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Ottimismo della ragione?

di Perry Anderson

cezanne1Almeno quattro letture dei tempi tra loro alternative – e ce ne potrebbero essere di più – offrono delle diagnosi sulle direzioni in cui il mondo si sta muovendo, e sono sostanzialmente ottimistiche. Tre di queste risalgono al periodo tra i primi e la metà degli anni novanta, ma sono state sviluppate ulteriormente dopo l’11 settembre. La più nota è, senza dubbio, la prospettiva che si può ritrovare in Impero di Negri ed Hardt, al quale tutte le altre tre fanno riferimento in maniera allo stesso tempo positiva e critica. Le facce del nazionalismo e l’imminente Nazioni globali di Tom Nairn fissano una seconda prospettiva, mentre una terza è costituita da Il lungo ventesimo secolo e da Adam Smith a Pechino di Giovanni Arrighi. I saggi recenti di Malcom Bull, culminati in ‘Stati di fallimento’, ne propongono una quarta. Ogni riflessione sul periodo attuale deve per forza prendere sul serio quelle che superficialmente potrebbero apparire delle letture contro-intuitive dei tempi.


I
La tesi di Tom Nairn dice più o meno così: il Marxismo è stato sempre basato su una distorsione del pensiero dello stesso Marx, che si era formato nelle lotte democratiche della Renania negli anni attorno al 1840. Per cui, mentre Marx assumeva che il socialismo sarebbe stato possibile nel lungo periodo, solamente quando il capitalismo avesse terminato la sua opera, quella di porre in essere un mercato mondiale, l’impazienza sia delle masse che degli intellettuali ha portato alle fatali scorciatoie intraprese da Lenin e Mao, sostituendo alla democrazia e alla crescita economica il potere statale.

Il risultato è stata una deviazione del fiume della storia del mondo verso le paludi di un medio-evo moderno. Tuttavia, il collasso del comunismo sovietico nel 1989 ha ora permesso a questo fiume di scorrere di nuovo verso il suo delta naturale – la globalizzazione contemporanea. Perché il significato profondo della globalizzazione è la generalizzazione della democrazia ad ogni parte del mondo, realizzando in ultima istanza i sogni del 1848, infrantisi durante la vita di Marx. Marx stesso, tuttavia, fece un errore cruciale nel pensare che la classe, nella forma del proletariato, sarebbe stata la portatrice dell’emancipazione dalla storia. Nei fatti, come aveva già mostrato l’esempio europeo nel 1848 e come avrebbe poi confermato l’intero ventesimo secolo, sono state le nazioni, e non le classi, a diventare le forze motrici della storia e le portatrici delle rivoluzioni democratiche per le quali aveva combattuto.

Tuttavia, così come il Marx-ismo avrebbe portato alla costruzione di una falsa democrazia, allo stesso modo anche la nazionalità è stata a tempo debito confiscata dal nazional-ismo – ovverosia dalle grandi potenze imperialiste – nel periodo dopo la guerra civile americana e la guerra franco-prussiana. Nella seconda metà del ventesimo secolo, tuttavia, la decolonizzazione del Terzo Mondo e la decomunistizzazione del Secondo potenzialmente permettono alle nazioni senza nazionalismo di formarsene uno proprio – l’unico quadro possibile per ‘la generalizzazione e l’approfondimento della democrazia come la precondizione di qualsiasi forma sociale l’oceano aperto davanti possa rendere attuabile’. Dopo l’11 settembre, un rinnovato nazionalismo Americano da grande potenza e l’economania neo-liberale hanno temporaneamente dirottato lo slancio progressista della globalizzazione. Tuttavia, questo non ci spingerà verso alcuna uniformità di mercato. La sua logica più profonda prevede, al contrario, per essere umanamente sostenibile, una diversità di nazioni democratiche, come una necessità antropologica – a scapito di una perdita di confini incompatibile con ogni tipo di identità. Nessuna omogeneità culturale o sociale ci attende alla supposta fine della storia. ‘Siamo ancora in mezzo alle rapide della modernità’.

