Print Friendly, PDF & Email
 posse

Career opportunities

Dal lavoro sans phrase alla flessibilità

di Augusto Illuminati


este 548181 50000L’Introduzione del 1857 ai Grundrisse, senza esaurire la metodologia marxiana e la dibattuta questione dei rapporti fra Grundrisse e Capitale, ha offerto una sponda a notori dibattiti. La riapertura del discorso si giustifica solo introducendo nuovi termini valutativi, quali la rilevanza postfordista del lavoro intermittente e l’esigenza di una traducibilità reciproca dei vari livelli di scontro in cui si è frammentata la lotta di classe.

Sembra corretto cominciare con il reale e il concreto, con l’effettivo presupposto; quindi, per es., nell’economia, con la popolazione, che è la base e il soggetto dell’intero atto sociale di produzione. Ma, a un più attento esame, ciò si rivela falso .

La popolazione è un’astrazione se si trascurano le classi, di cui si compone e che, a loro volta, sono una vuota espressione a prescindere dagli elementi su cui si basano (lavoro salariato, capitale, scambio, divisione del lavoro, prezzi, ecc. Chiariti i quali si può tornare alla popolazione, ma stavolta non come rappresentazione caotica di un Tutto, piuttosto come una totalità ricca di molte determinazioni e rapporti. Fin qui è buon senso metodologico, contro economisti e sociologi pasticcioni. Da questo punto in poi le cose si fanno più complicate.

Ma queste categorie semplici non hanno anche un’esistenza storica e naturale indipendente, prima delle categorie più concrete? Ça dépend.

L’avvio della terza sezione dell’Introduzione del 1857 pone il concreto quale sintesi di molte determinazioni, unità del molteplice, risultato e non punto di partenza, se non per l’intuizione e la rappresentazione. Il processo logico e quello storico si differenziano non obbligatoriamente come in Della Volpe in modo biunivoco e speculare, che (a parte lo schiacciamento della conoscenza sul reale) troppo accentuerebbe nel risultato il momento della genesi e del divenire, piuttosto nel senso che la gerarchia dei concetti nella loro combinazione pone la definizione di ogni concetto in funzione del suo posto nel sistema e altresì l’ordine diacronico della loro apparizione nel discorso della dimostrazione.

Decide la Gliederung, la combinazione gerarchizzante, che fissa di volta in volta la determinazione in ultima istanza, e la cui successione –non lo scorrere omogeneo del tempo– costruisce la storia quale insieme di storie, di temporalità plurali. La totalità, nesso e unità delle differenze, implica, secondo Antonio Negri , una discontinuità materialistica dei processi reali. Il momento dialettico funge da evidenziatore della potenzialità di una scissione fra le componenti e conferisce all’astrazione un tono dinamico e tendenziale, che dà subito rilievo all’antagonismo . Al contrario prendere sul serio le categorie più semplici nella loro trascendenza sovrastorica o immediatezza operativa significa far apologia dell’esistente e ridurre il modo di produzione a lotta della società umana con la natura, variante storicizzata dell’eterno ricambio organico. Sui rapporti non ovvii fra antagonismo e soggettività torneremo in seguito, mostrando come soggettività e soggetti non collimino perfettamente, anzi il rifiuto del soggetto apra la possibilità di un’autentica soggettività, di un’animosa disobbedienza.

Vediamo ora come si forma una categoria astratta che agisce in maniera concretissima, ultra-potente, proprio perché sintesi affatto “innaturale” da un punto di vista fissista, ma “naturale” secondo l’evoluzione storica propria della fitness umana, che non è adattiva, non si conforma a una nicchia ecologica. Negazione e astrazione sono strumenti assai efficienti per operare modifiche ambientali e costruire una seconda natura, o meglio una natura congruente alla specifica plasmabilità cui gli uomini sono pervenuti per via evolutiva e storica, automatizzando per esonero molte prestazioni istintuali. Il concreto-empirico, in tale accezione, è parecchio più astratto dell’astratto.

L’indifferenza verso un genere determinato di lavoro presuppone una totalità molto sviluppata di generi reali di lavoro, nessuno dei quali domini più sull’insieme. Così, le astrazioni più generali sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo concreto, dove una sola caratteristica appare comune a un gran numero, a una totalità di elementi. Allora, essa cessa di poter essere pensata soltanto in una forma particolare .

Esiste un mercato dove i diversi tipi di lavoro si confrontano pareggiandosi, c’è insomma un lavoro medio misurato in tempo comune, secondo proporzioni aritmetiche e non analogiche. Lo scarto dalla particolarità del lavoro concreto e del valore d’uso misura la distanza fra il mondo degli uomini (al plurale) e l’ambiente o mondo ambientale (Um-welt) della specie animale. Il mondo resta anche un ambiente –non è il luogo di un confronto privilegiato fra Uomo al singolare ed Essere–, ma la successione degli habitat, degli adattamenti per esonero, fa tutt’uno con l’effetto antropologico dei rapporti di produzione che ordinano mediamente le società umane. Rapporti oggettivi, processi senza soggetto però soggettivanti, che istituiscono illusioni giuridiche di personalità ed effettive individuazioni, non rapporti intersoggettivi che facciano dialogare entità precostituite producendo così “mondo”. La differenza fra mondo e ambiente, fra uomini e animali, è di grado non di qualità. Non si danno scarti ontologici. Mente, linguaggio, soggettività sono forme naturali e ogni mondo si restringe ad ambiente per routine, mentre ogni ambiente si slarga a mondo per innovazione. Si tratta allora di un processo sociale, non mentale , è un’astrazione presente e produttiva nella realtà pratica di ogni giorno, non nella sfera delle idee o delle metodologie classificatorie:

"d’altra parte, questa astrazione del lavoro in generale non è solo il risultato mentale di una concreta totalità di lavori. L’indifferenza verso il lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro a un altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente".

