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lanatra di vaucan

La luce dell’Illuminismo

La simbolica della modernità e l’eliminazione della notte

di Robert Kurz

tramonto delloccidente 2048x1536Proponiamo qui un breve quanto intenso scritto di Robert Kurz, dal titolo La luce dell’illuminismo. Questo testo funge, per l’occasione, anche come sorta di “anticipazione” della prossima apparizione, per le edizioni Mimesis, del noto pamphlet Manifesto contro il lavoro del Gruppo Krisis, che viene ripubblicato a distanza di 20 anni dalla sua prima uscita in Italia. In questo libro, infatti, oltre al Manifesto vero e proprio, fanno da corollario altri testi, probabilmente altrettanto importanti, tra i quali La dittatura del tempo astratto, sempre di Robert Kurz, all’interno del quale si trova un capitoletto, anch’esso intitolato La luce dell’illuminismo, che riprende in modo sintetico proprio i temi di fondo presenti nell’articolo, più completo, che qui pubblichiamo.

Quest’ultimo risale al 2004 ed è inizialmente apparso sul numero 112 della rivista internazionale Archipel. È stato dapprima meritoriamente tradotto in italiano sul web, in modo forse un po’ sbrigativo e dalla versione francese, da qualcuno che non conosciamo ma che si firma con un simpatico nomignolo, Ario Libert. La versione che proponiamo adesso tiene conto di quella traduzione, ma rivista in base all’originale tedesco e si differenzia in più parti rispetto a quella (per esempio, Ario aveva lasciato il termine tedesco Aufklärung, come già nella traduzione francese, mentre noi, coerentemente con la tradizione delle traduzioni italiane dei testi kurziani, abbiamo deciso di riportarlo con un più netto “illuminismo”, così richiamando anche – come nelle intenzioni kurziane – un preciso momento storico, oltre che un determinato movimento di pensiero).

Questo breve testo può essere considerato come uno dei testi più “filosofici” di Robert Kurz, dove l’autore polemizza ancora una volta con il pensiero illuminista, in questo caso criticandone a fondo l’onnipervasiva metafisica della “luce”.

Ovviamente, nelle intenzioni kurziane polemizzare con l’illuminismo non significa civettare con tendenze di pensiero misticheggianti o irrazionali (come si capisce anche dalla polemica contro i “romantici” presente proprio in questo scritto), ma volgere lo sguardo verso una “ragione sensibile” cara a Kurz.1 Una “ragione” che, diversamente dalla ratio illuminista, progenitrice della razionalità aziendale oggi onnipervasiva (per la quale l’unica cosa che conta è rendere redditizio in termini monetari l’operato umano e il mondo intero), tenga conto invece degli aspetti più propriamente umani e sappia agire con rispetto verso la terra, che ci ospita e alla quale apparteniamo, e verso chi la abita, e anche verso le cose stesse, alle quali riservi quella cura che la ragione strumentale del capitalismo non conosce e anzi fondamentalmente disprezza. Una ragione “sensibile”, appunto, nel senso più lato, considerando cioè l’ampio spettro semantico che la parola “sensibile” può avere. Una “ragione”, slegata dagli imperativi economici, anzi capace di contrastarli e combatterli, che dovrebbe guidare l’agire umano, e di cui oggi il mondo avrebbe estremamente bisogno.

