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Ripensare la pianificazione socialista

di Gabriele Repaci

49085486 1116841328488089 8195723733155971072 n.jpgIntroduzione

La crisi finanziaria globale del 2007-2008, esplosa a partire dal mercato dei mutui subprime negli Stati Uniti, non è stata il frutto del caso né il risultato di un momentaneo malfunzionamento del capitalismo.

Al contrario, essa ha rappresentato, nelle sue caratteristiche fondamentali, l’essenza stessa del modo di produzione capitalistico: la corsa sfrenata al massimo profitto, la compressione dei diritti della classe lavoratrice e i tentativi disperati di sfuggire alla crisi di sovrapproduzione attraverso la speculazione finanziaria, l’espansione del credito e la creazione artificiosa di moneta.

Quando i profitti non possono più essere sostenuti dalla produzione reale, il sistema reagisce spostando la contraddizione nel regno del denaro e del debito, gonfiando bolle speculative e alimentando un’instabilità cronica che si traduce in crisi sociali e politiche.

L’irrazionalità del capitale — la sua anarchia, la sua disumanità — emerge così in tutta la sua drammaticità, travolgendo le speranze di milioni di persone in ogni continente.

Le crisi più recenti non hanno fatto che confermare questa tendenza.

La pandemia di Covid-19 ha mostrato l’incapacità dei mercati globali di garantire la sicurezza collettiva anche di fronte a un’emergenza sanitaria, rivelando la fragilità delle catene di approvvigionamento e la dipendenza di interi settori da logiche di profitto immediato.

Il conflitto in Ucraina e la guerra in Gaza hanno evidenziato il nesso sempre più stretto tra economia e militarismo, con la produzione di armi e l’energia trasformate in strumenti di egemonia e di ricatto geopolitico.

Nel frattempo, la crisi climatica e ambientale ha reso evidente il carattere autodistruttivo di un modello fondato sull’accumulazione illimitata: incendi, alluvioni, siccità e migrazioni di massa sono i segni tangibili di un’economia che consuma le proprie condizioni di esistenza.

Tutte queste crisi — sanitaria, bellica, ecologica — non sono eventi separati, ma manifestazioni convergenti della crisi strutturale del capitalismo globale.

In questo contesto, parlare di socialismo e di pianificazione economica in Europa significa ancora oggi sfidare un tabù.

La stessa Unione Monetaria Europea sorse dalle ceneri del socialismo reale, cioè del primo tentativo storico di organizzazione pianificata dei rapporti sociali alternativa alla riproduzione capitalistica.

A più di trent’anni dall’implosione dell’URSS, non si è ancora riusciti a elaborare pienamente quell’esperienza: i suoi risultati, i suoi errori, i suoi orrori continuano a essere trattati come materia ideologica più che come oggetto di indagine scientifica.

Questa mancata elaborazione del passato ha prodotto una rimozione collettiva del problema della pianificazione: la questione di come coordinare coscientemente la produzione sociale — in luogo della concorrenza cieca del mercato — è stata semplicemente espunta dal dibattito politico e accademico.

Eppure, l’epoca attuale ne reclama il ritorno.

La combinazione di crisi economiche ricorrenti, disuguaglianze crescenti, emergenze climatiche e conflitti geopolitici ha reso evidente che il capitalismo globale non è in grado di garantire un equilibrio sostenibile né sul piano sociale né su quello ambientale.

È giunto il momento di elaborare il “lutto sovietico”, di delimitare storicamente quella vicenda, riconoscerne i limiti e le grandezze, e restituire legittimità teorica e politica al discorso sulla pianificazione.

Solo una riflessione nuova sulla pianificazione socialista — capace di integrare democrazia, sostenibilità e razionalità collettiva — può rispondere alle sfide del nostro tempo.

A partire da queste considerazioni, è necessario tornare alle radici teoriche della questione.