Si chiarisce adesso il significato più profondo della celebre espressione “salire dall’astratto al concreto”, che tanto intriga chi ne fa un problema solo epistemologico. Il fattore astratto costruisce realtà. Tanto poco è un’astrazione mentale, che anzi è proprio la concretezza del lavoro a darsi per frutto di una riflessione, dal momento che il lavoro nei Grundrisse appare come immediatamente astratto e proprio in quanto tale da subito connesso all’antagonismo e alla crisi . Il livellamento è un’approssimazione probabilistica. Ma implica pure il prendersela non più di tanto, la disaffezione al lavoro. L’estremo dell’indifferenza verso il lavoro determinato è il rifiuto del medesimo in generale, occorrenza immanente e contrastante a ogni riuscito incontro fra capitale e forza-lavoro. Se esso è garantito in anticipo abbiamo un sistema schiavile, che peraltro l’accumulazione originaria non disdegna inizialmente di utilizzare a fianco di nuovi metodi di estrazione del plusvalore, più promettenti ma ancora sperimentali. Anche successivamente il vortice del lavoro astratto risucchia quello a domicilio «reparto esterno della fabbrica o della manifattura», secondo Capitale I cap. 13, o le maquillas o gli schiavi bambini, appropriandosi di meccanismi ben rafforzati dalla povertà, dalla famiglia patriarcale, dal crimine organizzato, dal ricatto della condizione migrante . Sintomatico del connubio fra illegalità e sussunzione formale è l’ulteriore diffusione di quella delinquenza il cui tratto caratteristico non è la vittimizzazione di altri ma il complice consenso dei coinvolti fino ad esserne “clienti”: dalla prostituzione, spaccio di alcolici e gioco d’azzardo del proibizionismo fordista, al traffico di droghe, immmigrazione clandestina e “protezione” commerciale di ambito postfordista. Va da sé che si instauri un autentico paradiso dell’evasione fiscale. Abbiamo in atto la «policroma confusione di forme di transizione», di cui al citato capitolo del Capitale. L’instabilità, pur assai produttiva, della sussunzione reale moltiplica il rassicurante ricorso alla sussunzione formale, che adopera i rapporti vigenti di subordinazione e si avvale della moltiplicazione delle divisioni fra regimi di lavoro e di ammissione graduata alla cittadinanza.

Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare la ricchezza in generale e, come determinazione, essa ha cessato di concrescere (verwachsen zu sein), con gli individui in una dimensione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella forma d’esistenza più moderna delle società borghesi –gli Stati Uniti. Qui, dunque, l’astrazione della categoria “lavoro“, il “lavoro in generale”, il “lavoro sans phrase”, che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera. Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, si presenta tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società più moderna.

Lo stadio più recente –la combinazione per cui l’aleatorietà del rapporto salariale fa presa proprio grazie all’aleatorietà della prestazione– produce la verità pratica, l’effettualità potente dell’astrazione. La produce come sfruttamento e incremento vertiginoso della produttività. Per la prima volta un astratto irrompe nella pratica con tale forza smisurata –a meno di non collegare, seguendo Sohn-Rethel, le origini del razionalismo greco al sorgere di un’economia monetaria nei secoli VII-VI a.C .

Si potrebbe dire ciò che negli Stati Uniti si presenta come un prodotto storico –questa indifferenza verso il lavoro determinato–, nei russi per es. si presenta come una disposizione naturale (naturwüchsige Anlage). Ma, prima di tutto, c’è una maledetta differenza se dei barbari hanno disposizione a essere utilizzati per tutto, o se degli esseri inciviliti si applicano essi stessi a tutto. E poi, presso i russi, a questa indifferenza verso il carattere determinato del lavoro corrisponde praticamente il fatto che essi sono tradizionalmente legati a un lavoro del tutto determinato dal quale vengono strappati solo a opera di influenze esterne.

Senza cioè l’iniziativa individuale degli yankees . Casualità e mobilità assumono significati molti diversi in congiunture diverse. Ovvero ci sono molte “naturalità” per la medesima disposizione. Marx aveva forse un concetto troppo irreversibile di civilizzazione. L’operaio meridionale dai mille mestieri, che fu il serbatoio dell’operaio-massa fordista nei nostri anni Cinquanta e Sessanta, era anch’esso una forma di indifferenza “barbara” verso il lavoro determinato, pagano (versus il cristianesimo sindacal-produttivista) nella sua subordinazione iniziale e nel successivo rifiuto del lavoro. In ogni caso le migrazioni riversano ogni giorno nei paesi “civilizzati” masse “allo stato di natura” in grado di adeguarsi rapidamente al lavoro astratto e ai servizi concreti che lo integrano. Indifferenziazione barbara, parcellizzazione spinta del lavoro e nomadismo della Frontiera (con alti salari e stragi di bisonti e indigeni) e poi? Cambia oggi l’equivalente del lavoro sans phrase che è quello precario? Ça dépend, appunto. Due sono le novità: la tipologia delle attività e gli effetti sulla composizione di classe.

1) Il legame fra particolarità corporea e lavoro concreto, il fatto che il secondo concresca sul primo, come l’edera sul tronco, non scompare completamente per il fatto che contribuisce a creare la ricchezza in generale in dimensioni incomparabili a una comunità fondata sull’autoconsumo. In un settore sempre più rilevante per l’occupazione e l’equilibrio sociale si diffondono modalità di servizio personale (“badanti” di ogni tipo, addetti a relazioni esterne, promotori e ruffiani assortiti, prestatori di servizi morali e sessuali, ecc.) per cui la qualità dell’erogatore, resta decisiva. Il limite funziona, in ambito mutato, tanto da diventare decisivo per il successo o il rifiuto della prestazione. Il servizio di cura è assai personalizzato, mobilita affetti e capacità illusionistiche, si invischia in reciprocità che rendono più complicato voice ed exit, protesta e defezione. Non per caso i maggiori successi della protesta sono legati a un’estetica e a una simbologia mediatica ben diverse dal consueto rivendicazionismo sindacale.

