Frammenti di pensieri, speranza e lotta
di Silvia Guerini
Viviamo in una società della novità perpetua e della continua rincorsa a standard ridefiniti di volta in volta dagli algoritmi della cosiddetta Intelligenza Artificiale che a loro volta ridefiniscono l’essere umano e lo stare al mondo. Una ridefinizione che precede il reale e che lo plasma, lo sostituisce. Il mondo del reale si deve adeguare a quello che viene considerato come vero, desiderabile, migliore.
I contesti critici a loro volta non sono immuni da determinate dinamiche e caratteristiche che dovrebbero contrastare. Viene inseguita l’ultima sensazionale notizia, scivolando sulla superficie senza mai addentrarsi nel profondo di acque scure e melmose per il timore di affrontare questioni scomode e impopolari, pena la perdita di ascolti e di incassi nelle serate. Si rincorre il teatrino del mainstream, discutendo di ciò che ci si aspetta di discutere, si creano dibattiti che rimangono ai margini, attorno a dettagli, senza porre le domande giuste rimanendo dentro confini prestabiliti. Nel mentre passano sviluppi tecno-scientifici a cui attorno c’è il deserto della critica. Critici che restringono appositamente la critica, scelte di campo che denotano solo disonestà intellettuale.
La grande marcia della distruzione prosegue e le parole non contano più, le narrazioni si pongono non solo al di là dei significati, ma anche al di là dei fatti e ciò che viene detto perde aderenza con la realtà. Tutto può diventare il contrario di tutto, venire stravolto e risignificato senza che ci sia memoria di quello che significava un attimo prima. In questo scenario perde senso stare a rincorrere l’ultima dichiarazione estraendola non solo da un contesto ben più ampio, ma da questa operazione di cancellazione e risignificazione della realtà trasformata in un processo fluido, proteiforme rimodellabile a piacimento. E il “fatto tecnico”, come insegna Bernard Charbonneau, diventa “la carne stessa del reale e del presente” e quando veniamo travolti dalle sue conseguenze altri sviluppi, applicazioni, lasciapassare bioetici e passaggi legislativi sono già oltre… Ci si scandalizza di fronte a eccessi, ma al contempo, di fatto, si sostiene ciò che è alla loro radice.
In tutto questo influencer del pensiero concorrono a sgretolare la possibilità di costruire un reale pensiero critico. Sfuma il senso e chi costruisce pensiero critico e libero fatica a far capire tutto questo.
Viviamo in un tempo in cui tutto passa alla velocità di un clic su una tastiera. Tutto è momentaneo, fugace, effimero, transitorio e frammentato. Nulla conserva memoria. Nulla permane. Nulla tiene densità, quella densità in grado di trattenere. Tutto scivola, viene stravolto e risignificato. Tutto evapora. Nessuna memoria e nessuna tensione verso il domani: un eterno presente, una scomparsa del passato e una scomparsa del futuro. Il futuro crea ansia, vi si proietta solo la vecchiaia e la morte che non hanno spazio nella società cibernetica.
Si perdono punti di riferimento per orientarsi. Affabulatori del nulla, padroni del pensiero, del linguaggio e dell’immaginario confondano e disorientano. La realtà rimane tale e quale, ma si perdono gli strumenti per interpretarla e si vive come nel mito della caverna di Platone, convinti di vivere in un mondo reale quando in realtà si guardano delle ombre, convinti di esseri liberi, quando in realtà si è in catene. Oggi la schiavitù è volontaria, la gabbia d’acciaio è diventata trasparente. È la gabbia cibernetica e algoritmica. È il potere dolce degli algoritmi che avvolge, accompagna, sussurra, coinvolge, consiglia, dialoga e nel mentre incanala nell’orizzonte di senso tecnologico, l’unico che verrà concepito come possibile.