Nota: 1.Cf. per esempio questo passaggio, tratto da Robert Kurz Il collasso della modernizzazione, Mimesis ed., Milano-Udine 2017, p.206: “Ma per superare la crisi è necessario un tipo assolutamente diverso e precisamente antitetico di «ragione pratica» e di «immanenza», che renda la critica sociale ancor più radicale e corrosiva, invece di indebolirla. Più esattamente: il contenuto materiale delle potenze sociali disponibili deve essere radicalmente liberato dalla sua forma storica, che ha avvelenato questo contenuto, rendendolo distruttivo al massimo grado. È pertanto necessaria una ragione sensibile, che è proprio l’esatto contrario della ragione astratta illuministica e borghese, modellata sulla forma-merce. Si capirebbe allora che la sua pretesa assolutistica equivale solo a ridurre contenuti sensibili, qualitativamente differenti, all’interno di una logica autonomizzata. All’indifferenza del denaro nei confronti delle necessità materiali corrisponde la forma teorica del metodo scientifico positivista, applicabile a qualsiasi contenuto”. Oppure, questo altro, ancora di Robert Kurz ma questa volta insieme anche a Norbert Trenkle, tratto proprio dalla prima edizione del Manifesto contro il lavoro, contenuto in un articolo (che sarà presente anche nella nuova edizione, già annunciata, di prossima pubblicazione) dal titolo Il superamento del lavoro. Uno sguardo alternativo oltre il capitalismo, DeriveApprodi, Roma 2003, p.109: “Con la scomparsa della razionalità economico-aziendale distruttiva naturalmente non si mira certo a smantellare le forze produttive generate ciecamente dal capitalismo ma ad impiegarle secondo una “ragione sensibile” nei confronti del contenuto (invece che secondo una razionalità monetaria astratta, indifferente ai contenuti), a trasformarle e a svilupparle ulteriormente. Superamento del lavoro non significa perciò semplicemente una mera diminuzione quantitativa del tempo di lavoro per mezzo di una «completa automatizzazione» (priva di riguardo per i contenuti), ma la liberazione di tutte le attività sociali dalla loro forma astratta, desensualizzata, indifferente […]”

Buona lettura [Massimo Maggini]

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Ancora oggi, a più di duecento anni di distanza, siamo abbagliati dallo splendore dell’Illuminismo borghese. La storia della modernizzazione si inebria di metafore che evocano la luce. Il sole splendente della ragione è ritenuto in grado di squarciare il buio della superstizione e rendere visibile il disordine del mondo, per plasmare finalmente la società secondo criteri razionali.

L’oscurità non viene percepita come l’altra faccia della verità, ma come il regno del demonio. Anche gli umanisti del Rinascimento polemizzavano contro i loro nemici chiamandoli “uomini delle tenebre”. Si dice che Goethe abbia gridato sul letto di morte, nel 1832, “Più luce!”. Un classico non poteva uscire di scena in modo più elegante!

I Romantici resistettero a questa fredda luce della ragione rivolgendosi, in modo forse un po’ sbrigativo, alla religione. Al posto di una razionalità astratta, si fecero così promotori di un altrettanto astratto irrazionalismo. Invece di inebriarsi di metafore della luce, si abbandonarono alle metafore delle tenebre, come Novalis nel suo Inni alla notte. Ma questo semplice capovolgimento della simbolica dell’illuminismo non coglieva il punto. I romantici non riuscirono affatto a superare il sospetto unilateralismo illuminista, ma si limitarono ad occupare l’altro polo della modernizzazione, diventando così veramente gli “uomini delle tenebre” di un modo di pensare reazionario e clericale.

Ma la simbolica della modernizzazione può essere criticata anche in modo esattamente opposto: come paradossale irrazionalità della stessa ragione capitalista. Perché, curiosamente, le metafore illuministiche della luce sanno di bruciato, di misticismo. L’idea di una splendente fonte di luce sovrannaturale, come viene rappresentata dalla ragione moderna, evoca la descrizione di regni angelici illuminati dallo splendore divino, o i sistemi religiosi dell’Estremo Oriente, da cui proviene il concetto di “illuminazione”. Sebbene la luce della ragione illuminista sia terrena, ha tuttavia assunto un carattere stranamente trascendentale. Lo splendore celeste di un Dio del tutto impenetrabile si è secolarizzato nella banalità mostruosa del fine in sé capitalista, la cui “cabala” della materia terrena consiste nell’insensata accumulazione di valore economico. Questa non è ragione, ma la più alta follia, e ciò che vi riluce è il brillare di una assurdità che ferisce e acceca gli occhi.

