ed entrandoci, sotto terra, non limitandosi a trivellare dall’esterno. Il “fattore umano” era e, anche oggi che molto è stato meccanizzato, resta fondamentale, costante lungo tutto il processo estrattivo: Nel Donbass, tutto ebbe inizio a partire dagli uomini di fatica trapiantati dai campi dal 1823, data dei primi sondaggi a opera dell’ingegnere Egor Petrovič Kovalevskij (1811-1868)2: contadini improvvisati minatori, ma sempre con un profondo legame con la loro terra.

Ancora nel 1839, infatti, l’attività di miniera coinvolgeva manodopera stagionale, da ottobre a maggio. Con l’arrivo della bella stagione, i minatori tornavano contadini e partecipavano ai lavori dei campi, di quei campi che cento anni più tardi altri contadini, i nostri nonni, avrebbero visto – purtroppo – dal vero, lasciandoli letteralmente a bocca aperta perché sembravano non finire mai3. Con l’abolizione della servitù della gleba (крепостное право) nel 1861, il capitalismo prese piede anche nel Donbass, con un padronato autoctono che si riciclò ben presto in “borghesia compradora”, al soldo degli imperialisti occidentali4, e la progressiva proletarizzazione di masse contadine che si concentravano in quella regione alla ricerca di un lavoro per un pezzo di pane, in cambio di 12-14 ore al giorno sotto terra, donne e bambini compresi: proletarizzazione sempre in crescita per più di mezzo secolo, a quelle schiavistiche condizioni; c’era bisogno di carbone, tanto e sempre di più, per l’industria civile e per quella bellica. Le malattie infettive crescevano con il decrescere delle condizioni igienico sanitarie nelle baraccopoli, ivi compresa un’epidemia di colera nell’estate del 1892. Poi, a un certo punto, del tutto inaspettata, arrivò anche la crisi economica (1900-1903): miniere che chiudevano una dopo l’altra, ex-minatori per strada.

Il malcontento non si limitò agli scioperi spontanei che erano già iniziati nel decennio precedente, ma alla costituzione delle prime sezioni del Partito Operaio Social-Democratico Russo (POSDR): attività di volantinaggio e radicamento sul territorio, arresti e, nell’ottobre del 1905, la prima insurrezione armata, sull’onda del tentativo di rivoluzione nazionale, soffocata nel sangue. La reazione, tuttavia, non riuscì a fermare lo sviluppo del movimento rivoluzionario fra operai metallurgici e minatori: scioperi, radicamento sul territorio, coscienza sempre più diffusa fra i lavoratori, costituirono una costante anche dopo lo scoppio della prima guerra mondiale. Anzi, in tre anni andarono aumentando: “Abbasso lo zar!” (Долой царя!) “Abbasso la guerra!” (Долой войну!) “Pane!” (Xлеба!), furono le parole d’ordine di quel tormentato periodo.

Con la rivoluzione di febbraio 1917, anche nel Donbass nacquero i primi Soviet dei deputati operai, contadini e soldati. I bolscevichi, già allora, potevano contare 5.500 iscritti, da giugno uscivano con un loro giornale locale, il Doneckij proletarij, e potevano contare su una forte base rivendicativa ampiamente condivisa, a partire dalla campagna per le otto ore sino a quella per gli aumenti salariali. Al congresso nazionale del partito poterono inviare delegati del calibro di Kliment Efremovič Vorošilov (1881-1969, futuro Maresciallo dell’URSS) e Abram Zacharovič Kamenskij (1885—1937, dirigente nazionale con vari compiti di governo, ucciso con false accuse di tradimento e riabilitato nel 1956). Gli iscritti al sindacato erano molti di più, con una percentuale di sindacalizzazione intorno al 50% sul totale dei lavoratori delle miniere. Il passo successivo fu quello di organizzare milizie locali in vista dell’imminente insurrezione. Per questo motivo, dopo il Grande Ottobre, ebbe inizio un’azione potente in tutto il Donbass per instaurare il controllo operaio su tutte le miniere, fabbriche e stabilimenti: nel giro di due mesi, tale azione rivoluzionaria poteva dirsi conclusa, agevolando notevolmente l’attività di nazionalizzazione dell’industria da parte del governo centrale.

Tale operazione non fu affatto indolore. Nel Donbass la guerra civile iniziò praticamente il giorno dopo la Rivoluzione d’Ottobre. Sia i cosacchi, che le bande armate controrivoluzionarie di formazione padronale, passarono al contrattacco. Lenin seguì personalmente la vicenda e il 25 novembre 1917 si appellò ai bolscevichi del Donbass perché trasformassero la loro terra in una roccaforte dell’intera Ucraina (крепость Украины).

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La risposta non si fece attendere: non solo operai e contadini del Donbass, organizzati in milizie nelle fila dell’Armata Rossa, liberarono le loro terre dal nemico interno ma, quando esse furono occupate nuovamente, nel febbraio del 1918, dagli imperialisti austro-germanici, tennero costantemente sotto scacco il nemico con operazioni partigiane di disturbo, fino all’offensiva di dicembre 1918 che portò all’intera liberazione del Donbass. Si cercò sin da subito la ricostruzione economica, sociale, e delle associazioni operaie, partitiche e sindacali, ma tale lavoro fu interrotto dalla controffensiva reazionaria, a opera questa volta di Denikin. Ancora una volta, la liberazione del Donbass era pienamente completata, a prezzo di enormi perdite di vite umane e di risorse, nel gennaio 1920. Ripartì nuovamente la ricostruzione dalle rovine lasciate dagli imperialisti e dalla reazione prima di capitolare ma, per l’ennesima volta, si dovette tornare poco dopo al fucile, per colpa del generale bianco Vrangel’ e della Polonia: nonostante tutto, vittoria su vittoria, i nemici furono ricacciati fuori dal Donbass e, questa volta, sconfitti definitivamente.

La mobilitazione per la ricostruzione del Donbass dopo la guerra civile fu enorme. Ancora durante le ultime fasi della guerra civile, da tutta la Russia erano giunti sedicimila fra minatori, ingegneri, metalmeccanici per far ripartire le sue miniere e fabbriche, mentre dai soldati in forza all’Armata Rossa, a operazioni militari ancora in corso, furono congedati 1.466 minatori.L’estrazione mineraria riprese, ripartì l’intero comparto industriale, l’entusiasmo operaio era crescente e trainava la ripresa. Vero e proprio tempio della Rivoluzione, quanto finora accennato ci mostra come il Donbass si fosse distinto, in questo senso, già prima di essa, ma fu durante quei tumultuosi anni che divenne un simbolo per l’intera URSS: affrontando difficoltà oggi inconcepibili, nel 1921 i minatori accettarono anche i principi dell’imposta in natura (продовольственный налог), ovvero di essere pagati in beni di prima necessità in proporzione al carbone estratto, pur di far ripartire il tutto, e con razioni ancora di guerra: 2 funt (фунт) di pane era la paga giornaliera di un lavoratore di superficie, 6 funt quella di chi andava sottoterra (1 funt = 0,40951241 kg). Ciò nonostante, i minatori del Donbass non batterono ciglio, anzi! In tale contesto l’entusiasmo rivoluzionario e l’emulazione socialista dei subbòtniki(e воскресники voskrèsniki, ovvero quelli che lavoravano anche di domenica, воскресенье voskresen’e) si inserironoe fusero naturalmente apportando un enorme, ENORME, contributo: scendevano sottoterra i sabati (e le domeniche) per estrarre quantità supplementari di carbone, letteralmente vagonate e vagonate che partivano alla volta di tutte gli stabilimenti dell’Unione, riparavano macchinari e attrezzature, ripristinavano ferrovie e linee elettriche, organizzavano corsi di formazione, scuole serali e apprendistati, progettavano migliorie tecniche che sfociavano, grazie alla collaborazione e al lavoro volontario dei compagni impegnati in altri settori industriali, nella progressiva meccanizzazione di mansioni e procedimenti particolarmente usuranti o ripetitivi.

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Tali sforzi titanici sfociarono, negli anni successivi, in linee completamente meccanizzate lungo la filiera estrattiva e in corsi professionali strutturati che sfociarono nelle “scuole-miniere” (škola-rudnik школа-рудник): con programmi di studio e apprendistato definiti (tre giorni di studio e tre di lavoro in miniera), gestioni sempre più ragionate delle attività produttive e adozione di un pieno calcolo economico (chozrazčët) in tutte le attività aziendali, che consentirono a tali istituti una produttività maggiore e costi di produzione minori rispetto alle altre miniere.

Questa era la situazione in un Donbass che era già leggenda e orgoglio di un intero Paese ancor prima del primo piano quinquennale: un Donbass in cui a nessun pischello fresco di komsomol sarebbe mai passato per l’anticamera del cervello di venire a insegnare il mestiere, come invece era accaduto altrove, e con il plauso ruffiano di preferiva assecondare, anziché stigmatizzare e gestire responsabilmente quella fase critica di transizione; un Donbass dove l’emulazione socialista, così come la intendevano quei minatori che ogni giorno scendevano nel ventre della terra, era la diretta e collettiva espressione di unorgoglio, di una dignità, di una consapevolezza edi una fiducia in un miglioramento, sociale e di vita, che si concretizzavano nelle piccole e grandi vittorie di ogni giorno. Cose di cui oggi nessuno conserva memoria, come ebbe modo di denunciare, ancora a inizio millennio, Violetta Alekseevna Stachanova, parlando a un giornale ucraino di suo padre:

Io so che i vostri ex-presidenti Kravčuk e Kučma hanno proibito persino di portarlo, il nome di Stachanov, che la miniera dove egli lavorò è chiusa, e che l’intera cittadina è rimasta senza lavoro. Ma fu grazie a mio padre che lì misero la scuola, e l’ospedale, e i tram. E la paga dei minatori passò da 500 a 1600 rubli. Ma chi se ne ricorda, adesso, a parte me e la mia generazione?5

Prima di Aleksej Grigor’evič, tuttavia, il Donbass aveva conosciuto un altro eroe che era in breve assurto a gòrdost’ SSSR (гордость СССР), vero e proprio orgoglio sovietico,per il proprio lavoro e per l’emulazione socialista. Maksim Gorkij lo aveva definito un bogatyr’ (богатырь), figura eroica della tradizione slava orientale, simile ai nostri cavalieri erranti. Parliamo di Nikita Alekseevič Izotov (1902-1951), il primo lavoratore al mondo ad aver dato il proprio nome a un movimento operaio (qualche anno prima degli stacanovisti). Lasciamo però la parola a Massimo Gorkij, che lo conobbe personalmente in un incontro a Mosca organizzato due anni dopo gli eventi che andremo a esaminare, e che restò letteralmente affascinato dalla sua capacità di trascinare gli astanti centinaia di metri sotto terra, e caricarli letteralmente di amore e senso di dignità per il suo lavoro, accompagnando tale ricordo a una riflessione che è attuale forse più oggi di allora:

Il bogatyr’ Nikita Izotov mi ha raccontato del suo lavoro sotto terra. Mi racconta convinto, al cento per cento, che io, letterato, debba sapere come si sedimentano i banchi di carbone, come agiscono sotto terra il gas e le falde acquifere, e come lavora una macchina intagliatrice; soprattutto, io devo assolutamente sapere i suoi segreti, i segreti di Izotov sulla sua tecnica, insieme a tutti i pericoli del suo lavoro per la Patria. E ha sacrosanta ragione di pretendere da me la conoscenza del suo lavoro, perché lui lo ha elevato a vera e propria arte. È in grado di lavorare col minor sforzo e la maggior produttività e ha già formato gruppi di minatori “izotovisti” e persino dei trattoristi, come mi racconta il compagno Kuzin, redattore della rubrica politica del giornale “Il socialismo vince”.

Nel nostro Paese ogni lavoro deve proprio trasformarsi in arte: l’arte di trasformare il mondo, l’arte di cambiare il Paese, abbellendolo con le parole, coi fatti, con le cose. Le cose belle generano nelle persone immaginazione creativa, oltre che rispetto per il lavoro.

«Non è vero e ti contraddici!Mi dirannoLa vecchia “aristocrazia” viveva e cresceva circondata di cose belle, ma tu la dipingi sempre come volgare, ignorante e grossolana».