Il dibattito sulla pianificazione economica socialista ha accompagnato tutto il XX secolo, attraversando l’intera parabola delle esperienze storiche del socialismo reale. Dalla critica di Ludwig von Mises e Friedrich Hayek alla risposta dei socialisti di mercato come Oskar Lange, fino alle analisi di Alec Nove e dei teorici contemporanei della “pianificazione computazionale”, la questione di fondo è rimasta la stessa: è possibile coordinare un’economia complessa senza il mercato?

Per lungo tempo la risposta è stata cercata nel terreno tecnico. L’insuccesso dei sistemi di pianificazione centralizzata veniva attribuito all’enorme quantità di informazioni che un organo centrale avrebbe dovuto raccogliere, elaborare e tradurre in decisioni operative. La conclusione, comune tanto ai liberali quanto a molti socialisti riformisti, era che nessun piano può funzionare senza il mercato come meccanismo informativo. La pianificazione, si diceva, è condannata perché non può “sapere abbastanza”.

Ma questa diagnosi, pur contenendo un nucleo di verità, ne ha sempre trascurato un’altra più profonda: il problema della pianificazione socialista non è la quantità dell’informazione, bensì la sua qualità politica. In altre parole, non è tanto una questione di calcolo quanto di libertà.

L’esperienza sovietica ha mostrato che un sistema può disporre di immense risorse di raccolta dati, di organi statistici imponenti, di migliaia di piani settoriali — e tuttavia produrre informazioni false, distorte, inutilizzabili. Questo perché l’informazione, per essere vera, richiede un ambiente sociale in cui dire la verità sia possibile, e anzi incoraggiato.

La pianificazione sovietica non fallì per mancanza di computer o di mercato, ma per mancanza di democrazia: non fu un errore tecnico, ma politico.

In assenza di libertà di critica, di partecipazione e di feedback reale da parte dei produttori e dei consumatori, l’informazione economica perdeva progressivamente significato: le imprese comunicavano ciò che i superiori volevano sentire, i funzionari adattavano i dati ai piani già approvati, e il piano diventava una rappresentazione fittizia della realtà.

La pianificazione socialista, se vuole essere razionale, non può quindi ridursi a un esercizio di ingegneria amministrativa o informatica.

Essa è, prima di tutto, un processo politico e comunicativo, un campo di confronto e di cooperazione in cui le diverse componenti della società devono potersi esprimere, criticare, correggere e apprendere collettivamente.

Solo un effettivo controllo operaio sulla produzione può generare un’informazione economica autentica, capace di sostituire ai segnali ciechi del mercato la coscienza collettiva dei produttori e dei consumatori.

Il presente saggio intende ripensare la questione della pianificazione socialista a partire da questa prospettiva: non come problema di potenza di calcolo, ma come problema di verità sociale.

Esaminerò dapprima il dibattito classico sul calcolo economico e le sue aporie, per poi mostrare come la crisi dell’URSS e l’esperienza del socialismo di mercato abbiano rivelato i limiti della pianificazione tecnocratica.

A partire da ciò, proporrò una riflessione sul concetto di qualità dell’informazione, intesa come espressione della partecipazione democratica e dell’autonomia dei soggetti produttivi.

Infine, discuterò le prospettive attuali aperte dall’informatica e dal cosiddetto “socialismo cibernetico”, mostrando come la tecnologia possa essere utile solo se inserita in un quadro di libertà e deliberazione collettiva.

Non si tratta, marxianamente parlando, di servire “ricette per le osterie dell’avvenire”, ma di restituire alla pianificazione socialista il suo carattere di auto-organizzazione consapevole, radicato nella qualità dell’informazione e nella partecipazione.

 

1. Il dibattito classico: calcolo, mercato e piano

Il dibattito sul calcolo economico in regime socialista nasce negli anni Venti del Novecento e costituisce una delle controversie più importanti dell’economia del XX secolo.

Nel 1920, l’economista austriaco Ludwig von Mises (1881–1973) pubblicò il celebre saggio Economic Calculation in the Socialist Commonwealth, nel quale negava la possibilità stessa, per una società socialista, di risolvere in modo razionale il problema dell’allocazione delle risorse produttive.