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Hardt e Negri concordano che la globalizzazione sia essenzialmente un processo di emancipazione, ma giungono ad un verdetto diametralmente opposto sul ruolo delle nazioni all’interno di essa. La loro storia comincia molto prima, nel XVI° secolo, quando lo spirito liberatore del Rinascimento venne schiacciato da una controrivoluzione Barocca che fece dell’assolutismo la forma che diede origine alla sovranità moderna. Ereditato essenzialmente inalterato dagli stati-nazione dell’epoca industriale, è il superamento di questo lascito con la dissoluzione degli stati nazione stessi in un singolo ed uniforme ‘Impero’ che segna l’alba di una nuova era di libertà ed uguaglianza. Il punto di svolta, in questo caso, non viene identificato con la caduta del comunismo nel 1989 – appena citata – ma nella decade 1968-1978, quando la vittoria anti-imperialista in Vietnam e le rivolte di lavoratori, disoccupati e studenti in Occidente hanno forzato una riconfigurazione del capitalismo nella sua forma contemporanea universale. Con l’avvento dell’Impero universale, anche le classi – così come le nazioni – sono scomparse, dal momento che il capitale genera il lavoro sempre più ‘immateriale’ di una singola, e non meno universale, moltitudine. I giorni della liberazione nazionale, della classe operaia, delle avanguardie rivoluzionarie, sono finiti. Ma così come l’Impero è stato creato dalla resistenza dal basso, allo stesso modo cadrà sotto l’opera di tali resistenze, dal momento che reti spontanee che si oppongono ad esso proliferano in tutto il mondo. Dalla spirale di azioni di questa moltitudine – manifestazioni, migrazioni ed insurrezioni – guidata da un desiderio biopolitico comune di pace e democrazia, fiorirà un mondo post-liberale, post-socialista. Senza le mistificazioni di sovranità o rappresentanza, per la prima volta tutti governeranno in libertà ed uguaglianza. Potrebbe accadere in ogni momento. ‘Il tempo odierno è diviso tra un presente che è già morto ed un futuro che sta già vivendo – e l’abisso spalancato tra di loro è divenuto enorme. Al momento giusto, un evento ci spingerà come una freccia verso quel futuro vivente’.

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Anche il racconto di Arrighi inizia nel Rinascimento, anche se con l’ascesa dei banchieri genovesi nel XIV° secolo piuttosto che con l’assolutismo spagnolo del XVI°. La sua forma è ciclica. L’espansione capitalistica è sempre materiale, all’inizio – un investimento nella produzione di merci e la conquista dei mercati. Tuttavia, quando la concorrenza spinta fa diminuire i profitti, si ha una deviazione verso l’espansione finanziaria – investimenti in speculazioni ed intermediazioni – come via d’uscita. Quando a sua volta anche questo esaurisce la sua spinta, segue un ‘tempo di caos sistemico’, in cui i capitali territoriali rivali si combattono all’ultimo sangue, attraverso i rispettivi stati, sui campi di battaglia militari. Alla fine di queste guerre, lo stato che emerge vittorioso stabilisce un’egemonia sistemica che permette ad un nuovo ciclo di espansione di ricominciare. Tale egemonia coinvolge tipicamente un nuovo modello di produzione, che combina capitalismo e territorialismo in maniere senza precedenti, capace di persuadere tutti gli altri stati che il potere egemonico è ‘la forza motrice di un’espansione generale del potere di tutte le classi dominanti sui loro sottoposti’, e facente affidamento su un blocco sociale più ampio. Dalla guerra dei Trent’Anni si sviluppò l’egemonia olandese (finanza globale più monopolio del commercio); dalle guerre napoleoniche, l’egemonia britannica (finanza globale, predominio del libero scambio, primi sistemi di fabbrica); dalle due guerre mondiali l’egemonia americana (finanza globale, libero scambio e le corporazioni industriali). E oggi? Come Hardt e Negri, Arrighi vede le rivolte anti-imperialiste ed operaie degli anni sessanta e settanta come il punto di svolta moderno che ha messo fine al ciclo di espansione materiale post-bellica, forzando il capitalismo ad una fuite en avant post-bellica. Questo ciclo si sta a sua volta esaurendo, ora che l’egemonia americana entra in crisi mortale in Iraq. E dopo? La forza lavoro mondiale sta guadagnando stabilmente forza, ma il grande sviluppo è l’ascesa dell’Asia dell’Est. Nei primi anni novanta, focalizzandosi sul Giappone, Arrighi riteneva ci fossero tre futuri possibili per l’umanità: un impero mondiale – una riaffermazione finale del controllo imperiale degli Stati Uniti sul mondo; una società di mercato mondiale, nella quale un Asia orientale capitanata dal Giappone avrebbe a tal punto controbilanciato gli Stati Uniti che nessuno stato singolo sarebbe mai stato in seguito più in grado di esercitare egemonia; oppure una caduta in uno stato di warfare generalizzato, con un periodo terminale di caos sistemico capace di distruggere il pianeta. Un decennio più tardi, in seguito alla sempre maggiore ascesa della Cina, l’autore ha eliminato il primo scenario, lasciando solamente l’auspicabile secondo e – ma in misura sempre minore – il catastrofico terzo. L’emergere di una società di mercato mondiale, predetta molto tempo fa da Adam Smith. Significherebbe la fine del capitalismo, dal momento che il nesso tra lo stato e la finanza, sorta dalla rivalità tra stati che la definisce, verrebbe a scomparire; e l’arrivo di quel livellamento delle ricchezze tra i popoli della terra, da troppo tempo atteso, che egli preconizzava.

