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consecutiorerum 

Contro l’idea di progresso

Raul Prebisch e la scuola dependentista latinoamericana

di Maria Turchetto*

2016031505352700ec53c4682d36f5c4359f4ae7bd7ba1Per due secoli buoni abbiamo pensato la temporalità e la storia attraverso l’idea di progresso. Forse siamo tuttora prigionieri di quest’idea, dura a mo­rire, diventata luogo comune e automatismo del pensare - anche perché è un’idea consolatoria. Ma mi piace datarla così, sull’arco di due secoli: par­tendo dalle prime formulazioni illuministe della metà del XVIII secolo per arrivare alle prime critiche profonde e sistematiche nell’ambito della teoria economica che si devono in gran parte alla scuola dependentista latinoame­ricana della metà del XX secolo. Certo, i precursori esistono sempre e farò in proposito qualche accenno.

 

  1. Le formulazioni illuministe

Quanto alle formulazioni illuministe, il pensiero corre subito a Condorcet e al suo Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain (1795), ma prima di lui l’idea è formulata già negli anni Cinquanta del secolo dagli économistes (la scuola di pensiero passata alla storia con il nome di “fisiocrazia), in particolare da Turgot. Per Turgot il progresso è la chiave di intelligibilità della storia:

I fenomeni della natura, assoggettati a leggi costanti, sono racchiusi in un cer­chio di rivoluzioni che sono sempre le stesse. Tutto rinasce, tutto perisce; e, in queste successive generazioni per cui i vegetali e gli animali si riproducono, il tempo non fa che rendere ad ogni istante l’immagine di ciò che ha fatto scomparire. Il succedersi degli uomini, al contrario, offre di secolo in secolo uno spettacolo mutevole. La ra­gione, le passioni, la libertà producono incessantemente nuovi eventi [...].

Vediamo costituirsi delle società, formarsi delle nazioni che di volta in volta dominano e sono soggette ad altre nazioni. Gli imperi nascono e crollano. Le leggi, le forme di governo si succedono le une alle altre [.]. L’interesse, l’ambizione, la vanagloria cambiano ad ogni istante la scena del mondo, irrorano la terra di sangue. Tuttavia, nel mezzo delle devastazioni, i costumi s’ingentiliscono, l’intelletto umano si rischiara, le nazio­ni isolate si riaccostano le une alle altre e il commercio e la politica ricongiungono infine tutte le parti del globo e l’intera umanità, attraverso alterni periodi di calma e di tensione, di benessere e di sventure, procede sempre, benché a passi lenti, verso una maggiore perfezione.1

E la storia, per Turgot, è eminentemente una storia economica scandita a stadi: dallo stadio della caccia e raccolta, alla pastorizia nomade, all’agri­coltura e allevamento stanziali, all’industria. Di questa progressione - di­ciamoci la verità - siamo tuttora piuttosto convinti. In questa concezione le diverse nazioni si trovano a diversi stadi, più o meno avanti nella scala del progresso; ma prima o poi completeranno il percorso, anche grazie alla spinta che proviene dall’espandersi del commercio internazionale.

E di qui si va avanti, con qualche variazione ma decisamente nello stes­so ordine di idee. Si va avanti con Adam Smith, che pone come principio del progresso la divisione del lavoro, la quale per altro rinvia a quell’“i- stinto al baratto” - al commercio - che secondo Smith ci distingue dagli animali. Si va avanti con David Ricardo, che teorizza l’effetto “buono per tutti” del commercio internazionale che spinge al progresso ancora gra­zie al principio smithiano della divisione del lavoro, intesa in questo caso come specializzazione dei diversi paesi in diverse produzioni. Si va avanti con Marx e soprattutto con il marxismo successivo che assimila i “modi di produzione” agli “stadi di sviluppo”. A partire da Engels che, nelle Consi­derazioni supplementari scritte in occasione della prima edizione del Libro III del Capitale, rispolvera - e purtroppo propone come “interpretazione autentica” del testo marxiano - una storia scandita dallo sviluppo delle forze produttive e dall’espansione degli scambi: un tracciato dallo “stato selvaggio” alla “civiltà” (per riprendere la terminologia derivata da L.H. Morgan e ripresa dallo stesso Engels in L’origine della famiglia, della pro­prietà privata e dello Stato) o da un ipotetico “comunismo primitivo” al co­munismo dispiegato culmine e “fine” della storia, attraverso una sequenza di modi di produzione interpretati e rimontati temporalmente come stadi di sviluppo: il mitico comunismo primitivo, appunto; il modo di produ­zione antico basato sullo schiavismo; il modo di produzione feudale; la poco probabile “società mercantile semplice” e il capitalismo - nella (certa) attesa del socialismo e del comunismo. Come è stato fatto notare, manca all’appello il “modo di produzione asiatico”, di cui Marx ha scritto ma che evidentemente era difficile collocare in questo schema.