Il suo ragionamento è semplice e radicale: senza un mercato dei mezzi di produzione non può esistere calcolo economico.

Per Mises, la razionalità economica presuppone una valutazione quantitativa relativa delle risorse, resa possibile soltanto da un sistema dei prezzi formatosi attraverso la concorrenza tra proprietari privati di beni e servizi.

Il socialismo, sopprimendo la proprietà privata e sostituendo all’agire del mercato le direttive di un centro di pianificazione, elimina il mercato dei beni capitali e, con esso, il meccanismo di formazione dei prezzi.

Senza questi “indici delle alternative”, sosteneva Mises, non è possibile determinare l’uso più efficiente dei fattori produttivi, né stabilire dove e come investire: senza prezzi non c’è calcolo; senza calcolo non c’è economia razionale.

Il socialismo, in questa prospettiva, equivarrebbe dunque alla soppressione stessa della razionalità economica.

Per Mises — e, in seguito, per Friedrich von Hayek — il mercato non è soltanto un meccanismo di scambio, ma un dispositivo cognitivo: il luogo in cui le informazioni disperse tra milioni di individui si condensano nei prezzi.

Questi ultimi non sono meri numeri contabili, ma messaggi sintetici che incorporano conoscenze tacite, preferenze, rischi e aspettative.

Un piano centrale, per operare razionalmente, dovrebbe raccogliere e coordinare esplicitamente tutte queste informazioni — un compito che, anche con la migliore burocrazia, sarebbe impossibile.

Hayek parlerà, a questo proposito, di “presunzione fatale” (The Fatal Conceit): la convinzione che una mente centrale possa sostituire il processo spontaneo di scoperta che caratterizza il mercato.

La replica socialista non si fece attendere.

Negli anni Trenta, Oskar Lange e Abba Lerner cercarono di dimostrare che la razionalità del mercato poteva essere riprodotta all’interno di un’economia socialista.

Il loro modello del socialismo di mercato prevedeva imprese pubbliche che, pur non essendo di proprietà privata, si comportavano come se lo fossero: reagivano ai prezzi fissati da un’autorità di pianificazione, perseguivano l’efficienza, e fornivano segnali utili per l’allocazione delle risorse.

Il “comitato di pianificazione” avrebbe poi aggiustato i prezzi — al rialzo o al ribasso — fino a raggiungere l’equilibrio tra domanda e offerta, un po’ come nel modello walrasiano del mercato perfetto.

Lange poteva così sostenere ironicamente che, grazie al socialismo, il mercato avrebbe finalmente funzionato “come avrebbe dovuto funzionare anche nel capitalismo, se non fosse distorto dal profitto”.

Tuttavia, l’eleganza formale del modello nascondeva una fragilità concettuale.

Il meccanismo di Lange era logicamente coerente, ma sociologicamente vuoto:

presupponeva agenti obbedienti, informazioni sincere, e un’autorità benevola che “aggiusta” i prezzi senza interessi propri.

Ignorava ciò che Mises e Hayek avevano colto — forse per vie ideologicamente opposte — con maggiore realismo: che l’informazione economica non è un dato neutro, ma il prodotto di rapporti sociali e istituzionali.

L’ipotesi che un organo centrale possa conoscere e correggere tutto presuppone un contesto di verità, di fiducia e di responsabilità che non può essere imposto dall’alto.

A partire dagli anni Cinquanta, economisti come Ota Šik in Cecoslovacchia, János Kornai in Ungheria e poi Alec Nove nel Regno Unito ripresero la questione cercando soluzioni più realistiche.

Le esperienze del cosiddetto “socialismo riformato” — dalla Jugoslavia di Tito alla Polonia di Gierek — mostrarono che era possibile introdurre elementi di mercato all’interno della pianificazione, ma non eliminarne del tutto le contraddizioni.

Come riconosceva Nove, “non si può avere mezzo mercato”: se le imprese pubbliche non rischiano il fallimento, il mercato è fittizio; se lo rischiano davvero, il socialismo scompare.