 

Eredi dell’illuminismo

La ragione irrazionale dell’Illuminismo vuole mettere tutto in luce. Ma questa luce non è in alcun modo un semplice simbolo appartenente al mondo del pensiero, ha anche un reale significato socio-economico. Ed è proprio questo che è stato fatale al marxismo e al movimento operaio: essersi sentiti i veri eredi dell’Illuminismo e della sua metafora sociale della luce. Nell’“Internazionale”, l’inno del marxismo, si dice del meraviglioso futuro socialista, dove: “il sole splenderà per sempre”. Un caricaturista tedesco ha preso questa frase alla lettera, mostrando “l’impero della libertà” in cui i uomini sudati alzano la testa verso il sole e sospirano: “Sono tre anni che brilla e non ne vuole sapere di tramontare”.

Questa non è solo una battuta. In un certo senso, la modernizzazione ha effettivamente “trasformato la notte in giorno”. In Inghilterra, che come sappiamo ha fatto da apripista all’industrializzazione, l’illuminazione a gas è stata introdotta sin dall’inizio del XIX secolo e si è presto diffusa in tutta Europa. Alla fine del XIX secolo, la luce elettrica aveva già sostituito le lampade a gas. È stato da tempo dimostrato che, dal punto di vista medico, l’inversione del giorno e della notte, causata dalla luce fredda e soffusa dei “soli artificiali”, disturba il ritmo biologico degli esseri umani e provoca danni psichici e fisici. Perché, allora, l’enorme illuminazione planetaria che oggi ha conquistato ogni angolo della terra?

Karl Marx, egli stesso un erede dell’Illuminismo, aveva giustamente constatato come l’attivismo senza tregua del modo di produzione capitalistico fosse “smisurato”. Questa dismisura non può in linea di principio tollerare alcun tempo “oscuro”, poiché il tempo dell’oscurità è anche il tempo del riposo, della passività, della contemplazione. Il capitalismo esige invece l’estensione della sua attività fino agli estremi limiti fisici e biologici. Temporalmente, questi limiti sono determinati dalla rotazione della terra su se stessa, cioè dalle 24 ore del giorno astronomico, che ha una parte chiara (rivolta verso il sole) e una parte scura (nascosta rispetto al sole). La tendenza del capitalismo è quella di estendere la parte chiara alla giornata astronomica nella sua totalità. Il lato notturno interferisce con questa tendenza. La produzione, la circolazione e la distribuzione delle merci devono invece funzionare “24 ore su 24” perché “il tempo è denaro”. Il concetto di “lavoro astratto” nella moderna produzione di merci comprende quindi non solo il suo prolungamento temporale assoluto, ma anche la sua astrazione astronomica.

 

Una nuova misura per lo spazio e per il tempo

Questo processo è analogo al cambiamento delle misure spaziali. Il sistema metrico decimale fu introdotto dal regime della Rivoluzione francese nel 1795 e si diffuse tanto rapidamente quanto l’illuminazione a gas. Le misure spaziali orientate al corpo umano (piede, cubito, ecc.), tanto differenti e molteplici quanto le culture umane, furono sostituite dalla misura astratta astronomica del metro, che si suppone corrispondesse alla quarantamilionesima parte della circonferenza terrestre. Questa standardizzazione astratta della misura dello spazio corrispondeva alla visione meccanicistica del mondo della fisica newtoniana, che a sua volta divenne il modello per l’economia meccanicistica della moderna economia di mercato analizzata e promossa da Adam Smith (1723-1790), il fondatore dell’economia politica. L’immagine dell’universo e della natura come un'unica grande macchina ha coinciso con la macchina mondiale economica del capitale, e le misure astronomiche sono diventate la forma comune della macchina mondiale fisica ed economica. Questo vale non solo per lo spazio, ma anche per il tempo. Al metro astronomico, misura dello spazio astratto, corrisponde l’ora astronomica, misura del tempo astratto; e queste sono anche le misure della produzione capitalistica di merci.