E ancora avanti fino a Walt Rostow che nel 1952 propone la sua teoria dello sviluppo economico a stadi in The Process of Economic Growth, segui­to nel 1959 da The Stages of Economic Growht.

 

  1. Il marxismo

Prima di parlare di Rostow, due parole sul marxismo. Althusser ci ha in­segnato che in Marx coesistono due concezioni della storia: un “materiali­smo dell’incontro e della contingenza” e un “materialismo della necessità teleologica”:

In Marx si trovano due concezioni del modo di produzione e della storia, che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra. La prima [...] si ritrova nel celebre capitolo dell’accumulazione originaria e in molte allusioni di dettaglio sulle quali ritornerò. La si può trovare anche nella teoria del modo di produzione asiatico. La seconda si trova nei passaggi del Capitale sull’essenza del capitalismo, così come del modo di produzione feudale e del modo di produzione socialista [.] e più in gene­rale nella “teoria” della transizione o forma di passaggio da un modo di produzione ad un altro.2

Senza dubbio si deve ad Engels l’opzione per la seconda concezione, formulata, come abbiamo visto, nelle Considerazioni supplementari in una versione che, oltretutto, privilegia come motore del progresso l’estensione degli scambi commerciali più che lo sviluppo delle forze produttive, che di­venterà invece il canone del marxismo ortodosso successivo.

Nell’ambito del marxismo dovrei citare la vistosa eccezione di Rosa Luxemburg, che riprende invece la concezione che “si ritrova nel celebre capitolo sull’accumulazione originaria”, ma per ragioni di spazio mi limito a rinviare alla mia Introduzione alla recente riedizione de L’accumulazione del capitale.

Faccio invece una breve digressione su un autore piuttosto dimenticato cui si deve, a mio avviso, la nozione di “forze produttive”: Friedrich List, assolutamente convinto che la civiltà procede per “stadi di sviluppo” ma anche del fatto che il commercio internazionale può ostacolare il conse­guimento dell’ambito stadio industriale perché chi monopolizza il settore industriale inibisce, di fatto, il progresso altrui. L’ideale cosmopolita degli illuministi di un mondo pacificamente unificato dai commerci può essere perseguito da nazioni ricche e indipendenti e non imposto da una sola potenza:

Un’unione universale originata dalla potenza politica e dalla ricchezza prepon­derante di una sola nazione, basata cioè dalla sottomissione e dipendenza di tutte le altre, avrebbe come risultato l’annientamento di tutte le particolarità nazionali e dell’emulazione tra i popoli. Una unificazione su queste basi sarebbe contraria ai sentimenti e agli interessi di tutte quelle nazioni che si sentono chiamate all’indipen­denza e al raggiungimento di un alto grado di ricchezza e di importanza politica; non sarebbe che la ripetizione di quanto già avvenuto nella storia con l’impero romano, con la differenza che questa volta accadrebbe con l’aiuto del commercio e dell’indu­stria invece che delle armi; ciò non di meno, ricondurrebbe i popoli alla barbarie.3

 