2) Il lavoro sans phrase e il materiale umano yankee producono in epoca fordista, quando la catena di montaggio offre il massimo di intercambiabilità, il più tipico e generalizzabile effetto di produzione di masse disciplinate, mentre quello flessibile, che ne è sviluppo e superamento (più adattabile alla domanda e meno pagato), suscita moltitudini disperse: più singolarizzate e meno sindacalizzate. I due aspetti moltitudinari sono complementari, ma nel primo è implicito un elemento eccedente ed esodante, nel secondo la de-massificazione è tutta strumentale all’estorsione di plusvalore e alla riduzione della spesa sociale, fino a un regime di workfare.

L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide–proprio a causa della loro astrazione– per tutte le epoche, sono tuttavia, nella determinatezza stessa di questa astrazione, altrettanto il prodotto di relazioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste relazioni.

La società borghese, il più complesso dispositivo storico del produrre, consente così, grazie all’autocomprensione della propria struttura, la comprensione di quelle precedenti, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita conservandone parzialmente i residui non sviluppati e i germi ora completamente dispiegati. La disposizione, gioca ruoli molto diversi nell’evolversi della struttura combinata e combinante, fino a riproporsi con un aspetto “naturale”, nella badante eritrea e nel garagista cingalese dopo l’operaio fordista di Detroit o Torino, ma come figura post-moderna più che pre-moderna! Lo stesso si dica per quella prefigurazione dell’intermittente che è il lavoratore stagionale. Tutti i Trümmer vengono riciclati., Ancor più che la famosa frase sull’anatomia dell’uomo che spiega quella della scimmia, vale qui l’osservazione che in ogni forma di società vi è una determinata produzione che decide del rango e dell’influenza di ogni altra e i cui rapporti decidono perciò del rango e dell’influenza di ogni altra, la metaforica illuminazione generale, in cui tutti i colori sono immersi e modificati nella loro particolarità, un’atmosfera speciale che decide il peso specifico di quanto essa avvolge. Il cambiamento della disposizione degli componenti della struttura altera ognuno di essi e il loro rapporto complessivo, producendo una dislocazione dinamica delle forze e una loro mutata rappresentazione.

Il lavoro sans phrase è materialmente connesso alla sussunzione reale sotto il regime capitalistico, all’estorsione di plusvalore relativo, alla fissazione di uno standard medio necessario. Inoltre si riferisce a situazioni in cui esso è produttivo di plusvalore, non mobilitato in qualsiasi scambio della circolazione semplice o del consumo . E’ lo stadio più evoluto di socializzazione, dato che «la mutua e generale dipendenza degli individui reciprocamente indifferenti costituisce il loro nesso sociale, contenendo inoltre già tutta la fenomenologia simmeliana del denaro, del relativismo e della prostituzione . Rappresenta un progresso rispetto a condizioni medievali di dipendenza personale, estingue la comunità organica pertinente a relazioni non sviluppate cui è ridicolo rivolgersi con nostalgia come a una pienezza originaria, sostituisce la dipendenza personale con quella da astrazioni, che sintetizzano teoreticamente i rapporti materiali che li dominano . Idealmente ha per rovescio l’onnilateralità dei passaggi più visionari dei Grundrisse , la coltivazione delle qualità dell’uomo ricco di bisogni e relazioni, la cui universalità urta proprio contro la barriera del capitale e se ne svincola quando l’operaio è mero sorvegliante delle macchine e il prodotto cessa di essere quello del lavoro immediato, isolato, ed è invece la combinazione delle attività collettive ad assumere la veste di produttore. Ancora: cancellata la limitata forma borghese, la ricchezza altro non è se non l’universalità dei bisogni e dei godimenti creata nello scambio universale, l’uomo che non si riproduce in una dimensione determinata, ma produce la propria totalità. Lo svuotamento completo, l’universale oggettivazione come alienazione integrale, si capovolge in completo estrinsecarsi della natura interna dell’uomo. Con lampante abbondanza di echi umanistico-feuerbachiani e di metafisici raddrizzamenti della dialettica a testa in giù, un’orgia di pienezza, per dirla con Negri, di solito più indulgente con le tematiche della transizione ma che ora riprende fedelmente la feroce critica althusseriana.

Il salto fra medietà del lavoro indifferente e universalismo comunista è troppo brusco e dialettico, nonché sottilmente ancorato allo sviluppo delle forze produttive. Meglio segnare il primo passo e scrutare quali tendenze se ne sviluppano. Dunque, contro il lavoro oggettivato in questa o quella merce fornita di valore di scambio, il lavoro non-oggettivato, ancora da oggettivare è la soggettività , assolutamente indifferente a ogni particolare determinatezza ma capace di ogni determinatezza, energia puramente meccanica ma sorgente di ogni tipologia di beni. Tale lavoro non-oggettivato è, in negativo, non-capitale, non-materia prima, non-strumento, non-prodotto grezzo, lavoro vivo quale astrazione da ogni momento della sua effettiva realtà, dunque non-valore, miseria assoluta come oggetto, possibilità generale della ricchezza come soggetto e attività, non privazione ma completa esclusione dalla ricchezza oggettiva, cui non può accedere fin quando non percepisce un salario. Lavoro non come oggetto ma come attività, non valore ma sua sorgente viva –per la stessa posizione contraddittoria del lavoro, esistenza antitetica del capitale che lo presuppone e ne è presupposto. Attività “puramente astratta”, a scelta semplicemente formale o materiale, indifferente alla forma –ciò che conferma l’assunto dell’Introduzione del 1857, per cui la particolare determinatezza di un modo di produzione diviene vera solo a un certo livello di sviluppo delle forze produttive industriali.