Solo questo tempo astratto ha permesso di estendere la giornata del “lavoro astratto” alla notte e di erodere il tempo del riposo. Il tempo astratto ha potuto essere separato dalle cose e dalle circostanze concrete. La maggior parte delle antiche misurazioni del tempo, ad esempio le clessidre o gli orologi ad acqua, non mostravano “che ora è”, ma erano calibrate su processi concreti per mostrare la loro “durata”. Si potrebbero facilmente paragonare a un timer che suona quando un uovo è cotto. In questo caso la quantità di tempo non è astratta, ma orientata a una certa qualità. Il tempo astronomico del “lavoro astratto”, invece, è avulso da qualsiasi qualità. La differenza diventa chiara anche quando leggiamo, ad esempio nei documenti medievali, che l’orario di lavoro dei servi nelle grandi proprietà doveva durare “dall’alba a mezzogiorno”. Ciò significa che l’orario di lavoro non era solo più breve in termini assoluti rispetto a oggi, ma anche in termini relativi, in quanto variava a seconda della stagione ed era più breve in inverno che in estate. L’ora astronomica astratta, per contro, ha permesso di fissare l’inizio del lavoro “alle sei del mattino” indipendentemente dalla stagione e dai ritmi biologici.

 

Il tempo degli orologi

Ecco perché l’epoca del capitalismo è anche l’epoca delle “sveglie”, cioè degli orologi che strappano le persone dal sonno con un segnale acustico stridente per spingerle a raggiungere i “luoghi di lavoro” illuminati artificialmente. Una volta che l’inizio del lavoro è stato anticipato alla notte, anche la fine del lavoro può essere posticipata alla notte. Questo cambiamento ha anche un lato “estetico”. Come l’ambiente è in un certo senso “de-materializzato” dalla razionalità economica astratta dell’impresa, in quanto la materia e le sue interrelazioni devono sottostare ai criteri della redditività, così è anche de-dimensionato e de-proporzionato dalla stessa razionalità. Se gli edifici antichi ci sembrano in qualche modo più belli e accoglienti di quelli moderni, e se poi notiamo che allo stesso tempo sembrano in qualche modo irregolari rispetto agli edifici “funzionalisti” di oggi, è perché essi sono stati costruiti a misura di corpo umano e le loro forme sono spesso adattate al paesaggio. L’architettura moderna, per contro, utilizza misure spaziali astronomiche e forme “decontestualizzate”, “separate” dall’ambiente circostante. Altrettanto vale per il tempo. Anche l’architettura moderna del tempo è de-proporzionata e de-contestualizzata. Non solo lo spazio è diventato brutto, ma anche il tempo.

Durante il XVIII secolo e all’inizio del XIX il prolungamento sia assoluto che relativo del tempo di lavoro, grazie all’introduzione dell’ora astronomica astratta, era ancora percepito come una tortura. Per molto tempo le persone si sono disperatamente opposte contro il lavoro notturno, legato all’industrializzazione. Lavorare prima dell’alba e dopo il tramonto era considerato del tutto immorale. Durante il Medioevo, se gli artigiani, per ottemperare a delle scadenze, dovevano eccezionalmente lavorare di notte, andavano nutriti abbondantemente e remunerati come dei principi. Il lavoro notturno era una rara eccezione. È una delle “grandi” conquiste del capitalismo quella di essere riuscito a fare del tempo-tortura la misura normale dell’attività umana.

Tutto questo non è cambiato nemmeno con la riduzione dell’orario di lavoro assoluto dopo gli inizi del capitalismo. Al contrario, durante il XX secolo il lavoro a turni si è esteso sempre di più. Grazie al lavoro di due o anche tre turni, le macchine devono se possibile funzionare senza fermarsi mai, interrotte soltanto da brevi pause per la regolazione, la manutenzione e la pulizia. Anche gli orari di apertura di negozi e grandi magazzini devono avvicinarsi il più possibile al limite delle 24 ore. In molti Paesi, come negli Stati Uniti, non esistono orari di chiusura stabiliti per legge e su molti esercizi commerciali campeggia il pannello “aperto 24h/24””. Da quando la tecnologia di comunicazione microelettronica ha globalizzato i flussi finanziari, la giornata monetaria di un emisfero si prolunga direttamente in quella dell’altro. “I mercati finanziari non dormono mai”, recita la pubblicità di una banca giapponese.