  1. La scuola dependentista latinoamericana

L’idea di List viene ripresa, a un secolo di distanza, dalla scuola depen- dentista latinoamericana. Ma andiamo con ordine. L’ordine ci impone in­nanzitutto di introdurre il concetto di sottosviluppo, enunciato, a quanto pare per la prima volta in un testo ufficiale4, nel Discorso inaugurale del Presidente degli Stati Uniti Harry Truman nel gennaio del 1949. Si tratta di un discorso importante per il nostro argomento. È il discorso che inaugura l’idea dei tre mondi: il primo mondo è il “mondo libero” basato sul mercato (gli Stati Uniti e i loro satelliti); il secondo mondo è quello del socialismo reale e della pianificazione, da combattere ideologicamente e militarmente; il terzo mondo comprende invece le “aree sottosviluppate”, che gli Stati Uniti si impegnano ad aiutare.

L’idea statunitense del sottosviluppo è quella espressa da Walt Rostow, che fu consulente per gli affari di sicurezza nazionale sotto le ammini­strazioni di Kennedy e Lyndon Johnson, convinto sostenitore della guerra del Vietnam, anticomunista feroce e fervente liberista: un uomo da guer­ra fredda, insomma. Considererò qui in particolare The Stages of Economic Growht del 1959, ripubblicata l’anno successivo con il significativo sottotitolo A non-communist Manifesto, l’opera su cui basò la sua carriera universitaria. Secondo Rostow i processi di crescita economica si svilup­pano in ogni paese attraverso cinque stadi: lo stadio di partenza o “società tradizionale”, in cui la stragrande maggioranza della popolazione opera nel settore primario in un’economia di sussistenza o poco più; lo stadio preliminare al decollo, con una maggiore produttività in agricoltura e un parziale sviluppo della tecnica; il “decollo”, con investimenti nel settore secondario e un ulteriore progresso della tecnica; la maturità, che coincide con la piena industrializzazione e la formazione del settore terziario; infine, l’“età del consumismo e della produzione di massa” che garantiscono un alto livello di benessere. I diversi paesi sono più o meno avanti in questo percorso. Il sottosviluppo equivale all’arretratezza - alla permanenza nel pri­mo o secondo stadio; l’accelerazione del processo deriva principalmente dal commercio estero, dagli scambi con paesi più avanzati che... danno il buon esempio. Come è stato osservato5, il successo della teoria di Rostow non si deve alla sua originalità ma, al contrario, alla ripresa di formulazioni tradizionali.

Ma negli stessi anni comincia a farsi strada un’idea diversa. Nel 1950 viene istituita la CEPAL (Comision Económica para America Latina), or­ganismo dell’ONU con sede a Santiago del Cile, presieduta fino al 1963 da Raul Prebisch.

Abbiamo visto che Rostow raccomandava l’apertura al commercio in­ternazionale come stimolo alla crescita economica, seguendo in questo la teoria dei vantaggi comparati di David Ricardo, considerata un pilastro della teoria economica che nessuno - con l’eccezione di Friedrich List cui ho accennato - aveva mai osato mettere in discussione, che affermava che nel commercio internazionale tutti traggono vantaggio. I primi studi della CEPAL dimostrano il contrario: mostrano che nel lungo periodo si verifica un deterioramento dei termini di scambio a svantaggio del settore prima­rio. I paesi che esportano prodotti industriali (paesi avanzati, “centri” nel linguaggio della CEPAL) si avvantaggiano nel tempo rispetto ai paesi che esportano materie prime (paesi sottosviluppati, “periferie” nel linguaggio della CEPAL): dunque si verifica uno scambio ineguale tra centri e perife­rie. Se la teoria ricardiana era frutto di un ragionamento deduttivo, gli stu­di della CEPAL - condotti soprattutto da Raul Prebisch e Paul Singer - si basavano sullo studio di serie storiche dell’andamento dei prezzi che smen­tivano il ragionamento ricardiano. Come scrive André Gunder Frank:

Ricardo e i suoi seguaci dopo di lui hanno illustrato la loro presunta “legge dei vantaggi comparati” con l’esempio del commercio tra Inghilterra e Portogallo: il Portogallo produrrebbe vino, mentre l’Inghilterra produce tessili [...]. Ma non tutti i prodotti sono gli stessi, specialmente nei loro effetti sulle risorse e sulla capacità pro­duttiva. L’Inghilterra si industrializzò, il Portogallo no [.]. Io non so se l’Inghilterra producesse vino, ma il Portogallo produceva tessili. Grazie alla tipica linea di Ricardo, inserita nel trattato di Metheun e in tre precedenti accordi commerciali anglo-por­toghesi, il Portogallo si deindustrializzò, cioè diventò più sottosviluppato, mentre all’Inghilterra avvenne il contrario [.]. Io penso che si possa ragionevolmente affer­mare che il risultato non fu solo un livello comparativamente più basso dello sviluppo del Portogallo rispetto all’Inghilterra, ma la formazione di ciò che oggi chiamiamo la struttura del sottosviluppo.6

 

  1. Lo scambio ineguale

Perché si verifica questo “scambio ineguale” che penalizza - penalizza sempre di più - i paesi sottosviluppati? Gli autori cepalisti danno diverse spiegazioni. Secondo Raul Prebisch dipende dalla differenza tra settori pri­mario e secondario: il settore primario presenta una domanda più rigida e beneficia in misura minore del progresso tecnico. Per Arghiri Emmanuel si tratta invece dell’effetto del movimento dei capitali che spostano i settori a bassa intensità di capitale alla ricerca di bassi salari7 - una tesi interessante perché spiega tra l’altro i processi di delocalizzazione produttiva. Samir Amin sostiene che non si tratta semplicemente di scambio ineguale, ma di sviluppo ineguale tra paesi “autocentrati” (i centri), che godono di una crescita del mercato interno concomitante alla crescita economica, e paesi “extravertiti” (le periferie), la cui economia si basa quasi esclusivamente sulle esportazioni, con un mercato interno poverissimo.

Ci sono ovviamente molti altri autori che approfondiscono l’argomen­to, cui cercherò di fare qualche breve riferimento in seguito. Per ora mi preme sottolineare quelle che sono le novità teoriche e metodologiche in­trodotte dalla scuola dependentista, negli aspetti della temporalità e dell’u­nità di analisi assunta. Per quanto riguarda la temporalità, viene finalmente abbandonata l’idea di progresso e quella della storia economica scandita da stadi di sviluppo. Il sottosviluppo non è arretratezza, non è ritardo tempora­le, non è un “non ancora”. È collocazione in uno spazio geopolitico gerarchi­co, strutturato in paesi dominanti e paesi dipendenti, in centri e periferie. Proprio per questo, quando si parla di sviluppo economico l’unità di anali­si non può essere il singolo paese, la singola nazione8, ma la configurazione complessiva di centri e periferie, il “sistema mondo”, diranno alcuni autori successivi - appartenenti alla cosiddetta scuola del sistema mondo, appun­to, come Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi - che tanto devono alla scuola dependentista.

Le ricette della CEPAL per uscire dalla situazione di dipendenza dei pa­esi periferici consistono, fondamentalmente, nella industrializzazione per sostituire le importazioni, un programma che richiede misure protezioni­stiche e interventi dello Stato per favorire il mercato interno (riforme agra­rie) e raggiungere l’autonomia finanziaria necessaria per gli investimenti (banche nazionali). Sono ricette che non piacciono ai centri, in particolare non piacciono affatto agli Stati Uniti che avevano promesso di aiutare i paesi sottosviluppati. A parte poche gocce per le riforme agrarie, dagli USA arriveranno all’America Latina soprattutto soldi per armi, sostegno a go­verni di destra e a golpe.

 

  1. Gli anni Settanta

Siamo negli anni Settanta, e la scuola dependentista si biforca: conosce da un lato una radicalizzazione in senso marxista e socialista, dall’altro l’ap­prodo a un riformismo molto moderato. Annamaria Vitale definisce ef­ficacemente queste due posizioni come “sviluppo del sottosviluppo” (le posizioni radicali) e “sviluppo dipendente”9.