Il risultato fu una serie di compromessi instabili, in cui la logica del profitto e quella della pianificazione continuavano a coesistere in tensione permanente.

In questo quadro, il problema della pianificazione socialista è rimasto prigioniero di un’alternativa fallace: da un lato, la pianificazione tecnocratica incapace di apprendere;

dall’altro, il mercato autoregolato incapace di garantire giustizia e coerenza sociale.

Entrambi presuppongono un’informazione perfetta e impersonale — il piano la vuole centralizzare, il mercato la lascia fluttuare — ma nessuno dei due affronta la questione decisiva: chi produce l’informazione economica, e in quali condizioni sociali lo fa?

Questa domanda, rimossa dal dibattito classico, è invece la chiave del problema.

Se la pianificazione è un processo politico, allora l’informazione economica non può essere ridotta a un problema di quantità di dati, ma diventa una questione di qualità sociale: di partecipazione, di libertà di parola, di controllo reciproco.

Laddove questi elementi mancano, nessun meccanismo — né il piano né il mercato — può generare razionalità.

La sfida, dunque, non è scegliere tra piano e mercato, ma ripensare la produzione dell’informazione come espressione di una società realmente democratica.

 

2. Il caso sovietico: quantità d’informazione, scarsità di verità

L’Unione Sovietica rappresentò, per oltre sessant’anni, il più vasto esperimento di pianificazione economica della storia moderna.

Nel suo apparato di piani quinquennali, di ministeri settoriali, di uffici statistici e di commissioni centrali, il socialismo “reale” cercò di trasformare in pratica ciò che per i teorici del calcolo economico era rimasto un paradosso: la possibilità di coordinare un’economia complessa senza mercato.

E in effetti, a partire dagli anni Trenta, l’URSS riuscì a mobilitare risorse enormi, industrializzare un Paese arretrato, e realizzare imprese tecnologiche di prim’ordine.

Il sistema produceva molta informazione: migliaia di indicatori, rapporti mensili, piani fisici per settori e sottosettori, un flusso costante di dati inviati dal basso verso il centro.

Tuttavia, proprio questa abbondanza apparente nascondeva la sua debolezza strutturale: l’informazione non era veritiera.

Ogni livello della burocrazia tendeva ad adattare i dati agli obiettivi del superiore, per evitare sanzioni o per ottenere risorse.

Le imprese dichiaravano di aver raggiunto gli obiettivi del piano anche quando la produzione era di qualità scadente o parzialmente inutilizzabile; i dirigenti manipolavano le cifre; i ministeri centrali gonfiavano o riducevano gli obiettivi per non esporsi a critiche.

L’intero sistema soffriva di ciò che l’economista ungherese János Kornai avrebbe definito “razionalità amministrativa”: l’obbedienza formale sostituiva la razionalità economica, e il rispetto delle procedure prendeva il posto della verità.

Con il consolidarsi del sistema, la pianificazione sovietica assunse un carattere sempre più quantitativo e formalistico.

Le imprese venivano valutate in base al rispetto degli indicatori fisici del piano — tonnellaggio, metri di tessuto, unità prodotte — anziché per la qualità o l’utilità effettiva dei beni.

Questo orientamento creò un insieme di incentivi perversi: le fabbriche tendevano a privilegiare la quantità rispetto alla funzionalità, a gonfiare le scorte o a produrre beni di grandi dimensioni per raggiungere gli obiettivi numerici.

L’innovazione tecnica e organizzativa risultava scoraggiata, poiché implicava il rischio di rallentamenti, di deviazioni dal piano o di perdita di posizioni all’interno della gerarchia amministrativa.

Nei settori destinati ai consumatori, la distanza tra produzione pianificata e domanda reale divenne crescente.

L’assenza di canali informativi attendibili e la separazione sociale della burocrazia dai bisogni quotidiani della popolazione alimentarono un generale declino qualitativo.

Già Trockij aveva colto questa contraddizione, osservando che misurare il progresso economico soltanto in termini fisici equivaleva a giudicare la forza di un individuo dalla sua altezza.