No, non mi contraddico. La vecchia “aristocrazia” per le cose belle pagava enormi somme di denaro di cui era piena, ma non capiva e non poteva capire quanto lavoro valevano tali oggetti perché, non avendo mai lavorato, non essendosi mai sporcata le mani, essi non le dicevano nulla delle persone che li avevano creati. Quelle persone erano, per lei, semplicemente degli estranei, estranei per giunta obbligati a darle da mangiare, da bere e ad abbellire la loro vita; nei confronti della vita di quegli estranei, invece, il loro atteggiamento era più spregiativo e indifferente di quello che potrebbe avere un sellaio verso un cavallo. Ostentando gli uni con gli altri l’abbondanza di cose belle, essi non hanno percepito l’amore per il lavoro in esse contenuto6.

Ritorniamo, per un attimo, alla cultura consumistica, “usa e getta”, che per qualche economista è addirittura “indispensabile” alla ripartenza economica dell’attuale capitalismo globalizzato in crisi perenne, alla necessità da inculcare sin nei più piccoli di circondarsi di tante cose “belle”… e traiamone le dovute conclusioni, circa l’inconciliabilità fra quella desolazione, fra quell’alienazione che ormai ha investito tutto quanto tale moto-modo di produzione abbia potuto ridurre a valore di scambio, noi compresi e questo, autentico, socialismo. “Incontri come questi”, conclude questo scritto Gorkij, “accadessero più spesso, ci offrirebbero non meno di quanto offre l’università ai suoi studenti”7. Non possiamo che essere d’accordo con lui. Diamo un volto al nostro bogatyr’. Ecco Nikita Izotov nella lastra fotograficache lo rese immortale, a opera del fotogiornalista della PravdaMark Borisovič Markov-Grinberg (1934):

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Facciamo ora un salto di qualche migliaio di chilometri e di anni e, dopo esserci nutriti di quanto riportatoci da Massimo Gorkij, nutriamoci ora di quanto riportato dal Maestro Zhuang (庄子 Zhuangzi, 369-286 a.C.): un pazzo taoista, un perdente, uno scomunicato, un genio. Molto meglio Confucio, per l’attuale nomenklatura… tutti in fila per tre e testa bassa, a produrre e a far soldi, alla faccia di chi si è inventato, in Occidente, che solo il calvinismo potesse dare certi risultati… Torniamo a noi: nel III capitolo del Zhuangzi, troviamo la storia di un macellaio, molto lontano, eppure molto vicino al nostro bogatyr’:

Un macellaio stava sezionando un bue per il principe Wenhui: con le mani afferrava la bestia, con le spalle faceva forza, coi piedi puntava il terreno, sulle ginocchia si appoggiava; il coltello saliva e scendeva ritmicamente, naturalmente, musicalmente. I suoi movimenti ricordavano la Danza del boschetto dei gelsi, la cadenza dei suoni che produceva sembrava a tempo col ritmo della musica Jingshou.

Il principe Wenhui esclamò: “Ehi, sei bravissimo! Com’è possibile che la tua tecnica sia arrivata a un tale livello di eccellenza?

Il macellaio posò il coltello e rispose: “Amo il Dao ed elevo così la mia arte. All’inizio, quando dovevo sezionare il bue, non toglievo mai lo sguardo dal bue. Dopo tre anni, lavoravo senza neppure bisogno di vederlo. Adesso, non è più nemmeno un approccio di tipo sensoriale, ma spirituale: i primi si fermano, il secondo agisce. Il secondo coglie e si armonizza con la logica interna che governa quel corpo, individua e guida il coltello lungo le sue fessure nascoste e cavità interne, senza mai forzare e traendone grande vantaggio nella sua azione. Non scalfisce né muscoli, né nervi, né tendini, né le grandi ossa. Un bravo macellaio cambia coltello ogni anno, perché taglia la carne soltanto; un macellaio incapace lo cambia ogni mese, perché lo spacca contro le ossa e le parti dure. Questo mio coltello ha già diciannove anni, ha fatto a pezzi migliaia di buoi e il filo sembra appena molato! Fra i giunti che collegano le parti piene del corpo ci sono dei vuoti e il filo della lama è sottile; quindi, ciò che è sottile può entrare nel vuoto e muoversi con facilità senza incontrare resistenza alcuna fino a dove muscoli e ossa si congiungono: solo facendo così, il mio coltello dopo diciannove anni è rimasto ancora come nuovo. Arrivato poi col coltello alla giuntura, ogni volta la osservo, ne esamino con cura i punti critici e calibro ogni mio movimento; il mio occhio è lì, fisso, ogni mio movimento è rallentato. Quindi, la lama si muove appena, la giuntura cede subito, carne e ossa si separano e cadono come una zolla di terra. Mi alzo, con ancora il coltello in mano, mi guardo intorno e assaporo, con soddisfazione, la gioia del lavoro compiuto, pulisco il coltello e lo ripongo”.

Il principe Wenhui esclamò: “Eccellente! dopo aver ascoltato le parole di questo macellaio, ho imparato come coltivare l’energia vitale.”8

Anche Izotov, quel giorno, in viaggio premio a Mosca e in visita con gli altri “assaltatori” a un’icona vivente, incontrata sino ad allora sui libri, parlò del suo lavoro, di come studiava attentamente tutte le pieghe e le nervature della roccia, per tagliarla col minor sforzo possibile e la maggiore efficacia perché, ci teneva a sottolinearlo, non era il minatore più forte della sua miniera e non era una questione né di forza, né di resistenza, né di mettersi alla frusta9. Peraltro,va da sé, né lui, né Gorkij avevano letto il Zhuangzi, ma la passione di questo suo racconto, il suo voler condividere con questo illustre estraneo il gusto della la gioia per il lavoro compiuto, aveva risvegliato nel vecchio scrittore la stessa fiamma che il macellaio aveva risvegliato nel principe Wenhui.

Anche un taoista avrebbe detto: il “suo lavoro elevato ad arte” (“труд свой до высоты искусства”), ovvero a wu wei (无为), che non è non agire, come abbiamo potuto vedere dal brano appena letto e come vorrebbe invece una certa vulgata, ma non agire contro natura, agire ma non forzare, conservando (e accrescendo) la propria energia vitale e raggiungendo, al contempo, la perfezione nel proprio lavoro. Capiamo ora anche da una prospettiva lontana, sia nel tempo che nello spazio come egli, bogatyr’, lo fosse per davvero: come lo era mio nonno quando, dopo due ore che falciava l’erba era ancora fresco come una rosa, la lama era ancora come dopo l’ultima martellata data al filo prima di iniziare il lavoro, e l’erba era segata a livello come un prato all’inglese; io invece avevo il fiatone, la lama faceva già schifo nonostante mi fermassi continuamente a passarla con la cote e, dietro di me, avevo lasciato una lunga scia di zolle sollevate ed erba tagliata a gradini: tipico lavoro da mingàun.Né io (all’epoca), né mio nonno, avevamo letto il Zhuangzima, stranamente, a me tornavano in mente le parole del povero Chinetti, mio maestro di jūdō, quando mi diceva che le migliori tecniche erano quelle che mi vedeva tirare dopo un’ora e mezza di allenamento, quando ormai non sentivo più né le gambe né le braccia dall’acido lattico che trasudavano. All’epoca, mi ricordo che partiva – solo mentalmente, ovviamente - una rafficadi improperi che teneva impegnato il cervello fino al mio successivo tonfo per terra, qualche secondo dopo: solo allora,invece, capivo che non mi stava prendendo in giro e che, quando ero in forze, lavoravo di forza, come il peggior macellaio del Zhuangzi, III capitolo.

Diamo ora la parola al nostro bogatyr’.Un’altra, calda, estate era appena iniziata, nel giugno 1932, e alla Casa della Cultura di Gorlovka, Donbass, si stava svolgendo la locale Conferenza del partito (per inciso, un operaio che parlasse oggi in una Casa della cultura sarebbe già un evento non da poco). Nikita Alekseevič così intervenne(trascrizione stenografica):

Compagni, vi parlerò un poco di come porto a termine i compiti che prendo in carico. A gennaio ho completato i miei obbiettivi per il 652 percento (applausi). A febbraio già il 20 li avevo completati al 472 percento (applausi).A marzo in 17 giorni ero arrivato al 388 e a maggio ho fatto il 556 percento (forti applausi). Ho “fatto cilecca” (risate)in quei due mesi, febbraio e marzo, perché son stato via dalla miniera per alcune settimane.

Passerò ora agli indicatori di questi primi 20 giorni di giugno. Vi dico subito, senza girarci intorno, che i miei obbiettivi li ho superati al 2000 percento! (forti applausi) E quattro giorni mi son riposato a casa! Nei primi 20 giorni di giugno ho estratto carbone per 2000 rubli! (forti applausi)

Compagni! Ma perché allora nelle altre miniere non riusciamo nemmeno a completarli, gli obbiettivi? Penso che un ruolo non indifferente, anzi, decisivo, lo giochi il fatto che i nuovi arrivati non sappiano estrarre il carbone. Voglio prenderli tutti sotto la mia direzione, questi nostri giovani minatori, insieme a tutti quelli che son rimasti indietro, per trasmettere loro tutto il mio saper lavorare in galleria (applausi).I giovani operai estrattori vogliono lavorare, e lavoreranno! Occorre solo insegnarglielo! (applausi)10.

Nacque, così, il movimento degli izotovisti. Fu così, girando per le miniere, che nel 1933, a Kadievka, conobbe un certo Aleksej Grigor’evič Stachanov (1966-1977), che già all’epoca si era distinto per esser riuscito a superare ampiamente gli obbiettivi di piano. Se ne ricordò due anni più tardi, quando gli giunse notizia che, nel turno di notte fra il 30 il 31 agosto, lo stesso aveva estratto in 6 ore (5 e 45 per l’esattezza) 102 tonnellate di carbone, 14 volte la quota programmata per turno per minatore(7,5 tonnellate)!

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Era semplicemente incredibile. Poi capì. Tutto aveva inizio dal martello pneumaticoe dal suo enorme, rispetto al piccone, potenziale estrattivo: se un minatore fosse riuscito a tenerla sempre in funzione, la quantità di materiale estratto si sarebbe moltiplicata. Il problema era che,così facendo, dopo un po’ il minatore avrebbe salutato questa valle di lacrime, travolto dall’inevitabile crollo della volta. Era questo uno dei motivi per cui, fino ad allora, la mansione del minatore era stata concepita come un’unità operativa del tutto autonoma e completa nel processo produttivo: piccone (scavo) e legni (puntello pareti); avanti ancora, piccone e legni, e così via, metro dopo metro lungo il fronte di scavo in cui era impegnato. Tale economia del lavoro rispecchiava anche l’esigenza fisiologica di conservare le proprie energie, stabilendo un equilibrio più naturale possibile fra frazioni a maggior carico di lavoro e frazioni di recupero.

In altre parole, la figura del minatore tuttofare aveva rappresentato sino ad allora la soluzione ottimale, che concepiva la successione cronologica, i ritmi e la distribuzione dei tempi di ciascuna fase del processo lavorativo in funzione di più vettori, ovvero

1. maggiore efficienza produttiva possibile;

2. sostenibilità psico-fisicadella ripetizione ciclica di tale schema di lavoro lungo l’arco di tutte le sei ore della giornata lavorativa in miniera (conservazione energetica giornaliera);

3. sostenibilità psico-fisica della ripetizione ciclica di tale schema di lavoro lungo l’arco di tutta la settimana lavorativa (sei giorni) ripristinando nelle ore di non-lavoro le energie sufficienti a ripetere quanto fatto il giorno prima e creando, nel giorno di riposo, “scorte” utili a far fronte alla settimana successiva (conservazione energetica settimanale);

4. incolumità della salute e della vita stessa del lavoratore.

Dall’inizio degli anni Trenta, tuttavia,un’altra rivoluzione, questa volta tecnologica, era arrivata nel Donbass, stravolgendo il modo stesso di lavorare. I martelli pneumatici giravano già nel 1931; inoltre, l’otto aprile 1933 il Consiglio dei Commissari del Popolo (СНК) e il CC del PCR(b), in rafforzamento agli obbiettivi della seconda pjatiletka, avevano promulgato la risoluzione “Sul lavoro dell’industria carbonifera del Donbass” (О работе угольной промышленности Донбасса), sbloccando risorse umane e materiali da destinare alla regione: se quel giorno, per fare un esempio, gli ingegneri e i tecnici sul posto erano 450, all’inizio del 1935 erano già 140011.