Nella grande vetrina digitale dei social ci si consuma e si viene consumati come merci nel grande biomercato di corpi, desideri, illusioni. Si diventa attori e spettatori di sé stessi in perenne inseguimento della propria autorappresentazione. E dal consumo di merci al consumo di rapporti come merci usa e getta, a tempo determinato, a scadenza ravvicinata. In maniera compulsiva un oggetto dopo l’altro, una relazione dopo un’altra senza mai andare in profondità. Le merci possono essere consumate, comprate, sostituite, rispedite al mittente. La logica delle merci non può conciliarsi con il sentimento dell’amore. L’amore reso merce viene svilito. Le relazioni d’amore è come se dovessero fermarsi alla fase di innamoramento senza mai giungere alla fase di un impegno e di una progettualità, come se dovessero avere le caratteristiche dell’interscambiabilità e dell’intrattenimento. In generale, oggi, svanisce il senso dell’Amore come sacrificio, come un donare sé stessi.
In vendita anche esperienze, quelle che vengono definite come tali. Si compra un esperienza, una creazione di un contesto finto che ti illude di vivere un’esperienza autentica. Chi va da una novità a un’altra – oggetti, esperienze, pseudo-relazioni – in fondo sta sfuggendo da sé stesso. Continui stimoli esterni, sempre nuovi, per non soffermarsi su come affrontare la vita e le sue difficoltà. Il cambiare incessantemente diventa una nuova postura ed erode la capacità di tessere legami e relazioni profonde e durature, legami familiari e legami territoriali, erode la capacità di tessere progetti e percorsi, erode la possibilità di comunanza, appartenenza e solidarietà. Relazioni d’amore, d’amicizia, progetti in comune diventano un qualcosa da provare, da rinnovare costantemente. Come consumatori compulsivi in ansia fino al prossimo nuovo acquisto che diventa presto obsoleto. Come turisti perennemente di passaggio che scambiano l’attrazione costruita ad hoc per realtà autentica incapaci di soffermarsi a percepire l’anima dei luoghi.
L’individuo ideale per questa società è colui che è perennemente insoddisfatto, che deve cambiare continuamente tutto: protesi tecnologiche, oggetti, casa, lavoro, relazioni, aspetto esteriore fino al proprio sesso. L’uomo trans e l’esistenza trans: perennemente in transito, trans-luogo, trans-gender e trans-genico. Di fondo il principio secondo il quale se persisti nel tuo essere e in tutte le dimensioni e legami che lo contraddistinguono sarai insoddisfatto, se cambierai incessantemente rigettando tutto quello che ti costituisce sarai felice. Un grande inganno.
Un individuo sradicato in perenne mutamento alla spasmodica ricerca di un qualcosa che non arriverà mai. Abbiamo generazioni di eterni giovani, narcisi, egocentrici, annoiati, ansiosi, fragili e insicuri. Rigettano valori, ideali, passioni, insegnamenti, eredità. Perennemente di passaggio. Figli del voglio tutto e subito, del vietato vietare, del desiderio assoluto. Il mondo è lo sfondo dei loro selfie, cresciuti in un mondo virtuale rigettano la realtà perché non l’hanno mai vissuta e perché non l’hanno scelta. Senza memoria, passato, appartenenza, radicamento. Non sono eredi e non avranno eredi. Pronti per la società cibernetica, per le case domotiche, tutte uguali, grigi e tristi, per l’ambiente ricostruito che prenderà il posto della natura, di boschi, sentieri, torrenti. Attorniati da non-cose, senza storia e significato, in case vuote e asettiche con mobili dell’ikea in cui nemmeno la polvere si posa. Diverse le nostre di case, piene di oggetti vecchi, di polvere, di libri, di odori, di ricordi. Di cose che trattengono i significati, quelle cose che creano un’architettura del tempo, che lo rendono abitabile, in armonia con i cicli delle stagioni e della terra. A noi rimane l’amara constatazione che le nostre cose finiranno in discarica, che i nostri libri non avranno biblioteche, ma solo il fumo nero degli inceneritori.
L’essere umano non è adatto a questo mondo cibernetico e transumano, la tecnica lo adatta, lo plasma, lo trasforma, ma alla fine, in fondo, sente un’angoscia, un’angoscia di una non vita, di una vita insensata e invivibile, di essere destinato all’inumano come aveva anche ben compreso Jacques Ellul, uno dei più importanti precursori della critica al sistema tecno-scientifico. Questa angoscia disorienta, paralizza, restringe le possibilità, soffoca il pensiero, mina la libertà. Dinnanzi all’angoscia contrapporre la speranza. Speranza per resistere, per agire, per lottare.