Le statistiche lo confermavano: nel solo 1971, milioni di articoli dell’industria leggera furono oggetto di reclami per difetti di fabbricazione o inadeguatezza all’uso.

Il sistema, pur capace di mobilitare risorse imponenti, non riuscì a sviluppare meccanismi di responsabilità economica decentrata, né una reale capacità di apprendimento.

La stessa logica si estese alla sfera ambientale: la devastazione del lago d’Aral, l’inquinamento del Bajkal e la catastrofe di Černobyl' rappresentarono il riflesso materiale di una pianificazione cieca, che continuava a produrre dati anche quando aveva smesso di produrre verità.

Alcuni economisti sovietici compresero lucidamente la natura del problema.

Tra essi, Viktor Vasil’evič Novožilov osservò che “la democratizzazione della direzione è necessaria non solo perché, essendo l’economia nazionale un sistema troppo complesso, la sua direzione non può essere del tutto centralizzata, ma anche per lo sviluppo dell’attività creativa delle masse popolari”. In questa affermazione si coglie l’intuizione — rimasta inascoltata — che la razionalità economica dipendeva dalla partecipazione, non dalla potenza di calcolo.

Novožilov aveva intuito che la complessità crescente del sistema produttivo richiedeva una diffusione orizzontale dell’informazione e del potere decisionale: solo così la pianificazione avrebbe potuto trasformarsi da comando gerarchico in cooperazione sociale.

In teoria, il piano sovietico doveva garantire coerenza, coordinamento, previsione; nella pratica, produceva una realtà duplicata: una nei documenti ufficiali, un’altra nelle fabbriche e nei negozi.

Il flusso informativo era quantitativamente imponente, ma qualitativamente vuoto.

I numeri salivano, ma il loro contenuto di conoscenza diminuiva.

Il sistema di pianificazione, fondato sul comando, generava un’informazione sistematicamente distorta perché nessuno era libero di dire ciò che non corrispondeva alle aspettative del centro.

In un contesto politico autoritario, la menzogna diventava razionale: dire la verità era un errore amministrativo.

L’esempio più eloquente di questo paradosso emerge dal confronto tra due settori dell’economia sovietica: quello militare e quello civile.

Nel primo, l’apparato statale agiva come un committente forte.

I ministeri della difesa e dell’industria bellica disponevano di competenze tecniche, risorse e potere contrattuale; potevano criticare, respingere, esigere miglioramenti.

La relazione tra domanda e offerta, pur dentro un sistema pianificato, era reale e reciproca.

Quando un prototipo non funzionava, il committente ne richiedeva la revisione; quando una tecnologia era insufficiente, si aprivano nuovi laboratori di ricerca; e l’esito — missilistica, aviazione, elettronica militare — fu di livello mondiale.

Nel settore dei beni di consumo, invece, il “cliente” non esisteva.

I consumatori non avevano voce, i negozi non potevano scegliere i fornitori, i produttori rispondevano solo ai numeri del piano.

Nessuno chiedeva miglioramenti, perché nessuno poteva farlo.

Il risultato fu la nota combinazione di penurie, sprechi e scarsa qualità.

La pianificazione funzionava dove esisteva un rapporto di forza concreto, e falliva dove regnava il silenzio.

Questo contrasto mostra che non è il mercato a generare informazione utile, ma il dialogo reale tra soggetti dotati di parola e di potere.

Il piano sovietico non era troppo grande per funzionare; era troppo muto.

L’assenza di potere reale della classe lavoratrice sui processi produttivi, di libertà di critica e di intervento dal basso, rese impossibile il corretto feedback tra i livelli dell’economia.

La verità, in senso economico, è una funzione politica: un sistema che reprime la parola della classe produttrice genera inevitabilmente menzogna sistemica.

Ecco dunque il paradosso dell’URSS: più cresceva la sua capacità tecnica e statistica, più peggiorava la qualità dell’informazione.