Tutto ruota intorno al perno della separazione della proprietà dal lavoro, che regge l’intero processo capitalistico, in base all’antagonismo e non alla dialettica , e si manifesta piuttosto nel gioco aristotelico di potenza e atto, spiegando molto bene l’emergenza del lavoro astratto, intercambiabile (pertanto dequalificato e pagato al minimo), solo umanisticamente alludendo al comunismo. La potenza, appunto, non è difettività, ma un ancora non passato all’atto, un ancora da oggettivare, che è stato preliminarmente separato dalla ricchezza sedimentata e appropriata. Soggettività dissidente e rivoltosa, specie nei Grundrisse, ma non pienezza neoplatonica o deleuziana, perché sta in tensione con il capitale, non ci starà forse in eterno ma per il momento deve azzeccare o fallire l’incontro con esso, la “messa al lavoro”. Nel sistema delle macchine, analizzato in uno dei più citati passaggi dei Grundrisse , il singolo è produttivo soltanto se inserito nel collettivo subordinato alla macchina e la creazione del valore non dipende più dal tempo e dalla quantità di lavoro impiegato bensì dalla potenza degli agenti messi in moto, dalla loro powerful effectiveness, in pratica dallo stato della scienza applicata nella tecnica. Lo sviluppo dell’individuo sociale, passato attraverso l’astrazione reale, il lavoro sans phrase, è il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza e il valore di scambio cessa di essere la misura del valore d’uso. Quando la produzione passa sotto il controllo del general intellect e il sapere, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, sono date le premesse per il comunismo. L’individuo può allora sviluppare insieme le capacità atte a produrre e a godere, il talento individuale e la produttività, usare il tempo libero per l’ozio e per attività superiori ed è proprio attraverso questo passaggio che rientra nel processo di produzione immediato come un soggetto diverso, disciplinato e sperimentale, scientifico-universale e relazionale, regolatore delle forze naturali. Gli individui si riproducono come singoli, ma singoli sociali, tanto sotto padrone che quando le macchine, continuando a essere agenti della produzione sociale, diventeranno proprietà degli operai associati . Notoria è la piegatura scientista e positivista di tal genere di passi.