L’essere e l’agire hanno bisogno di un orizzonte di senso, la vita per non ridursi a mera sopravvivenza ha bisogno di un orizzonte di senso condiviso che parta da un riconoscimento, da un legame, da un radicamento, da un’eredità. Se l’unico orizzonte di senso sarà quello tecnologico come poter orientarsi nel mondo? Si seguirà quello che di volta in volta sarà definito dagli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale.
La speranza può infonderci un senso e un orientamento. Senza orizzonte di senso, senza un posto nel mondo, senza verità, bellezza, memoria – ciò che Simone Weil identifica come bisogni dell’anima, tutti profondamente interconnessi – il vivere diventa un mero sopravvivere, si atrofizza, perde slancio e si riduce all’immanenza di un eterno presente.
La speranza è sempre stata considerata contrapposta all’agire. Chi spera non agisce, si dice. Invece la speranza fa sì che nonostante tutto non ci si rassegni, infonde forza per agire, per tessere progettualità, per continuare anche nelle avversità. Infonde una forza particolare, che la sola ragione non potrebbe generare.
La speranza è una postura dell’animo, è un orientamento dell’agire che va oltre l’immediato presente. Non è, come spesso di crede, un mero sperare che le cose vadano bene, un mero atteggiamento ottimistico e non si riduce a un desiderio o a un’aspettativa. La sua misura non è data dal rallegrarci che le cose vadano come ci aspettiamo e che ci portino successi all’interno di logiche transumane di velocità, comodità, prestazione. La sua misura si calibra attorno alla nostra ferma volontà e alla nostra determinazione per impegnarsi in una direzione, per raggiungere quello che riteniamo degno di essere raggiunto all’interno di un ordine di valori. Non è quindi la superficiale convinzione che potremmo raggiungere tutto quello che ci prefiggiamo o che tutto vada a buon fine, ma è la profonda convinzione che la direzione intrapresa sia quella giusta, quella con un senso, con uno scopo che si spinge oltre. Per quello che trasmetteremo e per quello che rimarrà anche dopo di noi, quando non saremo più in questo mondo. Senza calcoli, con solo lo slancio del cuore.
Quando si combatte una battaglia persa è in realtà già vincere. Quando si combatte sapendo di poter morire è vivere nel modo più pieno che si possa vivere. Non aver paura innanzi alla morte ci rende liberi. Questa postura dell’animo ci congiunge con ciò che c’era prima e con ciò che verrà.
Calcoli e previsioni algoritmiche rendono superflua la speranza come rendono superfluo l’essere umano. La speranza apre a sostenere l’imprevedibile, l’incalcolabile, l’inafferrabile e apre a possibilità che non si sarebbero mai previste. L’avere speranza può non avere un qualcosa di specifico o di concreto a cui tendere, è un modo di essere esistenziale che rappresenta come ci poniamo nel mondo, dinnanzi alla vita e dinnanzi alla morte. È un modo del nostro essere nel mondo.
La speranza arriva nei momenti di più cupa disperazione, diventa nutrimento e ci prepara a sostenere il peso di grandi cose con tutte le fatiche che possono comportare. La speranza nell’essere umano, nonostante tutto, è li in fondo al cuore e se non ci fosse tutto il nostro agire potrebbe perdere di senso. Sperare è non far inaridire il cuore.
Ernst Jünger si chiede: come reagirà l’uomo di fronte alla catastrofe e sarà in grado di rendersi conto che la storia lo sta ponendo innanzi all’abisso? Sperare è, di fronte all’abisso, mantenere la posizione, il non cedere a facili scorciatoie che portano in realtà lontano, il non cedere a compromessi che portano a stravolgere le proprie idee e i propri valori e, come risponde Jünger, “le catastrofi provano fino a quale profondità uomini e popoli sono radicati nel terreno originario”, attingere quindi a quel “fascio di radici nel terreno e se il pericolo aumenta attingere alla forza delle Madri, alla loro energia primigenia che le semplici forze del tempo non sono in grado di arginare”.