Fu tuttavia l’introduzione su scala di massa del martello pneumaticoa cambiare radicalmentela situazione. Il minatore, certo, restava comunque sotto forte sollecitazione fisica a causa del peso di tale strumento e delle vibrazioni che produceva, oltre a farsi la testa come una campana e, quel che è peggio, scoprire anni più tardi di essersi mortalmente esposto a una terribile e spietata malattia professionale, la silicosi, a causa dell’enorme quantità di polvere creata. In compenso, veniva sollevato dal carico muscolare inumano di picconatore per sei ore consecutive sei giorni su sette (ore che fino a dieci anni prima soltanto erano 12-14). Questo, per uno che lo aveva fatto fino a ieri, rappresentava già un enorme sollievo. In altre parole il martello pneumatico, offrendo nuove possibilità, risolvendo alcuni problemi e ponendo nuove questioni, poneva seriamente la questione di un altro modo di concepire il lavoro in miniera.

Infine, quella risoluzione del 1933 non aveva soltanto portato tecnici e mezzi, ma anche una nuova leva di iscritti al partito dentro le miniere: due anni più tardi erano già 9500 fra i minatori e il 33% fra i quadri. Di questi, Konstantin Gregor’evič Petrov (1908-1995) era, allora, un giovane partorg, organizzatore del partito (il collega dietro Stachanov nella foto precedente): la sua funzione era quella di organizzare l’emulazione e accelerare i processi di aggiornamento professionale e aumento di produttività dei lavoratori. Nell’aprile del 1934 fu assegnato alla miniera Central’naja Irmino12, un sito di media grandezza che in quegli anni aveva conosciuto diverse innovazioni: trasporto elettrificato del carbone (4 motrici) al posto del cavallo e, proprio in quell’anno, 95 perforatrici pneumatiche di tipo OM-5 provenienti dalla fabbrica Pnevmatik di Leningrado,e 4 compressori. Erano partiti corsi di aggiornamento per il corretto impiego dei nuovi strumenti durante i quali, a distinguersi per la propria bravura, era stato proprio Aleksej Grigor’evič Stachanov:grazie ai corsi per un corretto impiego del martello pneumatico, la produttività era aumentata tanto da consentire il completamento del piano del 1934 già in data 4 dicembre. Sull’onda di questo successo, all’inizio dell’anno successivo, Petrov organizzò una riunione coi lavoratori più esperti. Dopo aver accennato alle migliorie tecnologiche in corso di attuazione, diede loro la parola. La prese proprio Stachanov:

Il problema non è solo di tecnica, ma anche di organizzazione del lavoro. Occorre liberare chi trivella dal lavoro di puntellamento. Se si divide così il lavoro, allora chi trivella riesce a estrarre, in un turno, non 9, ma 70-80 tonnellate. Oggi il minatore fa una o due ore di scavo, quindi mette da parte il martello e prende l’accetta, per puntellare e armare il tunnel. Ma non si estrae carbone con l’accetta. Solo i martelli lo tirano fuori. E i martelli stan zitti, mentre il minatore è lì che puntella. E così se ne va via quasi metà turno. Anche il compressore in quelle ore lavora a vuoto, pompando aria compressa per niente. Spesso lo si tiene addirittura spento, perché inutile13.

Petrov ci pensò su tutta la notte e le notti successive: se applicata, la proposta di Stachanovavrebbe rivoluzionato l’intero processo produttivo. Per passare dalle parole ai fatti, occorreva ora il nulla osta di chi doveva guardare anche i numeri. E i numeri ponevano una questione non indifferente. Aveva economicamente senso:

- lasciare un uomo a badare alla “bestia meccanica”, ovvero a estrarre a oltranza e

- sganciare due suoi compagni dal ciclo estrattivo e metterli a puntellare volta e pareti man mano che il primo scavava?

Se una “bestia meccanica” a ciclo continuo, in sei ore, con trivellatore e puntellanti a seguito, fosse stata in grado di spaccare carbon fossile in quantità maggiore non di una o due persone, ma di dieci almeno, allora certo che avrebbe avuto senso, sarebbe stato economicamente vantaggioso. Ne parlò col direttore della miniera, con gli altri membri del partito, e infine decise di mettere in pratica il suggerimento di Stachanov. Lo andò a trovare e gli annunciò che la sua proposta era stata accolta e si era deciso di metterla alla prova dei fatti. Il resto, lo ascoltiamo dalla viva voce di Aleksej Grigor’evič, nel racconto che fece un mese dopo per Socialističeskij Donbass, di quel formidabile turno di notte:

Ed eccomi in miniera, alle 11 della notte del 30 agosto, attaccare il turno. Con me, due colleghi a puntellare, scelti di persona (Tichon Ščigolev e Gavril Borisenko, N.d.A.) Con me, un martello pneumatico SM-5 della fabbrica di Leningrado Pnevmatik. Un martello, col quale io lavoro sempre e che tengo da conto come fossero i miei occhi.

Arrivo alla galleria. La falda di carbone su cui lavorerò si suddivide in otto sezioni. Ogni sezione è lunga 10 metri, di spessore pari a 1,4 metri. Inizio a spaccare. Una sezione è già finita, manca solo un pugno di carbone. Spingo sul martello e, dopo dieci minuti, la prima sezione è stata scavata. Attacco la seconda, quindi la terza, la quarta, la quinta sezione la faccio fuori in 15 minuti. Mi accorgo che i miei compagni son rimasti indietro. Dannazione – penso – verrà giù tutto! Mollo il martello pneumatico, prendo i puntelli e comincio a picchettare lo scavo. Puntello e vedo che i miei compagni mi han raggiunto. Riprendo in mano il martello e ricomincio a scavare. Attacco l’ultima sezione. La parte superiore dello scavo la completo in quindici minuti: in totale, l’ottava sezione l’ho completata in mezz’ora.

Sono le cinque e mezza di mattina: cinque ore e mezza di lavoro di scavo effettivo. Mi volto e mi rendo conto di avere appena scavato per 78 metri lineari. Di primo acchito non mi rendo conto di quale grande successo abbia conseguito il risultato del mio lavoro così pianificato e organizzato.

Esco dalla miniera. Il compagno Zaplavskij, direttore della miniera, mi viene incontro per congratularsi per il successo. Ha scritto su un foglio il calcolo di quanto lavorato, l’equivalente di 225 rubli, quanto in genere un minatore estrae in metà mese. E per fare questo, per produrre questa ricchezza, non ho scoperto nessuna America, ho semplicemente lubrificato il mio martello pneumatico a inizio turno e due volte durante lo stesso. Dopodiché, ho fatto andare le mani e non ho mollato fino alla fine14.

No, Stachanov non aveva “scoperto nessuna America”: aveva però dimostrato, concretamente, che nonostante l’andamento scoordinato, decisamente poco affiatato, di quella squadra,dove per poco non si era sfiorata la tragedia (con il primo avanti a trapanare e gli altri rimasti indietro a puntellare, lasciando metri di scavo esposti a crolli improvvisi) il metodo adottato si era rivelato decisamente più produttivo dei precedenti.

Rabotat’ “po-stachanovski” (работать «по-стахановски»), lavorare à la Stachanov, stette a indicare quel metodo di divisione del lavoro che decisero di provare un po’ in tutte le miniere, con risultati ancor più eclatanti: 115 tonnellate nella notte fra il 3 e il 4 settembre, 125 tonnellate il giorno dopo, 152 il giorno dopo ancora e 175 il 9 settembre, quest’ultimo record a opera dello stesso Stachanov15.

Cominciamo a vedere, d’ora in avanti, i tratti salienti di questa simfonija Donbassa. A differenza di quanto accadde nel resto del Paese, in questa regione particolare dell’URSS, laddove l’orgoglio operaio trovava nell’aumento della produttività una concreta realizzazione e poneva concrete istanze di riconoscimento, morale, con l’elevazione a modello per tutti i lavoratori, ma anche materiale, con gli stipendi triplicati che ricordava la figlia di Stachanov, la gara acquistò carattere di sfida collettiva e dimensioni di massa.

Nikita Alekseevič Izotov, per esempio, colto di sorpresa da tale risultato, si sentiva al tempo stesso “scavalcato”. Ragionò. Nella sua miniera un altro minatore, esperto di scavo con martello pneumatico, di nome Sviridov, due anni prima aveva avuto un’altra, geniale, intuizione: le sezioni di scavo (уступ), con l’entrata in funzione del martello automatico, potevano essere raddoppiate di lunghezza, col risultato di un dimezzamento ulteriore dei tempi di scavo, in quanto il tempo di sezionamento del lavoro sul filone era drasticamente ridotto. Ricordiamo il lavoro di sezionamento era necessario per assicurare che ogni minatore avesse un suo spazio di lavoro diviso da quello di altri estrattori e ridurre così i rischi di danni reciproci, di collisione,in caso, per esempio, cadesse il piccone o venisse via un pezzo all’improvviso. Sezioni più lunghe, però, equivaleva a un maggior numero di puntelli, ovvero a un lavoro di puntellatura maggiore. Così, già l’11 settembre alle 8 di mattina, Izotov scese in miniera con cinque compagni, addetti alla puntellatura. Ebbene, con quel metodo riuscì a estrarre 241 tonnellate di carbone. Due motrici elettriche non riuscirono neppure a portare in superficie tutto prima che lui salisse a fine turno. Ma Izotov non era soddisfatto: durante quel turno aveva scorto ulteriori migliorie da apportare al processo produttivo. Condivise questi aggiornamenti col collega Artjuchov il quale, il 13 settembre, riuscì in questo modo a estrarre 310 tonnellate.

Nel frattempo, Izotov faceva la spola da Mosca, dove si confrontava con tecnici e ingegneri di altre miniere, oltre che completare gli studi superiori. Gli venne così in mente un’altra intuizione: non solo il processo estrattivo poteva e doveva essere razionalizzato, ma l’intero processo produttivo di ciascuna squadra e di ciascun turno poteva e doveva essere ottimizzato.

Nacque così il grafik ciklinnosti (график цикличности), il “grafico delle ciclicità”, ovvero la sintesi fra una scheda tecnica di scavo, un organigramma e un cronoprogramma. In altre parole, in base alla conformazione della roccia, della superficie di scavo, del filone da attaccare, delle tecnologie in campo, delle risorse umane impegnate, era possibile determinare con precisione e pianificare in tal senso tutte le operazioni relative all’estrazione e al trasporto in superficie, ivi comprese le operazioni ausiliarie, gestendo in maniera ottimale i tempi e assegnando compiti e mansioni parallele a più componenti della squadra e a più squadre all’interno di ciascun turno. Un lavoro sempre più complesso e specializzato era puntualmente analizzato e pianificato in schede come queste16:

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I risultati non si fecero attendere:due mesi dopo il suo record,mentre era ancora a Mosca, Izotov ricevette un telegramma da casa dove lo informavano che il record di tonnellate estratte era passato a 552, a opera di un suo ex allievo e allora giovane comandante di stanza alla flotta sul Mar Nero, Aleksandr Stepanenko(con dieci colleghi al seguito a puntellare).Durante le vacanze invernali, fu lo stesso Izotov a togliersi lo sfizio di alzare nuovamente l’asticella e portare il record a 640 tonnellate17.

Capiamo ora un po’ meglio i connotati di questa Simfonija Donbassa: un movimento corale, polifonico e – quel che è più sorprendente, perché senza alcuno spartito scritto – sinfonico. “הנה מה טוב ומה נעים שבת אחים גם יחד”18, verrebbe quasi da dire:un fenomeno che da millenni non finisce mai di stupire19,nella moderna espressione operaia di un rinnovato protagonismo, affermazione del proprio sapere, riconoscimento del proprio ruolo all’interno del grandioso processo di trasformazione e sviluppo socialistico della società.

Osservando più da vicino, è possibile individuare, abbastanza chiaramente, due tendenze storicamente emergenti da quanto accadde in quei giorni: la prima sarebbe stata inizialmente minoritaria e – accadde anche questo – repressa; tuttavia, immediatamente dopo la fine del secondo conflitto mondiale, avrebbe conosciuto una notevole fase di espansione fino a divenire la norma; la seconda si sarebbe affermataall’inizio, per una serie di circostanze (e strumentalizzazioni) cui accenneremo tra poco, per poi andare progressivamente a scemare. Notiamo, sin d’ora, come entrambe le tendenze, pur non escludendo in linea teorica scenari ben più ampi, siano state poi ridotte sugli angusti binari del produttivismo, riducendo a loro voltaa tale ambito la stessa emulazione socialista.

