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azioni parallele

L’alibi della verità

La dialettica vero-falso nel romanzo poliziesco

di Paolo Francesco Pagani

Edgar Allan Poe room1. Prologo. La lettera rubata

Partiamo da quella che potremmo chiamare “la scena primaria” del romanzo poliziesco. Nel racconto La lettera rubata, di Edgar Allan Poe, la verità è sotto gli occhi di tutti. Non ci si fa caso perché è così visibile. La lettera è ben nascosta proprio perché è evidente. Si tratta esattamente di una evidenza cartesiana; con gli occhi della ragione si rende chiara una verità che i sensi non colgono, o meglio: vedono – è lì, in piena vista – ma non capiscono. L’investigatore, Dupin, è colui che smaschera il velo dell'inganno facendo emergere la verità incontrovertibile. Evidente. (Ovviamente, nel suo celebre Seminario su La letterarubata, Lacan ne amplia enormemente il valore metaforico, è l'inconscio che, strutturato come linguaggio, parla. Ma Lacan riconosce che Poe «era stato guidato nella sua finzione da un disegno pari al nostro». Perché l’inconscio, più che nascosto in profondità, parla in superficie. Basta leggerlo, nei giochi di parole, nei Witz). In ogni caso, come scrive Lacan, «se qui c’è una verità, essa si trova ovunque... da un punto qualsiasi alla nostra portata». Che la verità sia un crimine, o un significante, è qui, sotto lo sguardo.

 

2. Sklovskij e Todorov

Una minore fiducia nella verità, per lo meno letteraria, traspare dall’analisi effettuata dai formalisti sui romanzi dei misteri. Viktor Sklovskij, nel suo Teoria della prosa, non è affatto interessato all’evidenza cartesiana, bensì alla struttura interna della narrazione (per esempio di Conan Doyle) e alla coerenza dell’intreccio costruito. Ammette che l’interesse per l’azione ed il mistero è rafforzato dall’ambiguità del problema, più che dalla chiarezza della soluzione. E si spinge fino ad affermare, in una analogia con gli indovinelli, che «un indovinello ammette non una, ma diverse soluzioni». È un gioco, con la possibilità di istituire paralleli diversi, e il detective risolve “per professione” il gioco.

In maniera ancora più esplicita si esprime Tzvetan Todorov, nel suo saggio su Laletteratura fantastica. Per Todorov, la letteratura è «un linguaggio convenzionale in cui la prova della verità è impossibile». Ciò che conta è che corrisponda ad un’esigenza di validità e di coerenza interna. E fra le categorie dello strano, ma razionale, e del meraviglioso ultrarazionale, introduce quella del fantastico, che non si decide, che mantiene volutamente l'ambiguità fra le due soluzioni. Il fantastico esige la condizione del dubbio. E nell’analisi dei romanzi gialli, Todorov mostra che oscillano fra la soluzione razionale dello strano, cui puntano per la maggior parte, e il dubbio fantastico cui pervengono, come vedremo, alcuni di essi. (In fin dei conti, come, in altro ambito, dice Derrida a proposito della Verità in pittura, la promessa di verità di Cezanne è solo la promessa di parlarne.)

 

3. La verità come alibi

Il romanzo poliziesco si è sviluppato, per decenni, seguendo, diciamo così, il progetto di Poe e della Lettera rubata. A partire dal XIX secolo, la coscienza borghese sente il delitto come una ferita inferta all’ordine razionale delle cose. Si tratta dunque di restaurarlo, per lo meno nella narrazione. La verità, nascosta sotto le apparenze dell’inganno, va riportata alla luce dall’indagine. La restituzione dell’ordine originario, una specie di apocatastasi, è ovviamente difficile da realizzarsi concretamente. Ma l’immaginario del romanzo garantisce la certezza. La scoperta del colpevole, la verità finalmente senza veli, offre la rassicurazione cercata: tutto può tornare al suo posto.