Negli appunti del 1861-1863 siffatta tematica viene ripresa con qualche interessante variante. Per esempio alla pura capacità di lavoro si attribuisce quale unica oggettività la corporeità, mentre si conferma al lavoro vivo separato, non materializzato, il carattere di creatore di ricchezza in quanto soggettività e attività. Il termine usato più tardi sarà dispendio o erogazione di forza-lavoro. Nella fabbrica moderna –l’intuizione dei Grundrisse è sviluppata nel cosiddetto I libro, VI capitolo del Capitale, risalente al 1863-1866– al culmine della sottomissione reale e quindi del modo specifico capitalistico il vero funzionario del processo lavorativo totale non è il singolo ma una forza-lavoro sempre più combinata o lavoratore collettivo (dal manovale all’ingegnere) che raggruppa un numero crescente di ruoli nel concetto immediato di lavoro produttivo, rendendo indifferente il contributo del singolo e la minore o maggiore vicinanza alla manualità. Per lavorare produttivamente (aveva osservato Marx nel cap. 14 del Capitale I), non è più necessario por mano di persona all’opera, è sufficiente essere organo del lavoratore complessivo e compiere una qualsiasi delle sue funzioni subordinate. Allo stesso tempo Marx continua a tenere fuori polemicamente dalla cerchia produttiva tutti i servizi in cui il lavoro è consumato per il suo valore d’uso e scambiato contro denaro come reddito, quindi non valorizza il capitale (l’impiego improduttivo di una parte sempre maggiore della classe operaia è anzi ricondotto, in Capitale I cap. 13, allo straordinario aumento della forza produttiva nella grande industria meccanizzata), mentre vengono giudicate residuali o comunque insignificanti tutte le situazioni in cui il prodotto è inseparabile dall’atto del produrre: artisti esecutori, attori, insegnanti, medici, preti, ecc. Va però detto –e lo confermano le numerose oscillazioni marxiane, per esempio la finale riassunzione dei trasporti nell’ambito produttivo– che la produttività non è mai percepibile nel rapporto fra due persone ma dipende dal tessuto sociale, dalla circostanziata combinazione dei componenti della struttura. In pratica, la svalutazione dei servizi come “improduttivi” è collegata a una fase specifica del capitalismo e spesso (Glosse a Wagner) fortemente condizionata da una polemica contro i servitori e gli apologeti del regime e i più recenti “socialisti della cattedra”. Anche il disprezzo per il sottoproletariato rinvia nella contingenza all’esperienza del periodo bonapartista, sul lungo periodo all’orgoglio dell’operaio professionale. Nel Capitale I la trattazione del lavoro sta all’interno del cap. 1 sulla merce, con il duplice carattere di lavoro utile e astratto (work e labour, rimarca Friedrich Engels nella nota 16 alla 2° edizione), corrispondente al valore d’uso e al valore di scambio della merce e la distinzione fra lavoro semplice e complesso (§ 2), ulteriormente specificandosi nel § 3 con la sobria notazione che la forza-lavoro umana allo stadio fluido, , crea valore ma non è valore, diventando tale solo allo stadio coagulato, nella forma oggettiva e fenomenica. Infatti il valore (§ 1) si presenta per semplice concrezione di lavoro umano indifferenziato, spettrale oggettività dell’erogazione di forza-lavoro senza riguardo ai criteri. Il lavoro privato diventa immediatamente sociale, perché, a differenza della società greca cui si riferiva Aristotele e che si fondava sulla schiavitù, la validità eguale di tutti i lavori riposa sulla forma di merce generalizzata e sul concetto dell’eguaglianza umana, che possiede ormai la solidità di un pregiudizio popolare. L’eguaglianza di lavori toto coelo differenti astrae dalla loro reale diseguaglianza, riducendoli a comune dispendio di forza-lavoro umana dentro l’articolazione di un modo di produzione storicamente determinato, anzi proprio all’interno del carattere di feticcio della merce e del suo arcano, secondo il titolo del § 4. Come il lavoro si impadronisce e si serve della natura è argomento del cap. 5 (Processo lavorativo e processo di valorizzazione, cfr. cap. 13 § 3 b), che introduce il ruolo del lavoro vivo nel conservare e trasmettere nel prodotto quello accumulato mantenendo le macchine in efficienza – con il suo semplice contatto, afferma nel primo paragrafo del capitolo successivo, «risveglia dal regno dei morti i mezzi di produzione, li anima a fattori del processo lavorativo e si combina con esso in nuovi prodotti». L’accento sull’aspetto qualitativo (e gratuito) del lavoro vivo, “fuoco”, “tempo vivente”, riprende la più ampia stesura dei Grundrisse 264 sgg. =I 363 sgg. Decisiva è la ripresentazione del materiale nel cap. 13 (Macchine e grande industria), dove le ultime tracce dialettiche sono vantaggiosamente sommerse nell’analisi del processo storico-sociale e dell’evoluzione tecnologica, dato che proprio dal mezzo di lavoro prende il via la rivoluzione del modo di produzione, dapprima in una sfera poi in tutte le altre, sulla falsariga di una storia differenziale che rompe il continuum temporale ed è priva di un piano trascendentale di riferimento. Nella grande industria la soppressione dell’operaio isolato da parte di quello socializzato appare sempre meno causale e il macchinario funziona generalmente solo in mano al lavoro immediatamente socializzato cioè in comune. La cooperazione diventa una necessità tecnica, caso mai strozzata dalle angustie della società borghese, dove il lavoro umano è a volte meno costoso delle macchine. Infine l’uso della macchine rende superflua l’energia muscolare, consentendo un drammatico impiego estensivo di donne e fanciulli e allargando il campo e il grado di sfruttamento da parte del capitale. Lo stesso vale per l’allungamento dell’orario lavorativo: la pluralità delle forme e luoghi di estorsione del plusvalore è organico alla modernizzazione capitalistica, in cui ogni mezzo è animato dalla volontà del padrone di costringere al minimo di resistenza il limite naturale, riluttante ma elastico, degli uomini. In Marx, comunque, il plusvalore relativo è destinato a prendere il sopravvento, dopo una prima fase di coesistenza, sul plusvalore assoluto (l’intensificazione qualitativa non è alla lunga compatibile con l’estensione quantitativa del lavoro) e la riduzione della giornata lavorativa si impone, attraverso peraltro un’accanita resistenza operaia e l’intervento mediatore della legislazione statale, come misura di efficienza capitalistica. Lo stesso Stato sociale apparirebbe effetto inevitabile della stabilizzazione capitalistica; in realtà l’orario lavorativo di fatto ha ricominciato a salire dopo la compressione costante del XX secolo e l’impiego dei minori è tornato a rifiorire a globalizzazione dilagante. Nella misura in cui investe strati un tempo inaccessibili al capitale, l’evoluzione macchinica ne soppianta altri e crea una popolazione operaia sovrabbondante, che permette di abbassare i salari e imporre condizioni sempre peggiori: è il mezzo più infallibile per trasformare tutto il tempo di vita dell’operaio e della sua famiglia in tempo di lavoro disponibile per la valorizzazione del capitale. La soppressione dell’operaio isolato si manifesta quale trapasso della virtuosità dall’operaio alla macchina, emancipata dai limiti personali della forza-lavoro umana. Ne scaturisce una tendenza all’eguagliamento ossia al livellamento dei lavori da compiersi da parte degli addetti al macchinario, contro la gerarchia di operai specializzati propria della manifattura – i sindacati industriali italiani ci arriveranno, dopo accanita resistenza, solo dopo l’autunno caldo del 1969! Notiamo incidentalmente che il lavoro sans phrase tende ad apparire ora più un portato della divisione tecnica che di quella sociale, un effetto della logica intra-aziendale piuttosto che del passaggio fra mestieri sul mercato. Le differenze residue sono solo artificiali, prodotte ad arte,se non per la distinzione fra manovali (in genere minorenni) che alimentano il processo (feeders) e lavoratori che controllano le macchine. A parte, ovvio, ingegneri ed esperti di riparazione. La gerarchia è tecnico-militare: soldati (tendenzialmente automatizzabili), sottufficiali, ufficiali. La funzione è definita dal sistema del macchinario, che si serve abusivamente delle tradizioni dell’organizzazione del lavoro ma in realtà fa dell’operaio parziale parte di una macchina parziale, posto al suo servizio e di cui deve seguire il movimento, mentre nella manifattura e nell’artigianato i lavoratori si servivano dello strumento. Essi costituivano nella manifattura le articolazioni di un meccanismo vivente, nella grande fabbrica esiste un meccanismo morto indipendente cui sono incorporati come appendici umane. La macchina confisca ogni libera energia fisica e mentale, non libera dal lavoro ma gli toglie contenuto; il lavoro morto domina e succhia la forza-lavoro vivente, degradandola per di più a specie inferiore di abilità, che chiunque può velocemente apprendere, diventando atto in pochi mesi a sostituire chi volesse entrare in conflitto con il padrone. Donde i nuovi profili del dispotismo padronale rispetto a quello schiavistico o manifatturiero. Le varianti dell’autocrazia (ora conciliabili con la democrazia fuori della fabbrica) esprimono ancora la sostanziale discontinuità della storia, la sua differenzialità intrinseca, d’altronde ben congrua all’indole rivoluzionaria in permanenza della base tecnica dell’industria moderna. Le ricadute sono ambivalenti: da un lato la macchina rende superfluo l’operaio parziale, inaugurando a livello di massa la logica totalitaria (conveniente integrazione alla nota tesi di Hannah Arendt) e addirittura un «olocausto (Opferfest) ininterrotto della classe operaia», dall’altro il riconoscimento della variazione dei lavori e della maggiore versatilità (Vielseitigkeit) possibile dell’operaio come legge generale della produzione rende essenziale postulare, in luogo dell’uso miserabile di un’eccedenza disoccupata e tenuta di riserva, la disponibilità assoluta dell’uomo per il mutare delle esigenze, lo sviluppo integrale dell’individuo, l’insegnamento politecnico che unisce teoria e pratica, l’abolizione della vecchia divisione del lavoro, un tipo superiore di famiglia per cui la grande industria ha creato i presupposti attraverso gli orrori dell’abuso femminile e minorile. Il dominio diretto del capitale, distruggendo le sue anteriori forme antiquate e transitorie, generalizza la lotta contro quello stesso dominio e prospetta in simultanea gli elementi di formazione di una società nuova e di rivoluzionamento della vecchia. Nel § 9 del capitolo 13 del Capitale ritroviamo l’enfasi progressista del Manifesto e dei Grundrisse, in veste dialettica meno sgargiante. Olocausto e sviluppo onnilaterale sono implicazioni esclusive, che si presentano in maniera alternativa e casuale e per di più in contestualità ben differenti. La degradazione del lavoro assume tonalità meno drammatiche laddove si è consolidata, malgrado riflussi neoliberisti, una legislazione industriale, mentre lo sviluppo onnilaterale perde l’aura umanistico-feuerbachiana ancora visibile nelle pagine citate.