La speranza apre al mondo, non chiude, apre alle possibilità, indipendentemente dall’esito degli eventi, dai desideri, dalle aspettative. Non è un mero sperare per sé stessi, al fine di ottenere un qualcosa, è rivolta verso l’Altro, il mondo, l’esistenza, la vita. Un sentire interconnesso all’amore. Chi ha speranza e chi ama si pone oltre all’immediato soddisfacimento di un bene strettamente personale. Chi vede solo sé stesso, chi è atomo disgregato e isolato da una comunità e da un mondo non riesce a sperare e non riesce ad amare, se non di un amore merce, egoistico e svuotato del suo senso.
Potremmo dire che la speranza ha, in un certo senso, alcune caratteristiche dell’aver fede intesa come un affidarsi. Affidarsi a quello che si sente nel profondo, affidarsi al senso delle cose, un senso che ai nostri giorni è sempre più eroso e sgretolato. L’essere umano cammina su una corda tesa tra libertà e destino, percorre il loro intreccio. Con la possibilità e la libertà di coglierne i segni, di porsi innanzi e in ultima istanza di scegliere del proprio senso e del proprio scopo.
La speranza va al di là della morte. La buona novella del nuovo nato, della nascita, del venire al mondo da speranza. Cosa accadrà quando non si verrà più al mondo, ma quando venire al mondo da un corpo di donna verrà sostituito con l’essere estratti e staccati da un supporto tecnologico con la realizzazione dell’utero artificiale? I figli della macchina1. E cosa avverrà, ancor prima di questa finale realizzazione tecnica, se venire al mondo, nell’imprevisto e nella libertà della nascita, verrà sostituito da un venir selezionati, progettati, ingegnerizzati all’interno di un laboratorio?
L’embrione tiene memoria. Esiste una memoria cellulare e ciò che si afferma a livello cellulare rimane a livello psicologico. Come diventerà questo essere umano proveniente dall’azoto liquido, dal silenzio e dal freddo glaciale, da un assemblaggio di ovulo e sperma in una piastra di petri?
La vita in vitro. La vita innervata dalla tecnica e dalla modificazione genetica ancor prima della sua nascita, del suo venir al mondo. Se la vita di un essere umano inizia con un’operazione tecnica, questa rimarrà impressa nel corpo e nella psiche. Fratture, scissioni, distorsioni, riprogettazioni, artificializzazioni del naturale processo di procreazione, del naturale movimento della vita, del naturale venire al mondo. Fratture che scindono la sessualità dalla procreazione, che rompono l’unità e la continuità dello sviluppo dell’embrione. Fratture biologiche e psicologiche che modificano profondamente la memoria di quella che sarà la nuova umanità se la riproduzione artificiale diventerà il nuovo modo di venire al mondo. Un essere umano pronto per il mondo laboratorio.
La razionalizzazione tecnica segue parametri quantificabili e misurabili, ma l’essere umano ha bisogno di ricerca di significato, di profondità, di contemplazione, di bellezza, di etica. Lo sguardo tecnico e l’operare algoritmico non riconoscono queste dimensioni, non gli appartengono e nel loro avanzamento sul mondo il prendersi cura della persona sarà mantenere la sua funzionalità organica: monitoraggio biologico, controllo e gestione sanitaria all’interno di parametri di volta in volta decretati dagli algoritmi. Lo sguardo dai processi vitali viene spostato verso i processi meccanici, artificiali, inanimati. L’interesse per la vita si sposta verso l’interesse per la tecnologia e alla fine si diventa indifferenti verso la vita, incapaci di riconoscere quando questa è innervata dalle tecno-scienze, incapaci di provare anche solo un sussulto di orrore.
Da quando l’essere umano ha reciso il legame con una dimensione trascendente, con microcosmo e macrocosmo non ha trovato quella libertà ed emancipazione che tanto agognava una determinata ideologia illuminista e progressista, ma si è trovato senza senso innanzi alla sua finitudine. E dinnanzi all’angoscia della morte che rappresenta proprio l’angoscia per la propria finitudine il vuoto è stato colmato con ansia, inquietudine e frenesia che caratterizzano i tempi di oggi.