La prima tendenza è riconducibile alla figura e al percorso compiuto da Izotov stesso: secondo tale scuola di pensiero, una volta prodotta l’innovazione, la razionalizzazione, l’introduzione nel processo produttivo di varianti sostanziali, ovvero in grado di modificare, strutturalmente e in meglio, la composizione organica di infrastrutture e mezzi di produzione, della forza lavoro e dei ritmi e dei tempi del processo lavorativo stesso, può e deve essere oggetto di un’attenta e ponderata valutazione. Potremmo definirla un’ingegnerizzazione dell’innovazione, o dell’invenzione, una sua standardizzazione, per una sua successiva distribuzione capillare e serializzazione, o riproduzione su ampia scala. Il controllo sul processo lavorativo da parte del collettivo è totale, senza dipendere da nessuno: la strutturazione dello stesso è sempre più improntata, da un lato, alla maggiore armonizzazione possibile con gli altri processi (e con gli altri collettivi!), in entrata e in uscita e, dall’altro, all’equilibrio fra sforzo e riposo, fra carico di lavoro di ogni giorno e uniformità, ripetibilità, dello stesso lungo l’intera settimana lavorativa per tutte le settimane dell’anno, senza forzature, consapevoli che il ritmo, l’andatura di un collettivo, di una squadra, di un reparto, devono essere costanti se si intende mantenerli dall’inizio alla fine, lungo tutto l’arco temporale previsto dal piano.

Notiamo, peraltro, come questa scuola offra molte potenzialità aldilà della mera razionalizzazione del processo produttivo in funzione degli obbiettivi posti: è infatti dall’innovazione elevata a norma, accettata, condivisa, realizzata, generalizzata dall’intero collettivo, dalla disponibilità di nuovi mezzi e tecnologie, dalle energie e dal tempo liberati dalla fatica e dal lavoro, che può e deve nascere una nuova emulazione socialista, non necessariamente, non per forza all’interno dello stesso settore, aggiungiamo, non per forza all’interno della sfera della produzione! Un’emulazione socialista che investa, in maniera totale (totaler mensch…), il protagonista stesso della fase precedente di emulazione, quella tesa alla riappropriazione totale del posto di lavoro, dei mezzi, dei tempi e dei modi della propria vita lavorativa e lo porti, assicurati questi paletti, a cominciare a picchettare in quelle sfere di cui – primum vivere, deinde philosophari – fino ad allora aveva, forse, sentito parlare: sfere che, per esempio,partano dalla scoperta (o ri-scoperta) della propria cultura, materiale e spirituale, del proprio patrimonio millenario, delle proprie radici (scritte e orali), e arrivino, al contempo, a scoprire tutte quelle molteplici sfaccettature con cui, problemi e bisogni analoghi, siano stati storicamente risolti e abbiano trovato risposta in ogni angolo del globo abitato, ricavando da tale scambio, virtuale o concreto che sia, ulteriori stimoli e arricchimento, innestando un circolo virtuoso che ridefinisca, alla luce di quanto ci siamo detti finora, bisogni e necessità secondo canoni nuovi e da una prospettiva del tutto diversa, quando non opposta, rispetto alla attuale.

La seconda tendenza fu di segno opposto: emerse non tanto dal poveroStachanov, da cui ora ci congediamo con questo ritratto e con la profonda gratitudine, ammirazione e rispetto che merita, ma dalla lettura in chiave strumentale che ne seguìe che fu la maggiore responsabile della tragedia umana che da allora lo accompagnò.

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La base su cui fu costruita questa seconda scuola di pensiero si reggeva su quella strana mistura di volontarismo e dispotismo, trasversale a qualsiasi modo di produzione, che impone il raggiungimento, a qualsiasi costo, degli obbiettivi prefissati. “Non so come, tecnicamente, ma alla maniera comunista si può e si deve fare!”20Il categorico Sergej Mironovič Kirov (1886-1934), con questa frase risalente al primo piano quinquennale, era ancora vivo nella memoria degli operai della fabbrica Krasnyj putilovec di Leningrado a quasi dieci anni di distanza. Laddove i problemi non si possono risolvere techničeski (технически), van risolti po-kommunističeski (по-коммунистически): “o con le scarpe o senza scarpe, i miei alpini li voglio qua”, ordinava il Capitan de la compagnia (che “l'è ferito, sta per morir”...), senza tirare in ballo il comunismo. La mobilitazione lungo tutto la prima pjatiletka, abbiam visto, seguì questa falsariga e, alla fine, obbligò un’intera classe dirigente a tirare il freno a mano, per porre riparo alle distorsioni create da tale azione fino a quando, due anni più tardi, in piena seconda pjatiletka, giunse a Mosca la notizia che un minatore da solo e in un solo turno aveva fatto il lavoro di 14 persone.

Non importava che fosse sin da subito reso noto essersi trattato di un lavoro di squadra (e che quindi il risultato sarebbe stato da dividere per tre) o che, peraltro, durante quello storico turno fossero stati corsi dei rischi inutili, perché i due che puntellavano non erano riusciti a star dietro al ritmo del martello pneumatico e avevano rischiato di restare tutti sotto la volta franata.

Non importava neppure che il giorno dopo nessuno di loro si fosse presentato al lavoro, perché trapanare per sei ore di seguito senza sosta è più di un lavoro usurante, è torturare il proprio corpo e la propria mente, silicosi a parte (e a quel punto il record si sarebbe dovuto dividere per sei). In altre parole, si pretendeva di far diventare “norma” il “record”, ma neppure gli stessi stacanovisti erano stati in grado di reggere quel ritmo imposto affinché fossero stati in grado quel giorno di produrre quei numeri. E allora i 127 alberi motore prodotti in un’ora dallo stacanovista Busygin il giorno del suo record, contro i 100 di un operaio Ford tutti i giorni, scendevano anch’essi se si considerava il computo generale, nel tempo, degli alberi motore prodotti21.

Non importava nemmeno che l’emulazione stacanovista fosse compiuta parallelamente alle attività già previste dal piano di produzione, di fatto stravolgendo l’organizzazione del lavoro a esso preposta, provocando squilibri fra reparti della stessa fabbrica e, aumentando di scala, fra settori economici. In particolare, alcuni dati possono aiutarci a inquadrare sial’impeto con cuila locomotiva sovieticasi catapultò, nel giro di due piani quinquennali, nel consesso delle potenze industriali, che – soprattutto – il modo con con cui questo era accaduto. Esaminiamo questa tabella (valori espressi in rubli del 1926-27)22:

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L’industria pesante sovietica fu praticamente costruita negli anni dei primi due pjatiletki. Il grafico qui sotto, tratto dalla tabella, non restituisce correttamente i primi sette anni perché la caduta non fu così lineare, fu un crollo, ma aiuta a comprendere come fosse la situazione nel 1920 e come, di fatto, la crescita industriale fosse un processo già in atto prima del 1928, in condizioni decisamente più difficili:

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Ciò che cambiò fu la composizione organica dei settori A e B, che ricordiamo essere rispettivamente i mezzi di produzione (средства производства) e i beni di consumo (предметы потребления). In dieci anni la struttura si ribaltava, segno sia di una ritrovata industria pesante, di una conquistataindipendenza dal capestro dei fornitori esterni per l’acquisto di macchinari, ma anche di una politica consapevolmente e convintamentecentrata sullapriorità a tale settore.

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Aggiungiamo ora questa tabella, che ci porta da allora fino alla piena epoca brezneviana, mostrandoci il prosieguo di quanto finora accennato23:

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Notiamo non solo il risultato di un sempre maggiore affinamento delle tecniche di pianificazione e controllo del processo produttivo, insieme al progresso scientifico-tecnologico, in grado di moltiplicare letteralmente gli indici di produzione industriale, i fondi produttivi di base, la produttività del lavoro, la fornitura di energia elettrica e di risorse e la quantità di operai, ma anche una differenziazione sempre maggiore fra settore “A” e settore “B”.

Il grafico che segue, tratto da un lavoro coevo e recuperato grazie all’instancabile opera dei compagni russi di istmat.info, ci mostra altri dati estremamente interessanti, mettendo a paragone operai russi (1926-27), statunitensi (1923) e tedeschi (1925)24:

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Come è possibile notare, il 56,6% del milione e 953 mila operai occupati su suolo sovietico nel biennio 1926-27, lavorava in fabbriche di oltre 1000 operai, contro il 29,6% degli americani e il 27% dei tedeschi. I dati in termini assoluti mostravano ancora una netta supremazia a stelle e strisce, allorché il 29,6% di 7 milioni e 136 mila era superiore a tutti gli operai sovietici di allora. Ma ciò che importa è capire proprio come, già prima del I piano quinquennale, fondamentalmente essere operai in URSS significasse finire in una fabbrica come minimo di oltre 100 operai e poi, col passare degli anni e la costruzione di sempre muovi stabilimenti, di oltre 500 e mille.

Proprio quest’ultima considerazione, ci deve far riflettere sull’abbinamento, più forte in URSS che da altre parti, fra classe operaia e giganteschi siti produttivi. Infatti, in questa industria, monopolizzata dai grossi conglomerati, eralogica conseguenza che i nuovi operai avessero trovato collocamento proprio in essi: senza dubbio, quasi tutti gli oltre cinque milioni di ex-contadini entrati nei due pjatiletki25.

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Tale situazione, sicuramente, creava le condizioni ideali per la costruzione, in quel periodo, di un legame forte e diretto, cesaristico potremmo anche dire, fra partorg, rappresentante del partito e garante di certi benefit che andremo presto a vedere, e una certa base operaia, quella neoassunta, quella più affamata perché nelle campagne guadagnava dieci volte meno, scavalcando all’occorrenza quadri e organizzazioni sindacali che di colpo divenivano “elementi conservatori”. Tale legame fece passare in secondo piano molti elementi discutibili e che, in altri momenti sarebbero stati senz’altro discussi: altri momenti, non quello.

Non importava, infatti, che tale modulo di specializzazione e ripartizione del lavoro non fosse ovunque riproducibile, che in assenza di meccanizzazione, controllo automatico e, prima ancora, elettrificazione dei processi produttivi, potesse capitare che il lavoratore operasse ancora meglio lungo un’intera singola linea di operazioni, risolvendo operazioni complesse in caso di anomalie agendo, essenzialmente, con correzioni a monte o a valle del processo produttivo: no, si faceva prima o si impiegava meno manodopera, aumentando la produttività, se si divideva il lavoro po-stachanovski, senza se e senza ma, e così occorreva fare. Eventuali fermi macchina e rallentamenti dovuti a problematiche non prese per tempo, sarebbero stati compensati dall’ingresso massiccio di manodopera lungo quel ciclo produttivo: era breve il passo e molto labile il confine che separava questo modo di lavorare dall’ultimo stadio: la cosiddetta šturmovščina.Più che il “lavoro a ritmi da carica della cavalleria”, anche se il nome indicava quello nella variante presa a prestito dal tedesco sturm, indicava piuttosto il “lavoro in affanno”, in continuo debito d’ossigeno, in quell’atmosfera da “secchiata” dove si cercava di riparare a una situazione di deficit mobilitando tutte le energie a disposizione in un arco di tempo molto ridotto.

Non importava allora, in quest’ottica, che l’incremento di produttività dalla prima alla seconda pjatiletka, fosse raggiunto grazie all’ingresso massiccio, e massivo, di stacanovisti nella grande industria, via uno sotto l’altro;anche (se non soprattutto) perché, nel corso della seconda metà degli anni Trenta, tale attività si era rivelata la più remunerativa in assoluto. A fare da cassa di risonanza, a quest’ultimo aspetto, fu la Prima assemblea pansovietica degli operai e operaie stacanoviste (Mosca, 14-17/11/1935). A tale riunione, presenti tutti i vertici del partito, Stalin compreso (quindi, tutti al corrente ANCHE di questo aspetto, non indifferente), molti fra gli stacanovisti più famosi (perché rimbalzati a livello nazionale su tutti gli organi di informazione), nelle loro relazioninon ne fecero mistero. Ne riportiamo alcune a puro titolo esemplificativo:

Prima guadagnavo 300-350 rubli al mese, a settembre ne ho guadagnati 690 più 130 rubli di premio per il superamento del piano (progressivka прогрессивка) e ancora 223 per la diminuzione degli scarti: totale – 1043 rubli” (A. Busygin).

