Roberto Esposito nelle tenebre del fascismo
di Rocco Ronchi
La necessità di una riflessione filosofica sul fascismo si impone quando il fascismo diventa una minaccia reale. Per quanto indiscutibili siano tutte le differenze tra la situazione presente e quella vissuta negli anni venti e trenta del secolo scorso, la parola “fascismo” affiora inevitabilmente alla mente quando si vuole inquadrare il fenomeno populista-sovranista. E, con essa, il suo opposto, “antifascismo”, anche questo un termine abusato, gravato da una retorica che ne compromette sul nascere l’efficacia, e, tuttavia, anch’esso, inevadibile, quasi necessario. In attesa di nuovi e più precisi concetti scontiamo, insomma, la limitatezza del nostro vocabolario. Dobbiamo prendere a prestito vecchi termini per eventi nuovi, ma se questo è possibile è perché tra il vecchio e il nuovo vi è, di fatto, una continuità reale che è proprio quanto oggi ci inquieta e ci interpella.
Per queste ragioni il saggio di Roberto Esposito, Il Fascismo e noi (Einaudi, 2025), è un libro importante fin dal suo titolo programmatico: non chiede, infatti, soltanto che cosa sia stato il fascismo storico, ma chiede di “noi” rispetto ad esso, chiede “chi” siamo “noi” che lo abbiamo stigmatizzato come un orrore, ma che, oggi come allora, di fronte a un orrore solo somigliante (perché la via dell’”analogia”, secondo Esposito, è impercorribile) proviamo la stessa sensazione di impotenza, come se fossimo alle prese con una macchina che funziona in modo implacabile, una macchina cieca al senso e votata soltanto alla sua operatività illimitata. Gaza non è un campo di sterminio nazista ma gli somiglia, i militari dell’Idf non sono le SS ma gli somigliano, gli autocrati che impazzano ovunque non sono i duci fascisti ma gli somigliano e “noi” non siamo i nostri padri o nonni, i quali, nel migliore dei casi, hanno assistito come testimoni sgomenti all’avvento dell’orrore, ma gli somigliamo. E la somiglianza diventa quasi una relazione di identità se si considera il desiderio irrefrenabile di sottomissione e di vendetta (sui più deboli) che attraversa quel “popolo” sulla cui incondizionata sovranità tutti i populismi scommettono.
Secondo Esposito, una considerazione meramente storica del fenomeno “fascismo” mostra la corda perché attenendosi doverosamente al documento, come ogni storico che si rispetti deve fare, evita, per amore di rigore e per scrupolo scientifico, il rischio di andare oltre il fenomeno per coglierne il nucleo incandescente, cosa che i filosofi, quelli veri, invece da sempre fanno. “Solo le tenebre parlano alle tenebre”, scrive Esposito in un passo insolitamente enfatico per un autore che normalmente opta per una prosa piana e moderata nei toni. Se il fascismo è tenebra bisogna, insomma, osare farsi tenebra per provare a comprenderlo. Non è allora un caso se nel resoconto delle principali interpretazioni filosofiche del fascismo, che Esposito ordina geograficamente titolando alcuni capitoli con i luoghi fisici in cui sono state sviluppate, siano Parigi e Salò a spiccare. Georges Bataille nel 1933, Emmanuel Levinas nel 1934, Simone Weil poco prima di morire, e poi, più vicino a noi, la coppia Deleuze-Guattari con i due tomi di Capitalismo e schizofrenia e, in un ambito parafilosofico, Jonathan Littel con le Benevole e Pier Paolo Pasolini con Salò-Sade, hanno corso il rischio e hanno elaborato una metafisica del fascismo. Si sono realmente avventurati nella tenebra fascista per guardare finalmente in faccia il nemico. Il rischio, non da poco, era quello di riconoscere alla barbarie nazi-fascista la dignità di un’ontologia (Filosofia dell’hitlerismo era il titolo provocatorio del saggio di Levinas) e perfino di essere confusi con l’avversario, come capitò a Bataille e ai suoi amici del Collegio di Sociologia accusati di essere vittime della stessa fascinazione fascista che denunciavano (situazione che si è replicata dopo la pubblicazione delle Benevole di Littel).