Tornare a “camminare con i piedi per terra”, nel tempo della durata, in risonanza con l’accordo delle stagioni, rimaste immutate nella loro “danza circolare” nonostante l’avanzata materialista…
René Guenon scrisse: “I moderni diranno – lo sappiamo bene – che gli antichi hanno visto male, o che hanno riferito male quello che hanno visto; ma tale spiegazione, la quale equivale a dire che, prima della nostra epoca, tutti gli uomini fossero affetti da disturbi sensoriali o mentali, è veramente troppo semplicistica e negativa; e se si vuole esaminare la questione con tutta imparzialità, perché non sarebbero invece i moderni a vedere male o addirittura a non vedere del tutto certe cose?”.
Credere nell’esistenza di un ordito nel mondo, di una corrispondenza, di un legame profondo tra gli eventi, tra il microcosmo e il macrocosmo significa credere che nulla di ciò che facciamo resta fuori da questi legami, da queste corrispondenze, da questi significati, da questo tessuto del mondo, del tempo e dello spazio. Significa – come leggiamo in Jünger – riconoscere “le tracce di un sapere che ha radici più profonde dei luoghi comuni dell’epoca presente”, riconoscere che le nostre azioni possono contenere in sé stesse “un seme a noi sconosciuto”. Significa credere che qualcosa, nella sua essenza, rimane, prosegue, anche se per altre forme, in altri luoghi, in altri tempi. L’essenziale non muta e regge alla corrosione.
Andando avanti a testoni, attraverso l’ordine visibile e invisibile delle cose, per procedere, come leggiamo in Jünger, “dall’incompiutezza del sapere verso ciò di cui si può solo avvertire un presagio” e le Cicindele, osservate nel loro cammino, sono “come un esempio della quantità di forze che incrociano la nostra strada, che la attraversano senza che riusciamo a percepirle”.
La pietra, scrive Jünger e aggiungerei anche le montagne, stanno in un rapporto particolare con il tempo, formano con il loro corpo l’ossatura della terra. Quando siamo circondati da pietre, da montagne viene a noi il sentimento di luoghi e tempi lontani. Così come quando siamo innanzi a strutture edificate in tempi antichi, come se quei tempi e quei morti ci fossero più vicino, come se le loro opere e i loro significati giungessero a noi, anche se solamente sotto forma di eco lontano.
L’eternità è nel ricordo dei vivi, l’eternità è in quello che lasciamo in questo mondo che saprà reggere alle erosioni e agli stravolgimenti di significato e che nell’oblio rimarrà. È la pietra che rimarrà tra le rovine. È la pietra da cui si potrà continuare a edificare.
“Sono queste le ore più cupe, quando si teme che tutto si trasformerà in una succursale dei mattatoi di Chicago o dei campi di lavoro forzati sul Mar Glaciale”, scrive Jünger, ma poi, continua, “l’occhio vede un falco e si sente bagnato di fresca rugiada, fortificato da un magico conforto. Esso vive – non soltanto nel suo effimero piumaggio, ma nell’eternità di cui è testimone. Non soltanto una piccola valle tra le rocce di quest’isola, ma l’intero universo s’intravede dietro il falco. […] La arde un fuoco che mai si estingue”.
Nella mitologia greca Prometeo è incatenato a una roccia presso il mare. Prometeo dà libero sfogo alla sua amarezza, Ermete cerca di calmarlo e di indurlo alla moderazione e Prometeo grida: “Io odio tutti gli dei”. Ermete risponde ammonendolo per tanto odio “sembra che tu sia colpito da una grande follia” e per follia si intende malattia dello spirito. Prometeo diventa simbolo della liberazione dell’uomo, il rovesciamento del significato del simbolo è la grande illusione progressista e transumanista che concepisce la libertà come assenza di limiti e di vincoli, Il rovesciamento del simbolo è l’instaurarsi del regno della quantità, è l’arroganza prometeica di volersi sostituire alla natura, al corso degli eventi, a Dio, di riprogettare una nuova umanità, di dirigere il corso stesso dell’evoluzione “un’evoluzione autodiretta e consapevole” – così definita da transumanisti eugenisti – con riproduzione artificiale, biotecnologie, nanotecnologie e intelligenza artificiale.