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La storia di Bull, al contrario, inizia nel XVII° secolo, con le prime indicazioni di un’involontaria intelligenza collettiva, come qualcosa di distinto da una volontà collettiva conscia, nel pensiero politico di Spinoza. Passando attraverso Mandeville direttamente a Smith, come la mano invisibile del mercato, e a Stewart, come l’origine naturale del governo, questa tradizione alla fine ha dato corpo alla teoria generale dell’ordine spontaneo di Hayek – forse la più potente di tutte le legittimazioni del capitalismo. Oggi, si è riaffacciata nella teoria dell’”intelligenza dello sciame” della moltitudine di Hardt e Negri, contrapposta allo stato che, a partire da Rousseau, in apparenza incarna la sovranità popolare. Tuttavia, la dicotomia cui Hardt e Negri ritornano è in effetti un’espressione dell’impasse dell’agire contemporaneo, che si trova in stallo tra le pressione del mercato globalizzante e le reazioni populiste di difesa nei confronti di quest’ultimo.

Ai suoi tempi, suggerisce Bull, Hegel offrì una risoluzione di quest’antinomia. In quanto La filosofia del diritto costruisce un passaggio dall’intelligenza spontanea della società civile – il mercato così come teorizzato dall’economia politica scozzese – alla volontà disciplinata di uno stato liberale. Smantellata agli inizi del ventesimo secolo da avversari da destra a sinistra, questa è l’eredità, della cui metamorfosi si ha bisogno. Poiché ciò che è accaduto nel frattempo è la disintegrazione dello stato globale, le cui sovrapponibili incarnazioni sono stati gli imperi europeo, sovietico ed americano: prima la decolonizzazione, poi la decomunistizzazione ed ora, visibilmente, il declino dell’egemonia americana. Significa questo forse l’inarrestabile liberazione di una società di mercato globale: l’intelligenza collettiva privata di ogni volontà collettiva? Non necessariamente. L’entropia dello stato globale potrebbe liberare, al contrario, strutture dissipative in grado di invertire la formula hegeliana: non sussumendo la società civile nello stato ma – in direzione opposta – ricostituendo la società civile su una base potenzialmente non di mercato, in seguito alla dissoluzione dello stato, così come un tempo immaginato da Marx e Gramsci.

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Queste costruzioni formano una serie di imprese immaginative che cercano di guardare oltre i principali epifenomeni della periodo seguendo una logica a lungo termine dei cambiamenti storico-mondiali che stiamo vivendo. Per quanto remoti dalla patina degli eventi attuali l’uno o l’altro di questi possano sembrare, ciascuno può indicare tratti salienti empirici del periodo come prova per il proprio caso. La democrazia rappresentativa si è diffusa nel mondo a partire dai tardi anni ottanta, dall’Est Europa all’Asia orientale ed al Sudafrica, senza evidenti interruzioni o rovesciamenti; sono nati nuovi stati nazione dal Caucaso al Pacifico, e non è stata inventata alcuna nuova forma di democrazia che li possa eccedere. Reti popolari si sono unite (alleate) senza una direzione centrale a Seattle o a Genova. Le quote americane del commercio e delle esportazioni mondiali sono in declino. La Cina – e l’Asia dell’Est in generale – verosimilmente diventeranno il baricentro dell’economia globale entro pochi decenni. Le reazioni populiste sono state infatti, almeno per ora, la risposta principale all’espansione del mercato globalizzante.