Prima del movimento stacanovista, io e Stachanov guadagnavamo 550-600 rubli. [...] Ora, da settembre e con 16 giorni di riposo, dove ci han portato in giro (allude all’ampia diffusione di celebrazioni pubbliche in loro onore a cui presenziavano, N.d.A.), ho guadagnato 1338 rubli”. - Ordžonikidze: “E se restavate a lavorare anziché farvi portare in giro?” - “Se non ci avessero portato in giro, oltre duemila rubli” (M. Djukanov).

Il nostro salario di norma è 158 rubli al mese. A settebre ho guadagnato 962 rubli. A ottobre ne ho guadagnati 886. Avessi potuto lavorare di più, avrei guadagnato di più, certo, ma ci sono stati alcuni giorni in cui ci han tolto dal lavoro”. - Mikojan: “E la Sua amica quanto ha guadagnato?” - “La mia amica ha guadagnato 1336 rubli” (I. Slavikova).

Prima io in 300 ore di lavoro al mese facevo 1.500 km di corsa e portavo a casa 400 rubli. Ora la mia locomotiva in un mese percorre 3.000 km in 192 ore e porto a casa 1050 rubli, più premio per risparmio di carbone, di carburante, totale: 1300 rubli." (A. Omeljanov)

Prima guadagnavo 375 rubli, ora 2.000”. (M. Puškin)26

Aggiungiamo, a questo punto, altri importanti “non importava” (si perdoni il gioco di parole). Il primo, sorge spontaneo: non importava che tale andamento portasse a una sensibile differenziazione salariale a parità di mansione.A metà di quell’assemblea, precisamente il giorno 16, prese la parola il compagno Vjačeslav Michajlovič Molotov (1890-1986), presidente del Consiglio dei Commissari del popolo dell’URSS (СНК СССР) e del Consiglio del lavoro e della difesa Совет труда и обороны). Il suo lungo intervento, dopo le dovute parole di elogio e analisi di classe del movimento, entra nel merito anche di questa questione, connettendola direttamente ad altre. Si tratta di un ragionamento molto interessante (grassetto sostituisce corsivo nell’originale):

Gli stacanovisti si distinguono da quegli udarniki impegnati fino a ieri in prima linea, in quanto ora includono per davvero il portato, tutta la loro esperienza in produzione. Basti dire che, in in molti casi, la scossa che porta gli stacanovisti direttamente a una maggiore produttività del lavoro, è il puro e semplice interesse a veder aumentare la propria busta paga, per prendere atto di come messaggio insito nel movimento di Stachanov, Busygin e Vinogradova sia riconosciuto da qualsiasi lavoratore, da qualsiasi semplice lavoratrice. Naturalmente, anche il desiderio di essere il migliore ha la sua importanza agli occhi dei lavoratori, e questo stimolo sarà sempre più significativo. Tuttavia, basta essere un vero udarnik sul lavoro e possedere la tecnica per ingrossare le fila degli stacanovisti. Già ce ne sono non pochi tra di noi. Il loro numero aumenta e noi lo facciam crescere sempre più con successo. Gli stacanovisti non sono un’eccezione, stacanovista può diventarlo qualsiasi lavoratore. […] Il punto è che gli stacanovisti sono riusciti a combinare l’aggressività sul lavoro degli udarniki con il possesso della tecnica. Gli stacanovisti non sono solo udarniki, ma udarniki che conoscono la tecnica. 27.

Ragioniamo, per un attimo, su quanto appena letto. Partiamo dal fatto che lo stacanovista avrebbe dovuto rappresentare, nelle intenzioni degli sponsor, non solo il prototipo del lavoratore socialista (il che era già un programma), ma l’esecutore materiale, il braccio, di quello che doveva essere il lavoro socialista per eccellenza, ovvero il lavoro concepito po-stachanovski. Proviamo ora a fornire un minimo di contenuto a questo enunciato.

Per far capire ai lavoratori non ancora stacanovisti (la stragrande maggioranza in qualsiasi epoca storica), perché fosse “comprensibile al semplice lavoratore, comprensibile a qualsiasi lavoratrice” (понятно простому рабочему, понятно любой работнице) quanto fosse bello esserlo, il messaggio erasemplicee immediato: più produci, più guadagni. Da queste parti, questo si chiama “cottimo”, anticamera del “crumiraggio”. Lì non lo era, almeno nei modi in cui lo intendiamo noi, solo perché le ore lavorate dovevano restare le stesse e, pertanto, era solo la produttività che poteva creare una modifica sostanziale alla quantità di merce prodotta. Non potevi stare sul pezzo 12 ore al giorno, non potevi fare il giro dell’orologio, non potevi dire “E allora io dico, già che ci siamo perché non lo raddoppiamo questo cottimo, magari portiamo qui dentro anche i bambini, le donne ci sbattono un panino in bocca, e noi via che andiamo avanti senza staccare per queste quattro lire vigliacche fino alla morte”28: una differenza non da poco.

Altra differenza, valida specialmente in miniera, meno – o per nulla – in fabbrica, e anche questo fu foriero di contraddizioni inesistenti a centinaia di metri sotto terra, ma chissenefrega per chi faceva di tutte le erbe un fascio: è vero che il computo del lavoro effettuato era scaricato su un’unica persona, l’eroe al martello pneumatico, che si portava a casa la tanto agognata ricompensa, ma poi qualcosa avrebbe dovuto pur dare al gregario che gli correva dietro con le assi a puntellare… altrimenti la volta successiva lo avrebbe lasciato sotto qualche quintale di terra smottata. Come nel ciclismo, il capitano qualcosa lo doveva pur spartire, se voleva ancora la borraccia con l’acqua fresca la tappa seguente. Distorto quanto fosse, perché ancorato a una visione clanistica della remunerazione (perché selettiva “tu-si-tu-no”, arbitraria nella stessa scelta della squadra, rigidamente gerarchica e ineguale nella spartizione stessa, carismatica, limitata e legata a schemi di lavoro arcaici e radicati nei millenni), un senso del collettivo che, sostanzialmente, differenziava questi momenti da quelli, analoghi, vissuti dall’operaio-crumiro Volonté – “Lulù” Massa (“Un pezzo, un culo”)29 ne La classe operaia va in paradiso (1972).

Eppure la base, il senso,restavanogli stessi: più produci, più guadagni. Punto. E chi si oppone è un “conservatore”. C’è poco da fare sofismi. Rilette in quest’ottica, fanno sorridere tutte le critiche ideologiche degli stalinisti sugli “incentivi materiali” posti da Nikita Sergeevič vent’anni più tardi in contrapposizione alla presunta “purezza” ideologica precedente: anzi, a dirla proprio tutta,uno che arrivava a guadagnare tre, quattro volte tanto rispetto ai suoi colleghi a parità di mansione, DOPO, nell’epoca dei “corrotti”, dei “revisionisti” cruscioviani e brezneviani, non c’eraneanche a cercarlo col lanternino… proprio perché gli incentivi materiali erano normati a livello contrattuale collettivo, vincolati non a quantoprodotto, ma al semplice fatto che si raggiungessero o meno determinati obbiettivi migliorativi rispetto al piano. Il tutto, per farla breve, si era tradottoin una integrazione del salario, e non in una sua moltiplicazione. Sarebbero restati, in quell’epoca, altri tipi di contraddizioni e furberie: tener bassi gli obbiettivi di piano per far risaltare più facilmente l’exploit, per esempio, ma a questo punto entriamo, decisamente, in un altro campo; trucchetti, peraltro, che fanno anch’essi sorridere di fronte al fatturato annuale della nostra criminalità organizzata, all’evasione fiscale, allo sciacallaggio delle 2.143 aziende fittizie e assunzioni ex-postappena accertati dall’Inps fra i soli marzo e aprile di quest’anno per intascare la cassa integrazione in deroga30, all’aggiotaggio, alla concussione, alla corruzione dilaganti dall’appalto ministeriale al singolo assenteismo; ljudi kak ljudi… “la gente, in quanto tale, non cambia” constatava uno sconsolato Woland-Bul’gakov, ma noi della “terra dei cachi” siamo senza speranza. In altre parole, non è il modo di produzione a favorire il nero (o il grigio), ma il modo in cui lo si attua, e su questo dovremo attrezzarci, e non poco, se per puro caso, o per sbaglio, ci troveremo mai nella stanza dei bottoni: altrimenti è meglio lasciar stare.

Torniamo a esaminare questa seconda tendenza, delineata dall’estensione del movimento stacanovista su scala nazionale e in ogni settore economico:anche se – come già accennato – non è da intendere i termini che seguono come li intendiamo noi, nella nostra esperienza di lavoratori salariati perché, per esempio, nessuno continuava a fare il crumiro sul pezzo mentre i suoi colleghi dopo otto ore timbravano uscita, si trattava comunque di una forma di organizzazione del lavoro dove già apparivano, specialmente nelle realtà di fabbrica, e con la benedizione del partito, tutti gli ingredienti di un brodo di coltura in grado di accrescere:

- arrivismo (a proposito del desiderio di cercare di diventare il migliore fra tutti gli operai, di “passare in testa” - желание быть передовиком в глазах рабочих),

- cottimismo (più produci, più guadagni) e

- crumiraggio (operaio come soggetto individuale che opera perseguendo il proprio fine a prescindere dal risvolto collettivo della propria azione).

Ritorniamo, allora, alla critica operaia all’udarničestvo cui si è accennato nel paragrafo precedente:, quanto appena descritto avvalora, di fatto, la tesi secondo cui operai e sindacati nelle fabbriche, già dieci anni prima, quando avevano scorto i prodromi, i primi ingredienti buttati nel brodo, all’epoca dei komsomol’cy dobrovol’cy che andavano a insegnare il lavoro senza saperlo, con l’applauso dei dirigenti staliniani che li usavano per spingere l’asticella più in alto per tutti, non solo non sbagliassero a incazzarsi, ma avessero atteggiamenti tutt’altro che “conservatori”.

A maggior ragione, rispetto a questo punto, c’è un passaggio ulteriore: era Molotov stesso ad ammettere che gli udarniki, in azione durante la prima pjatiletka, avessero capito ben poco di quello che avevano preteso di “insegnare” agli altri compagni di lavoro. Infatti, sempre da quanto abbiam letto, lo stacanovista si distingueva da loro perché erasì un assaltatore, un udarnik, uno che faceva andare le mani ma, al tempo stesso, era uno che sapeva anche come fare andare le mani: un “udarnik 2.0”, si sarebbe detto con i neologismi di oggi.La sočetanie (combinazione) fra questi elementi creava la perfetta “macchina da guerra”: il lavoratore socialista nell’ottica di Molotov e compagni, tutti, tutti, presenti a quell’incontro.

Infine, ma non da ultimo, e tralasciando la critica al modello produttivistico cui già abbiamo accennato in precedenza, che qui non fa altro che accentuarsi ulteriormente, ma anche soltanto da un punto di vista strettamente tecnico, l’estensione al totale della forza lavoro, la generalizzazione del modello stacanovista, lo slogan “stacanovisti tutti” unito all’altro slogan “giù le mani dagli stacanovisti”, entrambi senza se e senza ma, avrebbero posto ben presto seri problemi di organizzazione e coordinamento delle stesse attività lavorative in fabbrica, nella stessa miniera, e per settore, alla luce degli obbiettivi di piano stessi. Siamo sempre qui: se in una struttura collettiva ciascuno si alza un mattino e si arroga il diritto di esercitare in maniera del tutto arbitraria la propria attività lavorativa, fosse anche per tentare un nuovo record, abbandonando ogni tipo di autodisciplina e di rispetto di quanto concordato insieme ai propri compagni di lavoro, ovvero trascurando la gestione collettiva del completamento del piano di produzione e compromettendo così sequenza, ritmo, connettività, armonia, efficienza produttiva fra la propria mansione e quella dei propri compagni, ogni attività di pianificazione della realizzazione degli obbiettivi di piano preposti è praticamente nullificata da una serie di “imprevisti” tanto poco imprevedibili quanto tanto frequenti, in funzione del grado di scoordinamento delle attività produttive fra loro.