Mentre il fascismo dilagava in Europa, allora centro del mondo, Bataille & co. provavano a spiegarne la genesi e il successo, sospendendo le letture razionalistiche e materialistiche degli intellettuali liberali e marxisti, per cercare di penetrarne il cuore nero, quello che infiammava le masse provocando una devozione che apparteneva all’ordine del religioso. Ciò che vi trovavano era una “macchina” che funzionava con il carburante ancestrale del mito. Furio Jesi, uno dei più brillanti interpreti, negli anni ‘70 del secolo scorso, della “cultura di destra”, l’ha chiamata “macchina mitologica”. La via di fuga che individuavano non era però quella illuministica della razionalizzazione del mito – fare luce sulle tenebre, insomma – ma quella resa possibile da un uso razionale delle tenebre contro le tenebre fasciste: la ragione per essere capace di costruire una comunità di uomini liberi deve cioè abbandonare la sua illusione di autonomia, quell’illusione che l’ha portata a disdegnare il sensibile, il corpo e la “vita”, consegnando di fatto queste potenze telluriche alla macchina mitologica dei fascisti. La razionalità deve riagganciarsi al “sentire”, tornare alle “viscere” su cui la ragione si fonda e che danno alle sue operazioni il loro senso e la loro direzione. L’Acefalo, l’uomo nudo senza-testa “complice dei vulcani” disegnato da André Masson per la copertina dell’omonima rivista di Bataille & co., era l’immagine di questa vertigine antifascista. Quasi negli stessi anni questa via “empiristica” e “iper-romantica” era battuta, seppure con un diverso vocabolario concettuale, tanto da Edmund Husserl nella Crisi delle scienze europee quanto da Alfred N. Whitehead in Processo e realtà: due immensi filosofi che hanno provato a pensare in diretta, mentre il fascismo dilagava, come riscattare l’Europa dalla sua miseria spirituale.
Esposito fa seguire alle sue analisi delle varie interpretazioni filosofiche del fascismo dei “contrappunti” dove a prendere la parola sono le tenebre stesse, vale a dire i filosofi dichiaratamente fascisti. Il primo a prendere la parola è il nostro Giovanni Gentile. Gentile è stato il filosofo dell’immanenza assoluta, la sua critica di ogni trascendenza è tra le più radicali nella storia della filosofia occidentale. Se si vuole veramente comprendere che cosa significa “morte di Dio” bisogna passare attraverso la sua filosofia dell’“atto in atto”. Indipendentemente dalla compromissione di Gentile con il regime, questo sarebbe sufficiente, per Esposito, per provarne il fascismo intrinseco. Dal mio punto di vista, questo mostrerebbe invece come sia possibile sul piano speculativo portare la filosofia di Gentile dalla parte “giusta” della storia, farla cioè funzionare in un senso “antifascista”, liberandola da quel mito (lo stato “etico”) che la corrode e che la snatura. Perché, insomma, non fare ai fascisti quello che loro hanno fatto a “noi”, appropriandosi sistematicamente del “nostro” vocabolario (nazional-socialismo), risignificandolo e misleggendolo? Perché non liberare l’immanenza assoluta dalla retorica che la soffoca e che la trasforma in ideologia e barbarie? Non è forse questo uno dei compiti, se non il compito precipuo, che si deve proporre una comprensione che si vuole metafisica del fascismo?