Il compito di smascherare le falsità costruite dal colpevole spetta ad un eroe speciale, l’investigatore. Che, come nota Siegfried Kracauer nel suo saggio Il romanzopoliziesco, a differenza degli eroi che muoiono, «non può morire, poichè la ratio deve atteggiarsi eroicamente all'infinito». Il detective può essere un genio superomistico alla Sherlock Holmes, un dandy tutto cellule grige alla Poirot o anche una semplice vecchietta di campagna come Miss Marple: ma in ogni caso, con la sua razionalità, scova deduttivamente quella verità che era lì, sotto gli occhi di tutti, ma che tutti non notavano. Con i passaggi di un teorema, con la certezza consequenziale della geometria euclidea, si riafferma la verità assoluta.

Il detective non si pone in genere questioni sociali. Il delitto può avvenire per lo più in ambiti ristretti, nel circolo chiuso di una famiglia, di un castello, degli ospiti di un albergo... ma anche quando si pone genericamente nell’area più vasta della società, come per i feuilletons alla Wallace, la spiegazione cui si giunge è sempre sul piano individuale. È rassicurante pensare che tutto è dipeso da qualcuno che è andato fuori-legge. Ma la spinta che muove l’investigatore è soltanto, secondariamente, la legalità. Egli, come dice Kracauer, «risolve l’enigma unicamente per amore del processo di decifrazione». Ovviamente il colpevole deve essere punito, raccogliendo su di sé, come in un rito, la responsabilità del disordine, senza domande sulle sue motivazioni più profonde. Bastano, come evidenza, i mezzi, l’opportunità e il movente personale (denaro, amore o vendetta, ci viene spesso detto). Ma l’azione del detective ha come obiettivo ultimo la verità di per se stessa. La speranza, o l’illusione, che questo basti a mettere a posto le cose. La verità disvelata, l’enigma risolto dalla ratio vuole essere la conferma che, individuata la mela marcia che aveva causato la ferita nell’ordine del mondo, tutto proceda bene come prima. La coscienza del lettore (e dello scrittore) si sente rassicurata: esiste per lo meno un ambito in cui la certezza della verità si afferma, in cui qualcuno viene individuato – e rimosso – come la causa del male cosmico, e in cui almeno uno, l’investigatore, è capace di vedere e discernere ordine e disordine. È consolatorio scoprire che le vere cause dei problemi stavano altrove.

 

3. Il realismo sociale

Come nota Sklovskij studiando i racconti del mistero di Dickens, lo schema dell’investigazione finisce per essere utilizzato dal romanzo sociale. E viceversa. In effetti, nel XX secolo, allargandosi la platea dei lettori e, direi, delle loro aspettative, anche le prospettive del poliziesco si ampliano. Come dice Nicholas Blake, il giallo diventa «il mito popolare del XX secolo», e le figure del colpevole e del detective, quasi intrecciandosi, diventano archetipi caratterizzanti la società. È curioso notare che Blake è lo pseudonimo con cui si è messo a scrivere polizieschi, «il romanzo popolare del Novecento», Cecil Day-Lewis, importante poeta della cerchia di Auden e, negli anni Trenta, militante del partito comunista inglese (prima di diventare poeta laureato di corte).

D’altra parte, l’irruzione del realismo nel poliziesco non può non fare i conti con la società. Il principale teorico di questa prospettiva, Raymond Chandler, ridicolizza, nella sua Semplice arte del delitto, trame e personaggi inverosimili dei giallisti inglesi, arrivando a dire di un romanzo della Christie che «soltanto un deficiente congenito potrebbe indovinare la soluzione». E afferma che il poliziesco «deve trattare di persone vere in un mondo vero». Con ciò facendo entrare in gioco poliziotti, investigatori privati, piccoli delinquenti e grandi speculatori. Ovviamente, Chandler era consapevole delle possibili implicazioni politiche delle sue opere («Un uccellino mi ha bisbigliato che potrei scrivere un buon romanzo sul proletariato»), ma le rifiuta, limitandosi al piano etico. Cosa che invece non fa un altro nume tutelare del genere realistico,Dashiell Hammett, militante del partito comunista americano e processato dalla commissione McCarthy per le attività antiamericane. In effetti, i romanzi di Hammett, come il celebre Falcone maltese, sono più rigorosamente realistici e legati all’esperienza sociale dell’autore, mentre in Chandler finisce per prevalere l’aspetto letterario e direi poetico.