L’espressione “sviluppo del sottosviluppo” si deve ad André Gunder Frank, che ho precedentemente citato: significa che senza una rottura, sen­za uno “sganciamento” dal sistema centri/periferie, il sottosviluppo non solo si riproduce, ma peggiora. Le analisi di questo autore, di formazio­ne marxista, sono molto interessanti. Gunder Frank fa risalire la struttu­ra socioeconomica della periferia al XVI secolo, definendola fin da allora “capitalistica”. Il latifondo caratteristico dell’America Latina non è affatto il retaggio di un “feudalesimo” spontaneo (in quanto stadio della progres­siva catena dei modi di produzione) o di una “società tradizionale” (come avrebbe detto Rostow), ma un’imposizione del capitalismo commerciale europeo. Un altro elemento interessante è che lo schema centri/periferie (o metropoli/satelliti, per usare un’altra espressione di Gunder Frank) non esiste solo a livello internazionale ma si ripete, su scala più piccola, a livello nazionale e locale, come una sorta di frattale. Gunder Frank parla per la verità di “catena”:

Ad ogni anello di questa catena una minoranza dominante [...] esercita un po­tere monopolistico sulla maggioranza sottostante, espropriando una parte o la totalità del surplus economico da questa prodotto e appropriandosene [.] nella misura in cui non viene a sua volta espropriata da una minoranza sovrastante ancora più esigua. Così ad ogni anello il sistema capitalistico internazionale, nazionale e locale genera sviluppo economico per pochi e sottosviluppo per la maggioranza.10

L’idea di “sviluppo dipendente” rappresenta l’alternativa riformista al pensiero radicale. Secondo questa posizione lo sviluppo dipendente è co­munque uno sviluppo, una “modernizzazione” che ha effetti positivi anche se è eterodiretta. L’economia di mercato - come sostiene Fernando Hen- rique Cardoso, che sarà presidente del Brasile dal 1995 al 2003 - è “una realtà sociale più forte degli schemi astratti”11. Peccato che nel frattempo sia scoppiato il grande problema dell’indebitamento dei paesi del terzo mondo. Il Brasile, insieme ad altri paesi indebitati, viene sottoposto alle tremende misure del Fondo Monetario Internazionale: tagli alla spesa pub­blica, vastissimo programma di privatizzazioni, nuovi prestiti per pagare gli interessi di quelli già contratti e naturalmente apertura dei mercati.

È la fine della scuola dependentista? In un certo senso sì, nel senso che si è chiusa una stagione in cui gli studi sul sottosviluppo - studi di alto livello - prodotti nell’ambito del terzo mondo avevano autorevolezza a li­vello internazionale. I “piani di aggiustamento” del FMI - spesso formulati dall’ultimo ragazzotto laureato alla Vattelapesca Economic School che non sa nemmeno trovare sulla carta geografica il paese su cui relaziona - rappre­sentano l’ultima (in ordine di tempo) impresa imperialista dell’Occidente capitalistico.


* Università “Ca’ Foscari” di Venezia (This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.; ORCID: 0000-0003-4967-7103).

Note
1 Turgot (1978, 5).
2 Althusser (2006, 45).
3 List (1967, 42-43).
4 Cfr. Rist (1997, 9).
5 Ivi, 35.
6 Gunder Frank (1974, 56).
7 Emmanuel ricorda che la teoria ricardiana dei vantaggi comparati formulata da Ricar­do ha come esplicito presupposto che si spostino solo le merci e che lo stesso Ricardo aveva rilevato uno “scambio ineguale” tra settori a bassa intensità di capitale e settori ad alta intensità di capitale a vantaggio di questi ultimi.
8 Possiamo dire che la nazione rappresenta il riferimento originario della teoria eco­nomica, a partire dalla Ricchezza delle nazioni di Adam Smith. Economia politica significa infatti, originariamente, economia della nazione.
9 Cfr. Vitale (1998, 82).
10 Gunder Frank (1974, 87).
11 Cfr. Cardoso (1981).

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