Anche Esposito, come Jesi, coglie l’essenza del fascismo nella macchina: “la tesi proposta in queste pagine – scrive nella Introduzione – è che il fascismo non sia un regime, un movimento, una dottrina – o meglio, che sia tutto questo, ma prima di tutto sia una macchina metafisica che si può definire ‘generativa’ in quanto capace di generare le sue stesse condizioni di esistenza e di espansione”. Una descrizione perfetta del fenomeno fascista, che non si può che sottoscrivere punto su punto. Resta però da precisare che tipo di macchina sia questa macchina metafisica. Dalla risposta a questa domanda dipende infatti la possibilità di fare luce sul problema che oggi ci angoscia: quale continuità, ci chiedevamo, c’è – se c’è – tra il fascismo storico e il nostro presente populista-sovranista? Esposito è estremamente prudente a questo proposito. Invita a diffidare del metodo analogico, a tenere conto delle immense differenze, e in ultima analisi, opta per la discontinuità. In effetti non ci può essere continuità alcuna se la macchina metafisica fascista è intesa, come fa Esposito, come un “paradigma”. I paradigmi – Plato docet – sono modelli ideali, svolgono il ruolo di archetipi, sono trascendenze che hanno un valore esemplare e definitivo. Il fascismo-paradigma è un fatto compiuto. Lo sguardo teorico può circoscriverlo e definirlo. Ne può enucleare l’essenza. L’antifascismo verboso e vuoto dei nostri intellettuali progressisti ha di mira proprio questo fascismo codificato e, per così dire, compiuto: il fascismo delle camicie nere e del manganello, il fascismo dei nostri nonni. Esposito ha quindi ragione a criticare chi, per economia cognitiva, riduce frettolosamente il nuovo all’antico.
Ma della macchina metafisica fascista si può dare un’altra interpretazione. C’è un’altra tipologia di macchina. Vi sono infatti macchine che sono prototipi. A differenza degli archetipi, che hanno il loro essere nel passato, i prototipi hanno il loro essere nel futuro, sono gravidi di avvenire, perché sono sperimentali. Un prototipo è un laboratorio. I prototipi sono processi in atto. Corrisponde perciò al meglio alla definizione della macchina metafisica fascista come macchina generativa “in quanto capace di generare le sue stesse condizioni di esistenza e di espansione”. Per parlare la lingua dei filosofi, un prototipo è un essere del divenire, qualcosa che, dati certi vincoli, è letteralmente fatto di cambiamento. Più però dei filosofi, che per deformazione professionale sono abbagliati dal problema teorico dell’essenza, a mostrare una maggiore sensibilità a questa natura processuale del fenomeno fascista sono stati storici originalissimi come Zeev Sternhell e Klaus Theweleit, politologi come Franz Neumann, psicoanalisti anomali come Wilhelm Reich, e naturalmente artisti, come Pasolini e Littel citati da Esposito (ma aggiungerei alla lista il Curzio Malaparte della Tecnica del colpo di stato, formidabile libello che nel 1931 descriveva in diretta la genesi dei cosiddetti totalitarismi europei). Il dato comune a tutte queste diversissime interpretazioni è quello di presentare il fascismo storico come una modalità storicamente determinata di elaborazione di un prototipo, come una stazione di un processo in corso che ci riguarda in prima persona. Non un fatto storico, o non soltanto un fatto storico, dunque, ma un divenire, un evento, una tendenza, un problema all’orizzonte del nostro presente, qualcosa, insomma, che, provenendo indubbiamente dal passato, concerne però il nostro futuro prossimo.