Il fordismo, alcuni dei cui tratti erano stati genialmente prefigurati da Marx, porta alle estreme conseguenze la parcellizzazione del lavoro, compensandola con le istituzioni della tutela sindacale e del risarcimento sociale conquistate a caro prezzo dal movimento sindacale e politico e concesse anche come riflesso di rivoluzione passiva rispetto al successo di rivoluzioni proletarie. Il rapporto salariale, riformisticamente normato, guadagna di stabilità e raggiunge la massima plausibilità “naturale”. Il regime di piena occupazione e disoccupazione assistita (non in Italia) sembra congelare la contraddizione fra degradazione del lavoro e virtualità emancipatoria, che si riapre brutalmente nelle modalità postfordiste e neo-liberiste della prestazione lavorativa e del regime di produzione. Partiamo da una sintetica osservazione su quella destabilizzazione che oggi è il dato tendenziale di un’intera generazione:

A partire dalla metà degli anni Ottanta, i concetti con cui Marx analizza l’esercito industriale di riserva [fluida=turnover, latente =tecnologica,stagnante =lavoro nero, cfr. Capitale I cap. 23] risultano adatti, invece, a descrivere il modo di essere della stessa classe operaia occupata. Tutta la forza-lavoro realmente impiegata vive la condizione strutturale di “sovrapopolazione” (fluida, latente o stagnante). E’ sempre, potenzialmente, superflua .