L’introduzione di nuovi strumenti di calcolo, di macchine elettroniche, di uffici sempre più sofisticati non risolse il problema — lo aggravò.

Ogni incremento nella quantità dei dati amplificava l’illusione di controllo, mentre la distanza tra piano e realtà cresceva.

La burocrazia sapeva sempre di più su ciò che non esisteva.

Il fallimento della pianificazione sovietica fu quindi, prima di tutto, un fallimento comunicativo: l’impossibilità di far circolare informazione autentica in un sistema fondato sul comando e sulla paura.

Dove non esiste libertà di parola, non può esistere razionalità economica.

E dove non c’è contraddittorio, il piano diventa cieco.

Questo caso storico mostra che la questione della pianificazione non si risolve né nei computer né nei mercati, ma nel modo in cui la società organizza la propria verità.

Solo una pianificazione democratica, basata su relazioni di cooperazione e critica reciproca, può generare un’informazione capace di guidare decisioni razionali.

Il problema dell’URSS non fu dunque l’assenza di dati, ma l’assenza di fiducia — la mancanza di un ambiente politico in cui il dato potesse essere discusso, contestato e migliorato.

 

3. La qualità dell’informazione come categoria politica

Dopo il fallimento delle grandi esperienze di pianificazione centralizzata, molti interpreti hanno tratto la conclusione che il problema del socialismo risiedesse in un difetto tecnico: troppa complessità, troppi dati, troppa lentezza di calcolo.

Ma questa interpretazione, per quanto diffusa, scambia il sintomo per la causa.

Il piano sovietico non era inefficiente perché “mancavano i computer”, ma perché mancava la libertà.

Il difetto non era la quantità d’informazione, ma la sua qualità politica e sociale.

Il concetto di qualità dell’informazione va inteso qui in senso radicalmente diverso da quello tecnico.

Non riguarda la precisione statistica, la rapidità di trasmissione o la potenza di calcolo, ma la veridicità e la significatività sociale dei dati.

Un’informazione è di qualità quando nasce in condizioni di libertà e di responsabilità, quando riflette bisogni e conoscenze reali dei soggetti coinvolti, e quando può essere discussa, criticata e corretta.

Questi requisiti, più che tecnici, sono profondamente politici: solo un contesto democratico può garantire che l’informazione economica sia affidabile, perché solo dove esiste libertà di parola è possibile comunicare gli errori, segnalare gli sprechi, ammettere i fallimenti.

Là dove il potere è concentrato e incontestabile, ogni dato tende a conformarsi alla volontà del centro, e dunque a perdere significato cognitivo.

In un sistema socialista, la qualità dell’informazione dipende dalla partecipazione diretta dei produttori e dei consumatori.

Il mercato, nel capitalismo, sostituisce questa partecipazione con un meccanismo impersonale di segnalazione: i prezzi.

Nel socialismo, il compito del piano non è semplicemente “replicare” il mercato con altri strumenti, ma renderlo superfluo attraverso la coscienza collettiva e l’interazione democratica.

I segnali di prezzo possono essere sostituiti dall’azione consapevole dei lavoratori e dei cittadini, se questi sono liberi di esprimersi, proporre, criticare.

In questo senso, la pianificazione non è un apparato, ma un processo deliberativo: un insieme di spazi e di procedure in cui la società discute se stessa.

Ciò che nel mercato è automatico — l’incontro di domanda e offerta — nella pianificazione socialista deve diventare cosciente e dialogico.

La corrispondenza tra bisogni e produzione non si ottiene più attraverso il profitto, ma attraverso il confronto.

Il lavoro, il consumo e la cittadinanza economica non sono ambiti separati, ma momenti di un’unica conversazione collettiva.

La razionalità economica nasce qui non dal calcolo, ma dal riconoscimento reciproco: la possibilità di far sentire la propria voce, di rispondere a quella altrui, di apprendere dagli errori.

Questo principio ha una portata pratica molto concreta.

Ogni sistema produttivo, anche capitalistico, ha dovuto riconoscere che l’informazione utile non può essere imposta dall’alto.