Se la macchina metafisica fascista è un prototipo in via di continua elaborazione (una “macchina generativa”, come scrive Esposito) ne consegue che il problema con il quale “noi” oggi non possiamo non confrontarci non è la rinascita del fascismo ma il suo possibile avvento in una forma inedita. A incombere sulle nostre teste è infatti la minaccia della realizzazione del fascismo. Rispetto alle tenebre che si annunciano, il fascismo dei nostri nonni va allora considerato come un abbozzo sperimentale, come il primo terribile vagito di un essere che è tuttora in via di formazione. Le parole con cui Wilhelm Reich, nel 1933, introduceva il suo grande libro, Psicologia di massa del fascismo, valgono dunque per noi forse ancor di più di quanto valessero per lui: “Il fascismo, scriveva, è un fenomeno internazionale che corrode tutti i gruppi della società umana di tutte le nazioni. Questa conclusione trova la sua conferma negli avvenimenti internazionali degli ultimi quindici anni. Le mie esperienze analitico-caratteriali mi hanno convinto che oggi non esista nessuno che non porti in sé gli elementi del modo di pensare e sentire fascista”
Si noti come si assista qui a una radicalizzazione dell’immanenza, vale a dire a una chiusura quasi claustrofobica del soggetto nel mondo, senza vie di fuga verso una qualche trascendenza, quando invece, per il contemporaneo Levinas della “filosofia dell’hitlerismo” (e per Esposito, il quale sostanzialmente converge con l’interpretazione di Levinas), l’immanenza assoluta costituirebbe proprio l’essenza della pratica fascista. Insomma, farsi tenebra per parlare alle tenebre voleva dire per Bataille, come più tardi vorrà dire per Deleuze-Guattari, osare l’ultimo assalto al cielo: andare più a fondo nell’immanenza, “inchiodare” lo spirito alla carne in modo definitivo (river, inchiodare, è verbo che ritorna continuamente nella critica levinasiana della filosofia dell’hitlerismo), trovando in quei “chiodi” non il “sangue e suolo” della mitologia fascista, ma il principio di un’altra, più che umana, libertà: una libertà al di là del mito, la definirà Bataille (e che Simone Weil farà coincidere con la “necessità”, conclusione veramente bizzarra per una filosofa che è generalmente presentata come paladina della trascendenza in lotta con l’immanenza fascista…).







































Comments
Hitler credette di lottare per un Paese, ma lottò per tutti, anche per quelli che aggredì e detestò. Non importa che il suo “io” lo ignorasse; lo sapevano il suo sangue, la sua volontà. Il mondo moriva di giudaismo e di quella malattia del giudaismo che è la fede di Gesù; noi gli insegnammo la violenza e la fede della spada…Si libra ora sul mondo un’epoca implacabile. Fummo noi a forgiarla, noi che siamo le sue vittime. Quel che importa è che domini la violenza, non la servile viltà cristiana.”
Praticamente l'ideologia continua a vivere viva e vegeta.
La domanda e ' dove sarebbe andato adolf con i suoi banali acquerelli se i capi delle acciaierie, i latifondisti, gli junker ecc non avessero sostenuto quel miscuglio di suprematismo germanico e new age (di adesso, ma anche allora, che due palle) con un ottimo capro espiatorio giudaico?
Tutti tesi a contare quanto consumavano gli esseri inutili per la volonta' da nuova potenza e, anche se poco, metterli a crepare. Un bel ragionamento manageriale, che certo non dispiaceva ai padroni. Una ideologia pizzicagnola, brutalmente misera, della miseria umana peggiore, ma utile. Messa a profitto rincoglionendo una intera popolazione.
Oggi vedete musk parlare a enormi manifestazioni (vedere l'ultima in uk), se pensa che funzionino per i suoi scopi ha il patrimonio per pagarne una a settimana. Escludete che ci stia pensando? O che stia pensando di passare la palla di rappresentanza a altri con carisma? Lo trovate strano? Io no, fossi al suo posto e con idee tipo quelle di voler indottrinare, da marte a imbonire su supremazia e tecnologia non vedrei l'ora. Di avere i suoi soldi per procedere. Fortunatamenre non sono lui e sfortunamente non ho neanche una minima percentuale dei suoi soldi. Teniamo conto che certe ascese si pagano, gli operai che non avevano sponsor si autotassavano altrimenti hai voglia di partiti e movimenti operai. Si chiamavano societa' di mutuo soccorso e dovremo ripensarle se vogliamo organizzarci. A un certo punto la realta' presenta il conto ed e' in denaro o beni o pecunia, fate vobis
Del pitecantropo non so nulla, ma dei finanziamenti dei latifondisti e degli industriali al fascismo si sa molto. Non e' che passavano il grano a gratis, mai pensato che da forti (erano forti, erano i padroni) chiedevano di tenere a bada e sfruare i deboli?