Un buon direttore non poteva starsene zitto: così, Iosif Ivanovič Zaplavskij (1894-1950), il direttore che era corso incontro a Stachanov uscito dalla miniera la notte del record, eraarrestato tre anni più tardi, nel 1938, e condannato a 15 anni di lavori forzati nel gulag di Norillag per “tradimento” (dove morì nel 1950), con l’accusa di aver “sabotato” il movimento stacanovista quando invece si era opposto, adducendo le motivazioni di cui sopra, a che il record di Stacanov diventasse prassi quotidiana per ciascun lavoratore. Non è un caso che, il suo posto, fosse preso proprio dal quel Petrov che aveva retto la lampada in galleria a Stachanov durante quel turno di notte e che, da allora, aveva capito l’antifona e aveva fatto carriera promettendo recordsu recorde facendo da cassa di risonanza all’attuale dirigenza del partito, che altro non aspettava da esibire ai quattro venti31.

Ciò che realmente importava, infatti, in un’epoca di culto della personalità (kul’t ličnosti культ личности),era l’aver individuato una vicenda epica da imperniare interamente su eroiche dovevano essere altrettanto epici, con gesta da celebrare e porre a modello: un modello che ben poco aveva a che vedere con lo stesso Stachanov di quel giorno, un modello che si voleva esteso a tutti i settori dell’economia sovietica, a tutti i lavoratori, un modello che fu difeso dai vertici del partito a spada tratta in tutte le sedi, “senza se e senza ma” e, pertanto, andò aldilà di ogni logica, persino produttivistica, che non fosse quella di una cieca fedeltà alla linea del capo: di più, un modello che era, rappresentava in tutto e per tutto, il partito nelle fabbriche. “Prepariamoci per i balzi in avanti nella produzione sul fronte della costruzione del socialismo!”, recita il manifesto qui sotto, dove il pioniere del Donbass si mette orgogliosamente in posa dietro al manifesto che ritrae il suo eroe.

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Attenzione, il problema non era la dinamica adolescente-poster-identificazione-eroe: anzi, se vogliamo dirla tutta, viva, viva, e ancora viva, un Paese dove gli eroi sono i minatori, i contadini, gli operai e non i calciatori, le veline o quattro pirla tatuati e coi capelli a razzo che giocano a fare gli artisti perché tatuati e coi capelli a razzo. Il problema era che tutti dovevano essere così, anche quando l’adolescente, cresciuto, in miniera ci entrava per davvero. “Gli stacanovisti sono autentici bolscevichi della produzione”. Così pronunciava il 16 novembre del 1935 il braccio destro di Stalin, Andrej Aleksandrovič Ždanov (1896-1948), all’epoca segretario della sezione di Leningrado, membro della Segreteria del CC e in piena ascesa politica, alla già citata prima assemblea degli stacanovisti. E proseguiva con un parallelo che era più di una benedizione, era un’identificazione:

Gli stacanovisti sono autentici bolscevichi della produzione. Allo stesso modo in cui il nostro partito tiene ben salda la barra del timone nella sua giusta politica, nella sua direzione, nella sua volontà e nella sua perseveranza, nel suo mai tirarsi indietro di fronte alle difficoltà, ma al contrario nel saperle vincere, così gli stacanovisti si pongono come persone che, senza aver paura di niente, rompono la routine, ribaltano i cosiddetti standard “basati sulla tecnica”, intercettano capacità di progetto e, padroneggiando la tecnica, mettendo a frutto le proprie conoscenze sul caso in questione, studiandolo attentamente, rapportandosi allo stesso con onestà, assestano un formidabile colpo al conservatorismo, alla routine, a tutti i vecchi metodi. In questo, gli stacanovisti sono i migliori amici e aiutanti del nostro partito. I bolscevichi-stacanovisti, sia quelli con, che quelli senza tessera, sono i migliori amici e aiutanti del nostro partito, i migliori amici e aiutanti del Comitato Centrale e del compagno Stalin.32

Già solo dopo questo, non avrei mai voluto essere nei panni di quel sindacalista, di quel segretario di sezione di fabbrica, di cellula, che fino ad allora si era fatto un mazzo così per tenere insieme il collettivo di fabbrica, per orientarlo verso una prospettiva e un’etica del lavoro socialiste, come dalla leva leninista in poi erano stati chiamati a costruire, in nome e per conto di un partito che ora, di fatto, li scaricava e gli diceva che il socialismo era ora “quella cosa lì”.

E che non si azzardassero a dire “ba” o, peggio, a muovere critiche. Poche righe dopo era lo stesso Ždanov a porre, con chiarezza, la questione, segnando l’ennesimo discrimine fra “noi” e “loro”, nell’eterna caccia a qualsiasi ombra di dissenso, da equiparare immediatamente al sabotatore, al nemico del popolo, al traditore. Aria di “cazziatone”, e in piena regola, sin da inizio paragrafo, con il ricorso all’indefinito “alcuno” che di indefinito non ha nulla... specialmente da chi si sente immediatamente tirato in ballo, e copione classico con l’esplicitazione finale di cosa sarebbe sicuramente capitato a quel qualcuno, andando avanti di quel passo:

In alcune nostre aziende il movimento stacanovista ha incontrato resistenze da parte degli elementi opportunisti e conservatori nelle nostre organizzazioni di partito, economiche e sindacali, così come da parte degli altri lavoratori. Si sono sparse voci del tipo: se svilupperemo il movimento stacanovista, allora produrremo di più rispetto al piano, ma così dovremo organizzare diversamente l’approvvigionamento delle materie prime e questo porterà alla confusione in generale. Tutto questo aveva uno scopo: esimersi dall’organizzare il movimento stacanovista nei loro posti di lavoro. Ma noi abbiamo colpito duro questi atteggiamenti, li abbiamo messi in riga, li abbiamo trattati alla stregua di sabotatori del movimento stacanovista, gli abbiamo fatto capire che il partito non si fermerà davanti a nulla e spazzerà via, dal cammino del vittorioso movimento stacanovista, tutti i suoi oppositori33.

“A buon intenditor, poche parole” (o grandi mazzate)… di fatto, se da allora il dissenso interno, esplicito o no, da allora fu messo a tacere, al punto che nessuno più osò metter bocca sull’argomento argomento (e non solo quello!), dal momento che in quegli anni si cadeva in disgrazia per molto, molto meno, tale atteggiamento inferse un colpo pesantissimo alla stessa concezione di emulazione socialista, ridotta ormai a una gara pseudocottimistica a chi faceva il miglior risultato. La seconda guerra mondiale, che imponeva una estrema militarizzazione del lavoro (“В труде, как в бою” Al lavoro, come in guerra), non fece che accentuare le tendenze già in atto.

Aldilà di questo specifico argomento, ma collegato in modo indissolubile allo stesso, perché sarà contro tale atteggiamento che si cercheranno di concentrare tutti gli sforzi successivi di rinnovamento, il danno forse più grave erastato che tutti vedevano e nessuno diceva nulla: altro errore gravissimo, come ammise peraltro lo stesso Stalin in un episodio poco noto della sua storia. A riportarcelo è il figlio di Ždanov, Jurij Andreevič (1919-2006) che – a differenza di altri “figli d’arte” – ricordiamo non essere proprio l’ultimo dei paparazzi e venditori di fumo titolati a parlare sull’argomento: all’epoca dei fatti dottore in ricerca in chimica e in filosofia, quindi professore universitario, rettore dell’Università Statale di Rostov, membro dell’Accademia delle Scienze dell’URSS, vincitore nel 1983 del Premio Statale dell’URSS per il suo lavoro sulla “Creazione di un modello matematico imitativo dell’ecosistema del Mare di Azov”, Ordine di Lenin (due medaglie), Ordine della Rivoluzione d’Ottobre, Ordine della Stella Rossa, Ordine della bandiera rossa del lavoro (due medaglie) e tutta una pletora di altre onorificenze elencate sulla sua, immancabile, pagina della pseudoenciclopedia della rete34; in altre parole, un dirigente sovietico (e poi russo) di primo livello, oltre che genero di Stalin dal 1949 al 1952. La sua testimonianza, pertanto, merita la dovuta considerazione. Ebbene, nel suo libro autobiografico Uno sguardo al passato: memorie di un testimone, riporta quanto segue:

La guerra era stata vinta, ma i suoi esiti e le sue lezioni continuavano a restare sotto gli occhi di Stalin. Nel 1946, intervenendo a un incontro con gli intellettuali degli ambiti creativi, Stalin parlò degli esiti della guerra appena trascorsa: “A salvare l’umanità sono stati semplici cittadini sovietici i quali, senza far polemiche o montar su teatrini, nelle condizioni più difficili che potevano incontrare, dopo aver già compiuto l’industrializzazione, collettivizzato e rafforzato radicalmente la capacità difensiva del Paese, a prezzo della loro vita e con a capo i comunisti, sbaragliarono infine il nemico. A proposito, solo nei primi sei mesi di guerra abbiamo perso in battaglia cinquecentomila comunisti e, in tutta la guerra, oltre tre milioni. Erano i migliori dei nostri, combattenti per il socialismo e per la felicità del popolo, di spirito nobile, cristallino, pulito, altruista e disinteressato. Oggi ci mancano… se fossero ancora vivi, molti nostri problemi di oggi sarebbero già stati superati”.

Se fossero ancora vivi…” La loro assenza aveva portato Stalin a conclusioni angoscianti. Analizzando gli esiti della guerra trascorsa, in una cerchia ristretta di membri del politburo, Stalin disse, nella sorpresa generale: “La guerra ha dimostrato che, nel Paese, non c’erano poi tutti quei nemici interni che abbiamo denunciato e preso di mira. Molti hanno sofferto invano. Il popolo dovrebbe mandarci via per questo. A calci in culo. Occorre confessare”.

A rompere il silenzio generale fu mio padre:

Noi, nonostante, lo statuto, è da tanto che non convochiamo il congresso del partito. Occorre farlo e discutere i problemi del nostro sviluppo, della nostra storia.

Venne in appoggio a mio padre N. A. Voznesenskij. Tutti gli altri stettero muti. Stalin fece segno di lasciar perdere.

- Il partito… partito cosa… guarda cosa è diventato, un coro di salmodianti, una truppa di alleluianti… è necessaria una profonda analisi preliminare.35

“Stalin era agitato dalle questioni relative al corso della rivoluzione, alle sue vittime, alla legittimità delle repressioni”(Сталина волновали вопросы о путях революции, о ее жертвах, об оправданности репрессий), aggiunge subito dopo Ždanov. Tuttavia, non sono questi né la sede, né il momento per parlare di quest’altro, immenso, tragico, capitolo della vicenda sovietica. Ciò che a noi interessa accennare è che, alla fine, a bocce ferme, riguardandosi indietro e con buona pace di chi, ancora oggi, difende l’indifendibile, anche la stessa dirigenza di allora giunse a comprendere la degenerazione a cui la propria politica aveva condotto.

Tutti d’accordo, di facciata e, disciplinatamente,alleluiando all’unisono. A quel punto, però,la simfonija Donbassa ridotta a “un coro di salmodianti, una truppa di alleluianti”(хор псаломщиков, отряд аллилуйщиков), era tutto quello che restava in mano ai dirigenti, completamente avulsi da qualsiasi dato di realtà rispetto a una classe, a un popolo, a un Paese di cui non solo erano stati (ed erano tuttora) parte integrante (processo quindi ancora più innaturale, dal punto di vista dell’organicità strutturale al gruppo di provenienza o appartenenza), nonché avanguardia, ma anche immediata e inseparabile rappresentazione istituzionale delle proprie istanze e, al tempo stesso, di un percorso di transizione e trasformazione verso il socialismo: un socialismo che però, in tale contesto,stava divenendo altro, stava prendendo un’altra piega, rispetto alle loro intenzioni iniziali e programmatiche.