 

Dormire meno?

La luce della ragione illuminista è l’illuminazione del turno di notte. Nella stessa misura in cui la competizione diventa totale, l’imperativo sociale esterno si muta anche per l’individuo in coercizione interiorizzata. Il sonno diventa un nemico tanto quanto la notte, poiché finché si dorme si perdono opportunità e si è esposti impotenti agli attacchi degli altri. Il sonno dell’uomo dell’economia mercantile diventa breve e leggero come quello di un animale selvatico, e lo è tanto più quanto più questo uomo vuole avere “successo”. Il tormento del lavoro di notte, meccanico ed oppressivo, appare a livello di management come una rinuncia “volontaria” al sonno. Esistono persino seminari di management in cui si possono praticare tecniche di minimizzazione del sonno. In tutta serietà, alcune scuole di self management affermano oggi: “L’uomo d’affari ideale non dorme mai”. Proprio come i mercati finanziari.

Ma la sottomissione degli esseri umani al “lavoro astratto” e alla sua misura astronomica del tempo non è possibile senza un controllo altrettanto totale. Questo controllo esige a sua volta una sorveglianza totale, che necessita della piena luce: un po’ come nel corso di un interrogatorio quando il poliziotto punta una lampada accecante sul volto del prigioniero. Non per niente la parola Aufklärung (illuminismo) ha in tedesco un secondo senso, e cioè “riconoscimento del nemico”. E una società in cui ognuno diventa nemico dell’altro e di se stesso, perché tutti devono servire lo stesso Dio secolarizzato del capitale, diventa per necessità logica un sistema di sorveglianza e di auto-sorveglianza totale.

In un universo meccanicistico, anche l’uomo deve essere una macchina ed essere trattato meccanicamente. La luce dell’Illuminismo lo ha preparato a questo e lo ha reso “trasparente”. Nel suo libro Sorvegliare e punire (1975), il filosofo Michel Foucault mostra come questa “visibilità” sia diventata una trappola storica. All’inizio del XIX secolo il capitalismo esercitava la sorveglianza totale attraverso una “pedagogia della casa di correzione”, inventata dal “filosofo utilitarista” liberale Jeremy Bentham (1748-1832), un sofisticato sistema di organizzazione, di punizione e persino di architettura che si applicava alle prigioni, alle fabbriche, agli uffici, agli ospedali, alle scuole e ai riformatori.

La sfera pubblica dell’economia di mercato non è una sfera di libera comunicazione, ma una sfera di sorveglianza e controllo, come nell’utopia negativa 1984 di George Orwell. Mentre nelle dittature totalitarie questo controllo e questa sorveglianza sono esterne ed esercitate dall’apparato burocratico statale e poliziesco, in democrazia è diventato un auto-controllo, interiorizzato e gestito dai media, all’interno del quale i riflettori dei campi di concentramento si sono trasformati nelle luci di un mostruoso luna park. Qui non si discute liberamente, ma si viene impietosamente illuminati. Nella democrazia commerciale, questo sistema è diventato così raffinato che gli individui obbediscono spontaneamente agli imperativi capitalistici e, come robot, seguono ciecamente la strada che è stata loro tracciata.

Il marxismo, contrariamente alle proprie aspirazioni sociali, integrando il pensiero meccanicistico illuminista e la sua perfida simbolica della luce, è diventato un protagonista del “lavoro astratto”. Tutto ciò che c’è di dispotico nel marxismo deriva dal liberalismo illuminista. In quanto ai Romantici, che volevano rendere giustizia al lato oscuro della verità, essi non sono stati i cantori dell’emancipazione sociale ma quelli della Reazione. Solo quando la notte, il sonno e il sogno saranno liberati da questa prigionia reazionaria, potranno diventare le parole d’ordine di una critica sociale emancipatrice. La resistenza al Mercato totale inizia forse dove le persone si prendono, radicalmente, il diritto di dormire sonni tranquilli.

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