I pezzi che entravano nella Gliederung strutturale dell’epoca marxiana avevano, fuori di quella combinazione, una consistenza meramente virtuale, e il passaggio da una formazione sociale all’altra o fra scansioni del medesimo modo di produzione non ha esattamente il carattere di un progresso lineare e neppure di una legittima filiazione, così che i singoli elementi (per esempio il lavoro) si muovono secondo logiche indipendenti o addirittura riciclano tratti di tutt’altra origine, che possono passare da secondari a primari o viceversa; la stessa istanza giuridico-politica vi gioca un ruolo che a volte sembra non corrispondere alla logica strutturale del modo di produzione, come avvenne per l’intervento pubblico e legislativo nel processo di accumulazione originaria . Proprio quel meccanismo, che certo marcò il salto di qualità nella “liberazione”del lavoro e nella coazione al lavoro, andrebbe rivisitato in termini meno storico-genealogici e più permanenti. E’ infatti fenomeno che si ripete ricorsivamente nell’incontro aleatorio fra capitale e forza-lavoro, che può riuscire o fallire, faire prise o no nella terminologia althusseriana, e di cui precarizzazione e rifiuto del lavoro normato sono i due estremi virtuali. Passaggio in cui coesistevano al tempo di Marx, che forse evidenziò solo i tratti più avanzati, e coesistono oggi sottomissione reale e formale, estorsione di plusvalore relativo e assoluto, logica di mercato e regolazione giuridica, inclusione ed esclusione, riduzione del tempo di lavoro necessario e ampliamento della giornata lavorativa, enclosures agricole e informatiche e quant’altro. L’eterogeneità costitutiva del capitale globale attuale vale in misura ridotta anche per il passato, per l’accumulazione “originaria”, così come quell’origine si riproduce a ogni istante, compresa la privatizzazione di sempre nuovi commons mediante enclosures, non più solo di terre (che però continuano massicciamente nel Terzo Mondo in via di industrializzazione) ma anche di campi astratti di tipo genetico o informazionale. Nel passaggio dal fordismo al postfordismo i rapporti capitalistici devono essere riprodotti senza posa e l’accumulazione originaria non può dunque essere accaduta una volta sola ma continua, spostandosi sull’accumulazione di beni sempre più immateriali, coinvolgenti relazioni collettive, sistemi di comunicazione e informazione, universo degli affetti, insomma e simultaneamente ogni aspetto del sociale –insomma slittando da un paradigma energetico a uno linguistico-cognitivo. Va da sé che versatilità delle mansioni e taglio dei costi (per delocalizzazione e lavoro nero) fanno blocco, pur essendo concettualmente distinte. La distruzione creativa –che per Schumpeter è un tratto fisso del capitalismo vivente– non innova soltanto tecnologia e prodotto, ma dissolve comunità di vita, cancella antiquate tonalità emotive e ne suscita di nuove, altera le abitudini consolidate. L’associazione sotto un’unica etichetta sans phrase (con riduzione relativa e a volte assoluta del salario) delle varie tipologie occupazionali, che all’epoca di Marx avveniva come lavoro astratto, astraendo cioè dalle pratiche concrete per esempio del tessitore e del sarto, tende oggi a spostarsi sul piano del lavoro concreto, stante l’ulteriore riduzione di eterogeneità conseguente all’adozione di macchine a controllo numerico e a procedure informatizzate . Con la diffusione del computer diviene ancor più sensibile l’immanenza diretta della cooperazione alla stessa attività lavorativa, ferma restando la distinzione fra ruoli creativi e altri (maggioritari) completamente esecutivi, seriali e alienati –distinzione inerente al modo di produzione capitalistico e non certo superabile per via tecnologica. Del resto l’infrastruttura dell’informazione è direttamente incorporata nei nuovi processi produttivi ed è al momento strumento e proprietà, sia pur contestata e violabile, del padrone (data base, server, programmi proprietari, autostrade informatiche, ecc). Tale doppia immanenza esibisce chiaramente il ruolo contraddittorio della cooperazione. A fianco della produzione industriale, che ha quasi completamente fagocitato quella agricola ed è distribuita in misura ineguale fra metropoli imperiali, nuovi centri geopolitici di sviluppo e potere, aree di sottosviluppo, cresce in inestricabile interdipendenza una filiera di servizi, ormai quasi maggioritaria in Occidente, in cui domina il lavoro affettivo-comunicativo e la tonalità astratta intercambiabile coincide con il concretissimo della corporeità –dall’uso delle mani per lavare, cucinare, pulire, curare e cullare al tono della voce per offrire, sedurre, spiegare, contrattare, all’attenzione obbediente che precorre il comando o l’invito. Ogni lemma dell’autentico e dell’inautentico heideggeriano assume pieno uso mondano: paura, angoscia, chiacchiera, cura, curiosità. Ascolto è la mansueta disponibilità del precario. Equivoco e presentimento si misurano sugli annunci di lavoro e sul passaparola delle più labili occasioni. L’irrequietaa curiosità spinge alla creatività e all’innovazione . Nella confluenza operativa delle dimensioni strumentale e comunicativa dell’agire trionfa la potenza dell’astrazione reale, fino al punto da stemperare le discriminanti fra lavoro produttivo e improduttivo –che naturalmente si qualificavano in base alla valorizzazione del capitale, non alla loro materialità, e ora si smistano lungo il piano della divisione sociale del lavoro, della miscela di sussunzione reale e formale, centro e periferia, produzione, informazione e servizio. Il risvolto della generale produttività e parziale smaterializzazione è l’imperante precarizzazione, ultima ricaduta della nuova fase di accumulazione originaria e dell’importazione sistematica di manodopera drenata dalle aree meno sviluppate. Il declassamento di interi settori precarizzati viene a corrispondere, in ambito postfordista, alla dequalificazione fordista per parcellizzazione . Estensione del lavoro produttivo vuol dire mobilitazione integrale della vita al lavoro, convocazione dell’intero mondo alla valorizzazione del capitale. Si conferma così la pungente battuta di Capitale I 14, per cui essere operaio produttivo non è una fortuna ma una disgrazia (kein Glück, sondern ein Pech –una iella nera). Il ruolo privilegiato del lavoro salariato si incrina per l’apparenza di autonomia che assumono molte forme di attività sostanzialmente dipendenti e sottoretribuite. Osserviamo di passaggio che lo spostamento della produttività sul corpo delle forza-lavoro interagente con sistemi produttivi automatizzati e informatizzati sposta altresì parte del capitale fisso sul lavoro vivo, in cui vengono a mescolarsi le due sezioni del capitale costante (fissa e variabile), senza alcun riconoscimento salariale, anzi con il peggioramento derivante dalla condizione intermittente di tale tipologia di addetti e dal concomitante sfaldamento della spesa sociale dello Stato . La riduzione dei costi di ammortamento e la decrescita dell’incidenza percentuale del capitale costante agirebbero così da classica controtendenza alla caduta del saggio di profitto. Al di là di fenomeni di mascheramento e lavoro nero, il lavoro autonomo non può essere schiacciato su quello salariale, indica anzi una crisi della definizione classica di produttività, della centralità della fabbrica, della composizione dell’esercito di riserva. Ciò comporta, dal lato del capitale, l’adozione di strategie complesse di controllo che non sono riducibili alla razionalità strumentale, al sequestro delle potenze mentali della produzione, alla massima efficienza dei fattori produttivi e della loro combinazione che si collegavano all’ordinario rapporto salariale e all’estorsione di plusvalore relativo. Tutto ciò resta, ma è solo una parte di quanto entra in gioco nella competizione fra gli agenti strategici capitalistici –i funzionari necessari della produzione capitalistica di cui alle Glosse a Wagner– e dell’eventualità di crisi sempre immanente al sistema.