Tornando all’argomento di questo capitolo, a questo punto appare chiaro che l’oggetto della critica successiva non potesse essere (e non fu) la buona o cattiva fede, di buone o cattivi “pensieri, parole, opere e omissioni” del singolo, ma questioni ben più a monte: infatti, aver condotto un’emulazione socialista in tali condizioni di applicazione autoritaria e arbitraria della legge del bastone e della carota, fondata sul raggiungimento individuale o di piccoli gruppi di record produttivi del tutto avulsi da qualsiasi base oggettiva, nel senso di comune e condivisa da tutti, fondamento, trama e cardine di qualsiasi politica di pianificazione, oltre ad aver snaturato il significato stesso di tale fenomeno,confinato in un ambito produttivistico fra i più biechi (perché foriero di provocare gli atteggiamenti sociali e psicologici peggiori sia a livello individuale che collettivo), aveva – di fatto – diviso i lavoratori, scardinato un andamento produttivo basato sull’armonizzazione pianificata fra i vari settori, trasformato un vantaggio di tale sistema, ovverouna forte resilienza ottenuta grazie alla occasionale, partecipata e massiva capacità di mobilitazione di risorse aggiuntive convintamente fedeli alla causa (generale e specifica dell’oggetto stesso della mobilitazione), in una cronica necessità strutturale, modello di comportamento e obbligo generale per tutti i lavoratori; quel che era peggio, aveva insinuato, sia pur a livello superficiale e in una struttura fondamentalmente sana,dinamiche e logiche del tutto legate al vecchio mondo che si intendeva superare, scendendo sul suo stesso piano e, colpo di grazia, rendendole di fattoegemoni a quel livello. In che direzione si mosse l’azione politica e sociale successiva?


Note
1https://donbass-info.com/content/view/2309/2316
2Cfr. la breve introduzione in Aa. Vv., Stachanov. Saggio storico-etnografico (Стаханов: историко-краеведческий очерк), Doneck, Donbas, 1978, pp. 4 e segg.
3Racconto di mio nonno, N.d.A.
4Analogamente a quanto accadde in Azerbaigian, dove per esempio i pozzi di proprietà dei fratelli Nobel, i “benefattori” del “premio”, per intenderci (“Branobel” o “Nobel qardaşlarının neft istehsalı şirkəti” che dir si voglia) furono nazionalizzati dai bolscevichi solo il 28 aprile 2020.
5Я знаю, что ваши экс-президенты Кравчук и Кучма запрещали даже имя Стаханов произносить, шахта, где он работал, закрыта, и весь городок остался без работы. А благодаря отцу там и школу построили, и больницу, и трамвай запустили. И зарплата у шахтеров выросла от 500 до 1600 рублей. Только кто теперь об этом вспомнит, кроме меня и моего поколения? https://www.segodnya.ua/interview/doch-alekceja-ctakhanova-znamenitaja-familija-mne-lish-vredila-304141.html
6Богатырь Никита Изотов рассказывал мне о своей работе под землёй. Рассказывает он с полной уверенностью, что я, литератор, должен знать, как залегают пласты угля, как действуют под землёй газ и почвенная вода, как работает врубовая машина, и вообще я обязан знать все тайны его, Изотова, техники и всю опасность его работы на пользу родины. Он имеет законное право требовать от меня знания его труда, ибо он возвысил труд свой до высоты искусства. Он умеет работать с наименьшей затратой силы и с наибольшей продуктивностью. Он уже воспитал группы «изотовцев»-шахтёров и даже трактористов, как об этом рассказывает товарищ Кузин, редактор политотдельской газеты «Социализм побеждает».
В нашей стране всякий труд должен превращаться именно в искусство преображать мир, в искусство изменения страны, украшения её словом, делом, вещами. Красивые вещи воспитывают творческое воображение людей и уважение их к труду.
«Это — неверно и противоречиво, — скажут мне. — Старая «знать» жила и воспитывалась в окружении красивых вещей, но ты изображаешь её пошлой, невежественной, грубой».
Нет, я не противоречу себе. Старая «знать» платила за красивые вещи большие, даром доставшиеся ей деньги, но она не понимала и не могла понять трудовой ценности вещей, ибо сама она не работала и вещи ничего не говорили ей о людях, которые создали их. Это были чужие для неё люди — люди, обязанные кормить, поить её, украшать её жизнь, а к жизни этих людей она относилась ещё более пренебрежительно и равнодушно, чем шорник. Хвастаясь друг перед другом обилием красивых вещей, они не чувствовали любви к труду, заключённой в этих вещах. Maksim Gorkij, “Incontro” (Беседа), in Accademia delle Scienze dell’URSS, Istituto di letteratura mondiale “A. M. Gorkij”, M. Gorkij – Opere (М. Горкий - Собрание Сочинени), 30 voll., Moskva, Gosudarstvennoe izdatel’stvo chudožestvennoj literatury, 1953, pp. 379-80.
7Такие беседы — будь они чаще — дали бы нам не меньше, чем дает студентам университет. Ibidem, p. 381.
8庖丁为文惠君解牛,手之所触,肩之所倚,足之所履,膝之所踦,砉然向然,奏刀騞然,莫不中音。合于桑林之舞,乃中经首之会。文惠君曰:“嘻,善哉!技盖至此乎?”庖丁释刀对曰:“臣之所好者道也,进乎技矣。始臣之解牛之时,所见无非牛者。三年之后,未尝见全牛也。方今之时,臣以神遇而不以目视,官知止而神欲行。依乎天理,批大郤,导大窾,因其固然。技经肯綮之未尝,而况大軱乎!技经肯綮之未尝,而况大軱乎!良庖岁更刀,割也;族庖月更刀,折也。今臣之刀十九年矣,所解数千牛矣,而刀刃若新发于硎。彼节者有间,而刀刃者无厚;以无厚入有间,恢恢乎其于游刃必有余地矣,是以十九年而刀刃若新发于硎。虽然,每至于族,吾见其难为,怵然为戒,视为止,行为迟。动刀甚微,謋然已解,如土委地。提刀而立,为之四顾,为之踌躇满志,善刀而藏之。文惠君曰:“善哉,吾闻庖丁之言,得养生焉。” Sun Tonghai (孙通海 a cura di), Zhuangzi (庄子), Beijing, Zhonghua Shuju, 2007, pp. 55-6
9Cfr. Aa. Vv., Gli innovatori (Новаторы), Moskva, Molodaja gvardija, 1972, pp. 67-69.
10«Товарищи, я немного скажу о том, как я выполняю полученные мною задания. В январе я выполнил свое задание на 652 процента (аплодисменты) . В феврале за 20 дней выполнил задание на 472 процента (аплодисменты). За 17 дней марта выполнил на 388 и в мае на 556 процентов (бурные аплодисменты). «Недовыполнение» (смех) в течение двух месяцев — в феврале и в марте — случилось в результате моего отпуска.
Теперь перейду к показателям, которые я дал за 20 дней июня. Мне просто неловко говорить вам о том, что свое задание я выполнил на 2000 процентов (бурные аплодисменты). За это время у меня было четыре дня отдыха. За 20 дней июня я заработал 2 тысячи рублей (бурные аплодисменты).
Товарищи! Почему же на других шахтах у нас недовыполнение? Я думаю, что не малую роль, если не решающую, играет то, что новички не умеют выбирать уголь. Я хочу взять под свое руководство весь наш горняцкий молодняк, всех отстающих для того, чтобы передать им свое умение работать в забое (аплодисменты). Молодые кадры забойщиков хотят и будут работать. Их только надо научить (аплодисменты)». Ibidem, 81-82.
11Z. G. Licholobova, “Il movimento stacanovista nel Donbass dal 1935 al 1937” (Стахановское движение в Донбассе в 1935-1937 гг.), Voprosy Istorii, 1973, n° 12, https://elibrary.com.ua/m/articles/view/СТАХАНОВСКОЕ-ДВИЖЕНИЕ-В-ДОНБАССЕ-В-1935-1937-гг
12L.A. Štan’ko, V.M. Želtuchin, “La nascita del movimento stacanovista” (зарождение стахановского движения), in Ministero dell’istruzione e della scienza della Repubblica Democratica di Lugansk, Università Statale di Lugansk (a cura di), Vestnik, 2015, n°1, p. 13.
13Дело не только в технике, но и в организации труда. Забойщика надо освободить от крепежных работ.Если разделить труд, то можно за смену не девять, а 70 - 80 тонн давать. Сейчас забойщик, поработав час - два, откладывает молоток в сторону и берется за топор, чтобы закрепить забой.А из-под топора уголь не идет. Его дают только молотки. Но они молчат, пока забойщик занимается креплением. И на это уходит почти половина смены. В это время вхолостую работает компрессор, который подает сжатый воздух. Зачастую его даже выключают за ненадобностью. Ibidem, p. 14.
14И вот в 11 часов вечера 30 августа спускаюсь я в шахту. Со мной два специально выделенных крепильщика (Тихон Щиголев и Гавриил Борисенко. — Прим. автора статьи). Со мной отбойный молоток марки СМ-5 ленинградского завода «Пневматик». Молоток, на котором я работаю беспрерывно, который я берегу как свои глаза.
Прихожу в забой. Лава имеет 8 уступов. Каждый уступ — 10 метров. Мощность пласта — 1,4 метра. Начинаю рубать. Согнал один уступ, остался один кулак. Нажал. Не прошло 10 минут, как вырубил. Начал второй уступ, третий, четвертый, пятый уступ срубил минут за пятнадцать. Крепильщики отстали, думаю: беда, завалят лаву! Кладу молоток, беру стойки, начинаю крепить забой. Подкрепил. Вижу, догнали меня крепильщики. Снова беру молоток и начинаю рубать. Последний куток, восьмой по счету, я вырубал минут 14-15, вырубив его, я за полчаса согнал уступ.
Было пять с половиной утра — пять с половиной часов моей работы — позади осталась согнанная сверху вниз лава — 78 погонных метров. Я сразу же даже не подумал, какой большой успех явился результатом моего продуманного и организованного труда.
Выехал я из шахты. Товарищ Заплавский, зав. шахтой, поздравил меня с успехом. Взял он карандаш и примерно подсчитал мой заработок — 225 рублей — столько, сколько я и многие другие забойщики зарабатывали примерно за полмесяца. А ведь для того, чтобы заработать эти деньги, я не изобретал никаких Америк, я просто смазывал в начале работы мой молоток и два раза смазывал его во время работы. Но зато работал я не покладая рук. https://infodon.org.ua/stalino/rozhdenie-rekorda-stakhanova
15Aa. Vv., Gli innovatori (Новаторы), cit., pp. 104-5
16 Tratte dal corso: “Organizzazione del lavoro nelle gallerie di depurazione” (Организация работ в очистном забое) https://mylektsii.ru/2-40212.html
17Ibidem, pp. 89-92.
18In arabo: هوذا ما أحسن وما لطيف هو الحال بالنسبة لإخوة معا. Hine ma tov, “guarda quanto è stupendo” (stupefacente, sorprendente), u’ma naim “e piacevole” (proprio sensorialmente, che dà piacere), shevet “sedersi dopo aver lavorato” (pausa o fine giornata di lavoro), achim “fratelli”, gam yachad “e insieme”. Il lavoro che affratella e unisce è quanto di più prezioso vi possa essere, oggetto di ammirazione collettiva, quindi emulazione: la resa italiana del Salmo 133 c’entra ben poco (d’altronde, occorre depotenziare, ridurre al minimo certi messaggi altrimenti a qualcuno potrebbero prudere le mani una volta tornato a casa e accesa la televisione...) e la lascio volentieri a chi avesse voglia di andare avanti sul motore di ricerca. Qui la spiegazione parola per parola, purtroppo fatta sulle rive della Moscova: https://alfred-griber.com/ivrit/cikl-pesni-na-ivrite/pesni-na-ivrite-vypusk-2-hine-ma-tov-u-ma-naim-shevet-axim-gam-jaxad-2 e un saggio di questa melodia che unisce tonalità tipicamente semitiche (attraversando per una volta il confine insanguinato fra le due culture) e dell’Europa centro-orientale.
19Avevo aggiunto anche “dal basso” ma l’ho tolto: in una società senza sfruttati e sfruttatori non esiste il basso e l’alto come lo intendiamo noi. Esiste la gerarchia, certo. Esiste quindi un “basso” e un “alto” e, in questo senso, si trattò di un movimento “dal basso”, senza alcun dubbio. Ma qui finisce il parallelo. Una conferenza dove l’operaio prende la parola, formula una proposta, che viene accettata e messa ai voti dalla conferenza, passa e viene messa in pratica è qualcosa che qui, piuttosto che nel Giappone dell’emulazione toyotista, o nella Cina di oggi, o nell’America dove ancora ti incaprettano e ti fan morire per strada per molto meno, è pura fantascienza. Quindi parlare di “basso” e di “alto” senza fare questi e altri distinguo che abbracciano l’intero moto-modo di produzione vigente, è solo fuorviante: perché poi, giustamente, ciascuno intende “dal basso” rapportandolo al suo, di “dal basso”.
20«Не знаю, как технически, но по-коммунистически это может и должно быть сделано!» N. Hodza (a cura di), Sergej Mironovič Kirov. Ricordi degli operai di Leningrado (Киров С.М. Воспоминания Ленинградских рабочих), Leningrad, Lenizdat, 1939, p. 46.
21Echo Moskvy, Gli stacanovisti: mito o realtà? (Стахановцы: миф и реальность?), 03/01/2010 https://echo.msk.ru/programs/att-history/644121-echo/
22Dati ottenuti incrociando due lavori: Aa. Vv. L’economia socialista sovietica (Советская социалистическая экономика 1917-1957 гг.), Moskva, Gospolitizdat, 1957 https://sci.house/istoriya-ekonomiki-scibook/proizvodite-nost-truda-sssr-25072.html e, per quanto concerne i dati della produzione industriale durante la guerra civile e la NEP, “La produzione industriale in URSS nei primi 10 anni” (Государственная промышленность СССР за 10 лет), Torgovo-promyšlennaja gazeta, 6-7 novembre 1927, № 255/56(1690/91) p. 5, http://istmat.info/node/23945
23BSE, URSS. Industria (СССР Промышленность). https://www.booksite.ru/fulltext/1/001/008/106/985.htm
24L. A. Mendel’son, Analisi comparativa della struttura industriale sovietica e dei principali Paesi capitalistici (Сравнительный анализ структуры промышленности СССР и главнейших стран капитализма, documento presentato alla sezione di economia mondiale del Gosplan dell’URSS il 10 agosto 1929), p. 75. http://istmat.info/files/uploads/40849/l.a.mendelson_sravnitelnyy_analiz_struktury_promyshlennosti_sssr_i_glavneyshih_stran_kapitalizma.pdf
25Ibidem.
26А. Бусыгин: "Зарабатывал я раньше 300-350 рублей, в сентябре же заработал 690 да 130 вышло по прогрессивке и еще 223 рубля за уменьшение брака - всего вышло 1043 рубляи". М. Дюканов: "Раньше, до стахановского движения я и Стаханов зарабатывали по 550-600 рублейи. [...] Сейчас, за сентябрь, я за 16 выходов, поскольку нас кое-куда таскают (имелись в виду широко вошедшие в обиход публичные чествования стахановцев - В. Р.), заработал 1338 рублей. Орджоникидзе: А если бы не таскали? Дюканов: А если бы не таскали - больше двух тысячи" И. Славикова: "Наш нормированный заработок составляет 158 рублей в месяц. В сентябре я заработала 962 рубля. В октябре я заработала 886 рублей. Могла бы заработать, конечно, и больше, но были такие дни, когда нас отрывали от работы. Микоян: А ваша подруга сколько заработала? Славикова: Подруга заработала в октябре 1336 рублейи" А. Омельянов: "Раньше я за 300 часов работы делал в месяц 1 500 километров пробега и получал 400 рублей. Сейчас я за 192 часа сделал 3 тысячи километров [...]. За это время за выполненную работу я получил 1050 рублей да плюс еще за экономию угля, за горючее. Всего я имею 1 300 рублей." М. Пушкин: "Я раньше зарабатывал 375 рублей, а теперь 2 тысячи рублейи" Aa.Vv., Prima assemblea pansovietica degli operai e operaie stacanoviste, (Первое Всесоюзное совещание рабочих и работниц-стахановцев. 14-17 ноября 1935), trascrizione stenografica, Moskva, Partizdat CC PCU(b), 1935, pp. 24, 30, 42, 57, 59.
27Стахановцы выдвигаются из вчерашних рядовых ударников, сегодня уже осмысливших по-настоящему свой опыт в производстве. Достаточно сказать, что во многих случаях непосредственным толчком к высокой производительности труда стахановцев является простой интерес к увеличению своего заработка, чтобы признать, что стахановско-бусыгинско-виноградовское движение понятно простому рабочему, понятно любой работнице. Разумеется, желание быть передовиком в глазах рабочих играет свою роль, и значение этого стимула будет все возрастать. Но достаточно быть настоящим ударником в работе и владеть техникой своего дела, чтобы стать в ряды стахановцев. Таких людей у нас уже немало. Число таких людей растет, мы их выращиваем все более успешно. Стахановцы — не исключение, стахановцем может стать каждый рабочий. Суть дела в том, что стахановцы добились сочетания ударности в работе с овладением техникой. Стахановцы не просто ударники, а ударники, овладевшие техникой. Ibidem, p. 279
28Tratto dal monologo di Volonté nel film “La classe operaia va in Paradiso”: https://www.youtube.com/watch?v=q6ITvenn6xE
29Per chi non avesse presente la scena, con la raccomandazione, è il caso di dirlo, di “colmare la lacuna” e vedere l’intero film: https://www.youtube.com/watch?v=RioAW5vUcB4 et https://www.youtube.com/watch?v=jxI8c3f2H5o
30https://www.huffingtonpost.it/entry/i-furbetti-della-cassa-integrazione_it_5ee07c1bc5b6a1f45d268f95?utm_hp_ref=it-homepage
31Cfr. “Quando è il Paese a ordinare di essere eroi” (Когда страна прикажет быть героем), Rossijskaja Gazeta, 1 agosto 2015, https://rg.ru/2015/08/01/rodina-stahanov.html).
32Стахановцы — это настоящие большевики производства. Так же, как наша партия тверда и сильна своей правильной политикой, сильна своим руководством, сильна своей волей и настойчивостью, своим умением не отступать перед трудностями, а преодолевать их, так и стахановцы представляют из себя людей, которые, не боясь ничего, ломают рутину, опрокидывают так называемые “технически обоснованные” нормы, перекрывают проектные мощности и, овладев техникой, используя знание дела, изучая дело, честно относясь к нему, наносят удар консерватизму, наносят удар рутине, наносят удар всем старым методам. И в этом отношении стахановцы являются лучшими друзьями и помощниками нашей партии. Партийные и непартийные большевики-стахановцы — лучшие друзья и помощники нашей партии, лучшие друзья и помощники Центрального Комитета партии и товарища Сталина. Ibidem, p. 297.
33На некоторых наших предприятиях стахановское движение встретило сопротивление со стороны оппортунистических консервативных элементов в наших партийных, хозяйственных и профсоюзных организациях и со стороны отсталой части рабочих. Начались разговоры, дескать, если мы будем развивать стахановское движение, так план увеличат, что придется иначе организовать снабжение и что вообще хлопот не оберешься. Делалось все это для того, чтобы как-нибудь увильнуть от организации стахановского движения. Но мы крепко по этим настроениям ударили, одернули, призвали к порядку саботажников стахановского движения, дали им понять, что партия не остановится ни перед чем, чтобы смести с пути победоносного стахановского движения всех ему сопротивляющихся. Ibidem.
34https://ru.wikipedia.org/wiki/Жданов,_Юрий_Андреевич
35Война была успешно завершена, но ее итоrи и уроки постоянно находились в поле зрения Сталина. В 1946 rоду, выступая на встрече с творческой интеллиrенцией, Cтaлин сказал об итоrах минувшей войны: «А спасли человечество простые советские люди, которые без шума и треска, в труднейших условиях осуществили индустриализацию, провели коллективизацию, коренным образом укрепили обороноспособность страны и ценою своей жизни, во rлаве с коммунистами, разrромили вpara. Ведь только за первые шесть месяцев войны на фронтах в боях ноrибло более 500 тысяч коммунистов, а вcero во время войны – более трех миллионов. Это были лучшие из нас, благородные и кристально чистые, самоотверженные и бескорыстные борцы за социализм, за счастье народа. Их нам сейчас не хватает ... Если бы они были живы, мноrие наши сеrодняшние трудности уже были бы позади».
«Если бы они были живы...» Их отсутствие привело Cталина к тревожным выводам. Анализируя итоrи прошедшей войны, в узком кругу членов Политбюро Сталин нeoжиданно сказал: «Война показала, что в стране не было столько внутренних врагов, как нам докладывали и как мы считали. Мноrие пострадали напрасно. Народ должен был бы нас за это прогнать. Коленом под зад. Надо покаяться».
Наступившую тишину нарушил мой отец:
– Мы, вопреки уставу, давно не собирали съезда партии. Надо это сделать и обсудить проблемы нашеrо развития, нашей истории.
Отца поддержал Н.А. Вознесенский. Остальные промолчали. Сталин махнул рукой:
– Партия ... Что партия ... Она превратилась в хор псаломщиков, отряд аллилуйщиков ... Необходим предварительный rлубокий анализ. Jurij Andreevič Ždanov, Uno sguardo al passato: memorie di un testimone (Взгляд в прошлое: воспоминания очевидца), Rostov na Don, Feniks, 2004, pp. 226-7.