Dagli anni Trenta ai giorni nostri, dagli Stati Uniti all’Italia, dal noir al cosiddetto police procedural, la tendenza ad inserire la narrazione poliziesca nel quadro sociale si è sempre più diffusa. Fino a spingere un importante teorico marxista e leader della IV Internazionale, Ernest Mandel, a scrivere una Storia sociale del romanzo poliziesco (Delitti per diletto). In cui, se da un lato analizza il giallo come un prodotto tipico della società industriale, in un quadro di capitalismo maturo, dall’altra individua la presenza della realtà sociale e, in alcuni autori come Ross MacDonald o Leo Malet e il noir francese, la sua critica. Insomma, dall’indignazione morale di Chandler contro i potenti corrotti a spunti anticapitalistici...

In ogni caso, il poliziesco sociale si basa sullo stesso presupposto del giallo all’inglese tanto dileggiato: la verità. Certo si passa dal chiuso dei circoli aristocratici all’aperto della società, ma il compito dell’eroe, non più snob deus ex machina, ma poliziotto, investigatore professionale o per caso, rimane lo stesso. Restituire, con la verità, l’ordine cosmico (o più modestamente sociale e legale), e con esso la certezza, nel lettore, che almeno nella narrazione tutto vada a posto. Che esista un campo, sognato e sognabile, in cui i tasselli del reale si incastrano perfettamente e le ferite vengono sanate.

 

4. La pretesa della scientificità

Fin dai suoi inizi, nella narrativa poliziesca è stato presente un filone che voleva basarsi, più che sulle cellule grigie del detective, sulle operazioni metodiche d’indagine e sulle prove materiali. Quello che ha preteso di definirsi “giallo scientifico”. Certo, si è passati dalle monotone e semplicistiche inchieste di Wills Crofts o AustinFreeman (impronte, veleni, chimica, medicina legale) alle più brillanti e sofisticate avventure alla Kathy Reichs che tanto vanno oggi di moda anche nei telefilm come C.S.I., basate sulle autopsie, lo studio delle ossa, il mitico DNA. Ma l’illusione è la stessa. L’ambizione, o la pretesa, che con dati oggettivi indiscutibili si raggiunga la verità certa, gli inganni smascherati, i colpevoli incastrati da briciole di pelle, la razionalità, dimostrata e verificata dalla scienza, riportata al suo posto d’onore.

Ma, a mio parere, questa pretesa tendenza “scientifica” costituisce solo un degrado quasi caricaturale dell’originario filone deduttivo alla Dupin o Sherlock Holmes. Coi suoi limiti, il giallo classico si sviluppava grazie alla riflessione degli uomini, all’intuizione e qualche conoscenza psicologica. Nei casi migliori, grazie all’umanità e alla partecipazione emotiva del detective, come Maigret. Qui, invece, è tutta questione di dati di laboratorio, di input informatici. Di corpi morti che parlano. Ora, che la certezza dell’ordine del mondo e della ricomposizione della verità, malamente occultata, dipendesse da qualche geniale mente deduttiva era già un’illusione, o una ingenua recita. Ma che le falsità vengano stracciate, e la sicurezza morale, sociale e mentale della coscienza del lettore sia garantita dalle ossa, da segmenti del DNA o dalle procedure dell’antropologia forense, scusate, è proprio una bella pretesa. Il bisogno di certezze, soddisfatto immaginariamente dal poliziesco e dal suo sogno di liberare la verità dalla maschera dell’inganno, può accontentarsi di qualche analisi di laboratorio e di una dissezione anatomica?