Già a partire dagli anni Sessanta, la complessità industriale ha costretto le imprese a introdurre forme di cooperazione interna: i circoli di qualità, il metodo Kanban, la produzione snella della Toyota.

Si trattava, in fondo, di una parziale ammissione: che il sapere produttivo è diffuso, e che la rigidità gerarchica distrugge informazione preziosa.

Nel socialismo, questo principio avrebbe dovuto essere portato a compimento, estendendo la partecipazione dal livello aziendale a quello sociale.

La democrazia economica non è un ornamento, ma il motore stesso della pianificazione.

La qualità dell’informazione, dunque, coincide con la qualità della democrazia.

Un’informazione libera è quella che nasce da rapporti di fiducia, di reciprocità, di responsabilità condivisa.

Nel linguaggio marxiano, potremmo dire che la conoscenza diventa una “forza produttiva immediata” solo quando è sottratta al dominio del capitale e resa comune.

In un’economia pianificata, ciò significa che la conoscenza deve circolare senza censura, come bene sociale, e non come strumento di potere.

Per questa ragione, la questione dell’informazione è inseparabile da quella della forma politica del socialismo.

Non basta cambiare la proprietà dei mezzi di produzione: bisogna trasformare i rapporti comunicativi che attraversano la produzione stessa.

Una pianificazione realmente socialista non è un sistema che comanda, ma un sistema che ascolta.

La sua razionalità non deriva dall’autorità, ma dalla discussione; non dalla previsione perfetta, ma dalla capacità di correggersi.

Solo un piano che accetta la critica può essere intelligente.

In definitiva, la qualità dell’informazione non è una variabile tecnica, ma una misura della libertà collettiva.

Dove gli uomini sono liberi di discutere il proprio lavoro, di dire la verità sui risultati e sui bisogni, anche il piano più complesso può funzionare.

Dove invece regna la paura o l’indifferenza, anche la più sofisticata tecnologia informatica produce solo rumore.

L’informazione, per il socialismo, non è un mezzo: è il riflesso vivo della sua forma politica.

 

4. Il feticismo della tecnica: il caso Cockshott e Cottrell

Negli anni Novanta, con la diffusione dei computer e delle reti informatiche, il vecchio problema del calcolo socialista sembrò improvvisamente riaprirsi.

Due studiosi britannici, Paul Cockshott e Allin Cottrell, pubblicarono nel 1993 Towards a New Socialism, un libro che proponeva una tesi audace: le difficoltà della pianificazione centralizzata del passato non erano intrinseche, ma tecnologiche.

Se il piano sovietico era fallito, non era per limiti logici, ma perché non disponeva ancora degli strumenti informatici adatti.

Grazie ai computer moderni, agli algoritmi di ottimizzazione lineare e alla potenza di calcolo crescente, la pianificazione integrale sarebbe finalmente possibile.

La loro proposta, a prima vista, risolveva brillantemente il problema posto da Nove e dagli austriaci: una rete di calcolatori potrebbe raccogliere i dati di produzione e di consumo, elaborare le tabelle input–output e trovare in tempo reale la combinazione ottimale delle risorse. I prezzi, nel senso capitalistico, diventerebbero superflui: ogni bene sarebbe valutato in tempo di lavoro socialmente necessario, e l’allocazione delle risorse avverrebbe attraverso un algoritmo che minimizza sprechi ed esternalità.

Il risultato, secondo gli autori, sarebbe un’economia efficiente, stabile e democratica, finalmente liberata dal mercato e dalla burocrazia.

Eppure, proprio questa promessa tecnologica rivela un nuovo tipo di illusione: il feticismo della tecnica.

Cockshott e Cottrell, pur muovendo da intenzioni radicalmente socialiste, finiscono per riprodurre la stessa logica che avevano criticato nei pianificatori sovietici: la convinzione che il problema della pianificazione sia una questione di calcolo, non di potere.

Nel loro modello, la razionalità del sistema dipende interamente dall’efficienza dell’algoritmo; la partecipazione umana è ridotta a preferenze aggregate, la decisione politica a un processo di ottimizzazione.