Deboli erano i carrellanti dell'emilia, i lavoranti agricoli in generale gli operai delle fabbriche.
Gente da pagare al minimo e da tenere a bada perche' non rivendicassero diritti? Non ti risulta? Se si prova amore per una cosa in genere si rimuovono i difetti. Puoi provare amore per il fascismo senza cercare contemporaneamentedi farci credere che il fascismo e' cosa buona. O del tuo amore per una schifezza tale ti vergogni?
Volendo aggiornare la questione si potrebbe arguire che la base materiale del fascismo oggi, (non quello folcloristico) e' il ruolo preponderante della macchinizzazione, della digitalizzazione, diretta da una elite di tecnocrati che nutre disprezzo per la vita dell'essere umano e sogna di poterlo sostituire e annientarlo.
Si chiamavano cosi i finanziamenti dei latifondisti agrari e dei padroni delle fabbriche?
Chiedo per un amico
Perche' sembra che senza finanziamenti non si va da nessuna parte?
Sara' la tecnica di tesla a pesare nell'avvento dei poteri americani o i lauti milioni disposti a finanziare le campagne elettorali e i gruppi di pressione?
Che poi la tecnica eserciti le sue suggestioni ... convinti che avvenga per generazione spontanea?
Mai sentito parlare di marketing?
Cose senza senso?
Chiedo, sempre per un amico
l'osceno Littell e le sue "benevole"
Osceno littell o quello che littell racconta di una mente nazifascista?
Una a caso, non dovevano essere diverse come neuroni.
Per mano destra e sinistra intende quelle con cui afferravano i lucrosi finanziamenti dai padroni delle acciaierie, dei latifondi e dell'industria?
Avevano fascinazione per le mani, indubbio. In assenza di mani avrebbero avuto anche fascinazione per i piedi se ingrado di afferrare finanziamenti e potere.
I fascisti forse, i nazisti un po' meno, non gradivano disabili e mutilati, esistevano appositi luoghi e metodi per farli sparire alla svelta, per sempre.
Dall'asserita analogia fra gli olocausti dei (complemento di specificazione) e dei (complemento d'agente) giudei, sembra intuirsi che lui ed Esposito identificano il fascismo coll'oppressione e la violenza esercitata dal forte contro il debole. Dunque erano fascisti anche il pitecantropo che scannava il suo simile pel possesso d'una preda di caccia, i faraoni che conquistavano il Sinai e gli aztechi che sacrificavano i prigionieri di guerra al dio sole.
In codesta accezione non c'è da meravigliarsi che il fascismo appaia loro "un prototipo in via di continua elaborazione" nonché una "macchina generativa". Una profonda intuizione filosofica.
Al posto del ponderoso volume di Esposito e dell'altrettanto ponderosa recensione di Ronchi bastava dire che i nostri due Filosofi si riconoscono nel pregiudizio umanitario, ed infliggono la scomunica di Fascismo (elevato a categoria metastorica) su ogni comportamento contrario al loro manitù, specie se perpetrato su larga scala.
Del pitecantropo non so nulla, ma dei finanziamenti dei latifondisti e degli industriali al fascismo si sa molto. Non e' che passavano il grano a gratis, mai pensato che da forti (erano forti, erano i padroni) chiedevano di tenere a bada e sfruare i deboli?
Deboli erano i carrellanti dell'emilia, i lavoranti agricoli in generale gli operai delle fabbriche.
Gente da pagare al minimo e da tenere a bada perche' non rivendicassero diritti? Non ti risulta? Se si prova amore per una cosa in genere si rimuovono i difetti. Puoi provare amore per il fascismo senza cercare contemporaneamentedi farci credere che il fascismo e' cosa buona. O del tuo amore per una schifezza tale ti vergogni?