 

5. Le crepe

La compatta tessitura del poliziesco (ordine / delitto che introduce il disordine / falsificazione della verità / svelamento della verità / punizione del colpevole / restituzione dell’ordine) ha però subito col tempo varie incrinature. Innanzitutto, riguardo alla punizione del colpevole. Nei noir e nei gialli a sfondo sociale, già a partire da Chandler, si insinua il dubbio che i veri responsabili non possano essere smascherati e colpiti. Perché sono troppo potenti, perché qualcuno li protegge, perché la corruzione è troppo diffusa anche agli alti livelli... Più in generale, l’investigatore si rende conto che esiste una distanza fra legge e giustizia, per cui la sanzione legale risulta insoddisfacente. In certi casi (per esempio negli scrittori americani a tendenza autoritaria) si fa giustizia da sé: il “giustiziere della notte”. In altri non consegna il colpevole, per il quale prova una certa empatia, alla legge: lo individua ma non lo denuncia, o gli permette di fuggire, o al limite gli lascia il tempo di suicidarsi.

In un secondo luogo, appare e si esplicita la consapevolezza che si tratta tutto di un gioco narrativo. Come mostra Thomas Narcejac nel suo Il romanzo poliziesco, a partire da alcuni scrittori, come Ellery Queen e John Dickson Carr, la recita è dichiarata, si riconosce che siamo in una finzione teatrale e non nella ricerca della verità, la ragione serve a costruire e smontare il gioco e non a restaurare l’ordine. In Ellery Queen, ad un certo momento della storia, si arriva persino a sfidare dichiaratamente i lettori: ora avete gli stessi elementi che sono in mano all’investigatore, provate voi ad arrivare alla soluzione. Al tempo stesso, è proprio Ellery Queen a riconoscere che la sua ossessione per i misteri «dipendeva dal fatto che erano appunto misteri, e cioè domande senza risposta, problemi senza soluzione». Sulla scia dei formalisti russi, ciò che interessa è la struttura del problema, non la verità che emerge. Come dice Narcejac, «il gioco ha cambiato carattere. Ciò che importa, ora, è abbandonarsi alla seduzione del racconto e passare dall’altra parte dello specchio». In Queen, «il romanzo poliziesco ha finito di essere scientifico».

Infine, il dubbio definitivo. Ma esiste poi una soluzione del problema? Nei polizieschi più complessi inizia ad entrare in gioco l’ambiguità. Se il poliziesco tradizionale voleva essere lineare e dimostrativo come la geometria euclidea, osiamo quasi dire che come soluzioni possono apparire verità non-euclidee, cioè possibili verità diverse a seconda del variare dei postulati e delle prospettive da cui si muove il detective. Ed è lo stesso investigatore che non sa, o non vuole scegliere fra più soluzioni. Emblematico di tale ambiguità il celebre film di Hitchcock La donna che visse due volte,non a caso tratto proprio da un romanzo di Narcejac.

Anche in questi casi la dichiarazione di principio spetta ad Ellery Queen, «solo un idiota può considerare una soluzione come l’unica soluzione possibile». Ma nella pratica narrativa è Dickson Carr, il re della camera chiusa, colui che maggiormente si è divertito a giocare sull’ambiguità delle soluzioni e a camminare sul bordo scivoloso del magico e dell’irrazionale. E la sua performance più al di là dell’ordinario, il romanzo la Corte delle streghe, già del 1937, viene studiata da Giorgio Galli, (Prefazione a Delitti per diletto) da Narcejac e da Todorov come l’esito più significativo di questa débacle della verità razionale unica. Il finale del romanzo resta sospeso fra tre soluzioni alternative e parallele: il piano, sensato ma smascherato, di un astuto assassino; la follia della protagonista, che si crede davvero un’avvelenatrice; e la possibile reincarnazione di una storica avvelenatrice di tre secoli prima. L’investigatore onnisciente esce sconfitto dalla narrazione. L’ansia di sicurezza, che è alla base del giallo classico, rimane irrisolta come l’aspirazione alla verità definitiva. Il romanzo poliziesco non offre più alibi alle nostre incertezze e al bisogno di ristabilire razionalmente il mondo. E da questa soglia, come nota Todorov, inizia a camminare anche sui confini del fantastico.

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