 

Comments

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Paolo Selmi
Saturday, 01 August 2020 09:07
Grazie mille Alfonso,

e sono verissime le parole che citi. Specialmente oggi che, per la prima volta nella storia dell'umanità, da qualsiasi posto del mondo (o quasi) è accessibile un patrimonio di conoscenze e saperi sempre più ampio. Ieri notte sul terzo c'era un documentario sul "black samurai",
https://www.cinematographe.it/tv/film-in-tv/black-samurai-film-rai-3-trama-albini-africa-karate/
A parte il documentario che è stupendo e che consiglio a tutti, c'è una scena dove jerome sensei deve mandare una mail. Lo sguardo impietoso della telecamera passa, con un unico movimento, dalla stanza dove lui spiega che il giorno prima non era stato possibile per calo di corrente in tutto il quartiere, a delle icone sullo schermo del portatile (i coni di VLC che ho anch'io sul mio, se il sonno non mi ingannava)... a fuori dalla porta, in cortile col generatore diesel che andava a tutto spiano. E in quelle condizioni il nostro maestro di karate a Dar-es-salaam, che insegna arti marziali ai bambini albini perché - ho imparato ieri - non basta loro la sfortuna di rischiare la cecità totale e ustionarsi per un nonnulla ma, in quella parte del mondo, alla stregua di zanne di elefante, li mutilano o li ammazzano per trarne amuleti, ha contatti con la federazione nazionale e con mezzo mondo, ivi inclusi i giapponesi.
Stamattina, a mia volta, ho recuperato con facilità il suo blog, giusto per chiudere l'esempio con la dimostrazione di una comunicazione e una trasmissione di informazioni a doppio senso di marcia:
https://blacksamuraitz.blogspot.com/p/jka.html
Potrei mandargli una mail, lui potrebbe rispondere, e via.
Certo, fare la rivoluzione oggi ha le stesse probabilità che un maestro africano di karate ha di mandare il suo allievo albino ai campionati (di kata, penso, non di kumite) in Giappone.
Poi ho pensato a un altro documentario, passato ironia della sorte due giorni prima in replica su la7. Chiamarlo documentario è una parola grossa... ma fa sempre effetto vedere una palestra piena di allievi, in un posto dove le cronache riportano ben altro (Scampia), con un maestro di judo che invece di restare nei corpi militari e chiudere tranquillamente la sua carriera come allenatore e quindi pensionato, giorno dopo giorno, li toglie dalla strada e, non da ultimo, li fa diventare campioni - nella vita, prima di tutto - e poi con qualche medaglia al collo.
E allora, ago dopo ago, comincio a pensare di aver pestato un riccio. E per una volta la cosa non mi fa che piacere. E continuo a pensare che, quel tentativo di portare la rivoluzione su un piano pienamente umano (totaler mensch) di nome "emulazione socialista", sia di fatto il distillato, la sintesi, l'unione fa la forza, di tanti di questi aghi storicamente conficcatisi nei nostri piedi.
Grazie ancora e
Ciao!
Paolo
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Alfonso
Saturday, 01 August 2020 00:57
Y dale Paolo! Un im- che mi prudono le mani, come dici tu. Lasciami citare il compagno Dawkins (prendo dalla traduzione italiana di Illusione di dio):
“Se le probabilità che la vita si originasse spontaneamente su un pianeta fossero una su un miliardo, questo evento molto, molto improbabile si verificherebbe in ogni caso su un miliardo di pianeti. Le probabilità di trovare uno dei pianeti ospitanti la vita sono quasi le stesse del proverbiale ago nel pagliaio. Ma non occorre disturbarsi a trovare l’ago, perché (e qui torniamo al principio antropico) chiunque fosse capace di cercarlo si troverebbe giocoforza seduto su uno di quei rarissimi aghi prima ancora di cominciare a cercare.”
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