Viviamo tempi in cui è difficile cogliere una reale comunanza, ma non bisogna perdere l’orientamento, non bisogna perdere la capacità di cogliere la visione di mondo transumana anche se appare in altre vesti. Una sinistra progressista e una destra prometeica sono due facce della medesima medaglia, varianti del medesimo sistema tecno-scientifico, del medesimo mondo moderno che avanza con Intelligenza Artificiale, biotecnologie, tecnologie CRISPR/Cas 9 e a mRNA. In questo scenario ci collochiamo affermando ‘la nostra visione di mondo o la loro, le nostre idee o le loro’ e la contrapposizione è essenziale, è antropologica, ontologica, metafisica. Noi, chi siamo noi? Essenzialmente altro. Altro da tutto quello che è già prestabilito. Scomodi, impopolari, non più adatti e presentabili quando la critica esce dai binari prestabiliti e quando anche il mondo del dissenso deve adeguarsi. Anti-moderni, anti-illuministi, anti-industriali, anti-gender, anti-tecnoscienza… più facile descriversi in contrapposizione. Ecologisti, di quell’ecologia di cui oggi si è perso il senso, risaliamo tra autori del passato, senza il timore di avanzare in terreni inesplorati. Per un senso della vita, della natura e della libertà altro da quello che è stato fagocitato e risputato da molti.
Oggi la linea va tracciata tra chi vuole restare umano e tra progressisti prometeici transumani, avendo ben in mente quei confini inviolabili e non negoziabili e ciò che non sarà mai eticamente accettabile. Avendo bene in mente che non esisteranno mai mani giuste per biotecnologie, nanotecnologie, intelligenza artificiale. Né Trump né i BRICS possono rappresentare un’alternativa, risulta alquanto ridicolo anche solamente doverlo affermare. Alcune analisi geopolitiche sembrano fermarsi a un primo livello, sfugge così un livello più fondamentale. Da un lato Trump non rappresenta la fine di un incubo, al contrario di come viene considerato da alcuni, ma è un inizio di un incubo peggiore. Da un altro lato i BRICS non rappresentano alcun tipo di ostacolo all’attuazione pressoché ubiquitaria delle agende della megamacchina che sta guidando la colonizzazione tecnologica di ogni aspetto della vita. Eppure, nonostante le molte evidenze – tra cui anche quella che è stata la gestione della cosiddetta emergenza pandemica e gli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale – questo secondo livello viene relativizzato portando avanti, di fatto, il mito della “neutralità della tecnica” anche da chi possiede strumenti di critica del presente. Quelli che vengono presentati come due modelli – da un lato l’asse anglo-americano-sionista dall’altro lato l’asse Russia-Cina e a seguire l’alleanza dei BRICS – non rappresentano in realtà un diverso modo di abitare il mondo. Potremmo – in realtà da tempo – parlare di tecnocrazie e di visioni progressiste e transumane che, con le loro varianti interne e con le varianti cosmiste, possono divergere su alcuni aspetti e su alcuni approcci ed entrare in contrasto per questioni egemoniche, ma rimanendo sempre nel medesimo quadro ideologico di avanzamento tecno-scientifico come ristrutturazione del mondo e come visione essenziale di quello che viene considerato progresso umano.
Detto ciò solo un movimento che nasce dal basso si potrà opporre a questo nichilismo esistenziale. Che allora i nostri percorsi lascino traccia, pietre, significati, testimonianze di un altra visione di mondo, memorie di lotte portate avanti nonostante tutto. Continuando a tessere relazioni e percorsi fuori dall’intossicazione dei social, fuori da schemi e recinti precostituiti. Tornare a sognare, a spingersi oltre il possibile, contro ogni realismo, immaginare altre possibilità, coltivare per non far dilagare i deserti della critica e dello spirito, fuori da ogni calcolo, per nuove alleanze nell’unione di spiriti liberi, continuando a lottare contro il transumano e la dissoluzione che avanza.