Cosa produce sul piano economico e della tipologia lavorativa la dispersione della moltitudine grazie alla flessibilità sans phrase? A proposito delle moltitudini disperse, Michel de Certeau ha sostenuto che la marginalità non è più attributo di minoranze ma sta diventando universale e quotidiana, malgrado la difficoltà di simbolizzazione e la disomogeneità. Partendo dalle correzioni che i fruitori di un testo introducono nel suo apparato di significati, dal criterio in cui ne frammentano e ricompongono le traiettorie mediante una trascrizione alterante e innovativa, il perspicace gesuita distingue strategia e tattica. La prima è un calcolo dei rapporti di forza dal punto di vista di un soggetto di volontà e di potere (proprietario, sovrano, istituzione politica o scientifica) isolato dall’ambiente, fondato su basi proprie circoscritte e che tratta con un esterno ben distinto (competitori, campi di ricerca, avversari, clientele), secondo modelli di razionalità strategica (politica, economica, scientifica). La seconda è invece il calcolo del più debole, che non poggia su uno spazio proprio da cui abbracciare il resto come totalità, non è in grado di capitalizzare e immagazzinare. Lo spazio è già invaso da altri e la tattica deve insinuarvisi, senza poterne prendere le distanze né controllarlo integralmente o ritirarsi in un’area protetta. Decisivo diventa al contrario l’utilizzo del tempo, la capacità di cogliere al volo l’opportunità mischiando e manipolando gli eventi, cambiandoli di segno, assorbendo l’alieno. E’ la casalinga che prepara il pasto con quello che trova in frigorifero e si arrangia con le offerte del supermercato, ma esistono tattiche analoghe nella conversazione, nella cucina, nel camminare, nel leggere: in questi casi il debole vince il forte mediante trucchi, simulazioni, esperienza pratica, la metis dei Greci, l’astuzia che da tempi immemorabili, dalla profondità degli oceani alle metropoli postmoderne, governa la sopravvivenza. Mentre la strategia cerca di mettere ordine, di tenere le cose al loro posto, la tattica difende la vita e il piacere, si introduce di soppiatto nella sfera della strategia, adotta retoriche di persuasione, seduzione, storno per aggirare la logica “scientifica” del potere. Bracconaggio del villano nelle riserve di caccia del signore. Un’applicazione quotidiana dell’arte della guerra, che insegna come battere un nemico più forte. L’invadenza mediocratica dei segni, che è poi la “scrittura” contemporanea, non sottomette passivamente gli utenti proprio per le varianti adattive che il fruitore vi introduce, rendendo il “testo” abitabile proprio come si fa personalizzando un appartamento in affitto. Il consumo linguistico diventa emblema delle pratiche attraverso cui ciascun consumatore enuncia, riappropria e articola ciò che il sistema gli offre. Ovvio che vale anche l’inverso. Messa in produzione del desiderio e gestione consumistica dell’estasi sono materia corrente per la riproduzione del sistema, soprattutto laddove predominino lavoro immateriale, industria culturale, sperimentazione, progettazione e complesso superiore dei servizi. La stessa contraddizione che avevamo trovato nell’immanenza diretta di cooperazione e scienza al lavoro ritorna qui nell’ambiguo segno emancipativo e assoggettante del consumo, dove ogni investimento emotivo personale è appiglio di fidelizzazione. I processi di soggettivazione non producono soggetti indipendenti –per fortuna!– ma neanche resistenti, anzi una soggettività diffusa e irriducibile che è problematico riassemblare e ordinare. Spieghiamoci. Soggettività è capacità di resistere e di creare, non contrazione identitaria in un soggetto giuridico o coscienziale. L’individuo è il risultato temporaneo di un processo di individuazione, che attinge un fondo comune pre-individuale e si articola in processi transindividuali (culturali), riclassificandosi di volta in volta. Lavoro sans phrase e precarietà dissolvono radicalmente l’identità, di solito in modo più doloroso che gioioso, comunque irreversibile, se non nei confini sempre più stretti in cui il sistema postula soggetti giuridici cioè assoggettabili (per esempio: venditori di forza-lavoro, acquirenti di merci, imputati processabili, titolari di contratti) oppure favorisce compensazioni ideologiche e religiose (anime, cittadini repubblicani, sostrato di opinione pubblica). Ma tali esigenze si contraggono quando il sistema fila da solo, si autolegittima nelle forme fatalmente degeneri della democrazia rappresentativa e della guerra giusta. La democrazia preventiva rende superfluo l’in-dividuo liberale e desueta la sua ideologia cristiana secolarizzata. Falluja, Abu Ghraib, Guantanamo o i talk show richiedono soltanto corpi docili e sostituibili. Il lavoro interinale proietta sul piano contrattuale il superamento della finzione giuridica dello scambio tra forza-lavoro e salario, pur se forme analoghe hanno sempre accompagnato le istituzioni regolari di sfruttamento. Del job on call era ignoto il nome, non la sostanza –il più sobrio caporalato. Mentre però era relativamente agevole scalzare il simulacro del contratto individuale fra “eguali” con la prassi della contrattazione sindacale collettiva e derogare dall’atomismo liberale con l’organizzazione del partito di classe, ora la dissoluzione dei residui vincoli sociali e il declino parziale della dimensione nazionale pervengono al punto di sfaldare le stesse attitudini alla resistenza collettiva vanificando forme tradizionali di associazione corporativa e rivoluzionaria. Il doppio binario, per cui il sindacato finisce per tutelare soltanto i lavoratori a tempo indeterminato, sancisce ufficialmente la privatizzazione dei diritti e in prospettiva la loro riduzione generalizzata. Il dispositivo postfordista prevede simultaneamente settori separati, ognuno dei quali garantisce il supersfruttamento dell’altro; il compromesso con il sindacato è quindi al ribasso rispetto al passato, dato che chiude un ciclo di sconfitta politica della classe, anzi la trasformazione di insorgenti in subalterni.

Add comment

Submit