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Parlando dal punto di vista intellettuale, tutte le quattro versioni prendono come punti di partenza dei pensatori vissuti prima dell’emergere del socialismo moderno: Spinoza per Negri, Smith per Arrighi, Hegel per Bull e Marx prima di Marx (il giovane democratico renano, prima della scrittura del Manifesto) per Nairn. Tutti hanno un retroterra italiano ma allo stesso tempo potrebbero in qualche misura affermare con Negri: ‘Ho risciacquato i miei panni nella Senna’. Questo è più evidente nel caso di Negri ed Hardt, la maggior parte del cui vocabolario – l’Impero piano; il nomade; il biopotere – derivano direttamente da Deleuze o Foucault. Ma vale allo stesso modo per Arrighi, la cui visione del capitalismo dipende in maniera fondamentale da Braudel. Per Nairn, è stato Emmanuel Todd che ha scandagliato in maniera più audace, sebbene in qualche modo anche più folle, le premesse antropologiche della modernità. L’ultimo pensatore citato da Bull, e dal punto di vista del ragionamento più vicino alle sue conclusioni, è Sartre. Dal punto di vista politico, tutte e quattro le versioni concordano nel dire che la globalizzazione vada accolta, è che ci ha già portato i primi o gli ultimi rantoli dell’egemonia americana.

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La principale linea di divisione tra le differenti versioni va ricercata lungo l’asse dello stato. Per Hardt e Negri, Arrighi e Bull, è l’estinzione dello stato – nazionale in primo luogo; egemonico in secondo; e globale in terzo – che porta a termine l’eclissi del capitale. Per Nairn, invece, è l’opposto: solo la piena emancipazione dello stato nazione può universalizzare la democrazia, ed assicurare la diversità culturale necessaria per l’invenzione di nuove forme sociali, ancora da immaginare, oltre l’ordine neo-liberale.

Le domande che andrebbero poste a ciascuna di queste costruzioni sono abbastanza chiare. Nairn: la democrazia potrebbe estendersi da ogni parte del mondo, ma non è che così facendo essa diventa sempre più sottile, non per caso ma proprio come condizione di questa sua estensione? Sono nati nuovi stati nazione, ma quasi tutti i nuovi arrivati sono deboli o marginali. I confini di un qualche tipo possono essere un a priori antropologico, ma allora perché questi dovrebbero essere nazionali, piuttosto che civilizzazionali, regionali, cantonali o altro ancora? Hardt e Negri: è la moltitudine qualcosa di più che una figura teologica, così come il suo promesso ‘esodo’ implica, e l’’evento’ che installerà la democrazia universale al posto dell’impero non soltanto un qualcosa di miracoloso? Arrighi: l’impero mondiale o la società di mercato mondiale potrebbero rappresentare la fine del capitalismo solo se la definizione di quest’ultimo data da Braudel come niente di più che la sfera dell’alta finanza – non del commercio o della produzione – generata dalla rivalità tra gli stati, avesse un senso. Ma ce l’ha? E si dà veramente il caso che l’insorgenza della forza lavoro mondiale sia in aumento a partire dagli anni ottanta? Bull: un impasse tra il mercato globalizzante e le reazioni populiste ad esso implica che i due abbiano un peso equivalente e che nessuno avanzi a spese dell’altro: è questo ciò che suggeriscono gli ultimi vent’anni? Se la versione attuale dello stato globale (l’egemonia americana) si sta dissolvendo chi dice che non debba dar origine al mosaico di poteri dei mercati regionali, delimitati da spazi civilizzazionali, alla Huntington, piuttosto che una società civile globale, di mercato o no?

Ma questi sono punti di vista di riferimento per la discussione sul futuro. Eventuali argomenti contro di essi richiedono uno spessore equivalente.

sez. IV dell’articolo di Perry Anderson Optimism of the intelligence, editoriale della New Left Review, numero 48, novembre-dicembre 2007.

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