Ma nessun algoritmo può sostituire il conflitto, la deliberazione e la coscienza collettiva che definiscono la vita sociale.

Il feticismo della tecnica consiste nel credere che la verità possa essere prodotta da una macchina.

Si sposta la fede dal mercato al computer: ciò che prima era il “meccanismo impersonale dei prezzi” diventa il “meccanismo impersonale del calcolo”.

In entrambi i casi, il sapere umano e la partecipazione democratica vengono considerati superflui, sostituiti da un dispositivo neutrale e automatico.

Ma la tecnica, come ogni forma di sapere, non è mai neutrale: incorpora sempre le intenzioni, i valori e le gerarchie della società che la utilizza.

Affidare la pianificazione al calcolo significa, di fatto, depoliticizzarla.

Il rischio è quello di creare una nuova burocrazia digitale, non più composta da funzionari, ma da tecnici e programmatori, custodi del codice che governa la produzione.

La promessa di trasparenza e controllo collettivo si rovescia così nel suo contrario: una pianificazione opaca, perché comprensibile solo a pochi specialisti.

La conoscenza non torna alla società, ma si concentra in nuove mani, in un nuovo linguaggio.

La sostituzione della burocrazia con l’algoritmo non garantisce libertà; semplicemente, la traveste.

La forza della tecnologia, tuttavia, non va negata, ma ricontestualizzata.

Gli strumenti informatici possono ampliare enormemente la capacità cognitiva della società, ma non possono definire gli scopi di quella conoscenza.

Un piano automatizzato può indicare come minimizzare i costi energetici o ambientali, ma non può decidere quanto sacrificare la crescita per la sostenibilità, o quali bisogni considerare prioritari.

Queste sono scelte di valore, e quindi politiche.

La pianificazione socialista, per non cadere nel feticismo della tecnica, deve porre la tecnologia al servizio della deliberazione collettiva, non come suo sostituto.

Come scriveva Cornelius Castoriadis, “l’autonomia non consiste nel governo della ragione astratta, ma nella capacità di una collettività di riflettere e decidere su se stessa”.

La vera sfida non è costruire un piano perfetto, ma una società capace di interrogarsi sui propri fini.

La tecnologia può aiutare a gestire la complessità, ma non può sostituire la libertà.

Anzi, in assenza di libertà, diventa uno strumento di dominio più efficiente.

In questo senso, Cockshott e Cottrell rappresentano l’ultima forma di quella “presunzione razionalista” che, da Saint-Simon al Gosplan, ha attraversato tutta la storia del socialismo tecnico: la convinzione che la società possa essere governata come una macchina.

Ma una società socialista, se vuole essere anche democratica, non può fondarsi sul calcolo, bensì sulla comunicazione.

L’informazione, come abbiamo visto, non è un dato da raccogliere, ma un processo da costruire collettivamente.

Un computer può sommare, correlare, ottimizzare — ma non può ascoltare.

E senza ascolto, nessun piano è possibile.

Questa tentazione tecnocratica non appartiene solo al passato.

Nel dibattito politico contemporaneo, l’idea di una pianificazione “scientifica” riemerge in forme apparentemente rinnovate.

Un caso significativo è la proposta del Partito Comunista della Federazione Russa (PCFR), che negli ultimi anni ha promosso il progetto di un ritorno alla pianificazione statale basata sull’intelligenza artificiale.

Secondo il documento programmatico presentato dal partito e discusso nel 2022, il nuovo piano economico nazionale dovrebbe fondarsi su un sistema integrato di calcolo automatico dei flussi intersettoriali, capace di elaborare in tempo reale i dati provenienti da ministeri, imprese e autorità fiscali.

Il modello prevede la creazione di un “bilancio intersettoriale potenziato”, costruito secondo le matrici input–output di Leontief, ma aggiornato con strumenti di machine learning e simulazioni algoritmiche.

L’obiettivo dichiarato è quello di rendere la pianificazione “più oggettiva e scientifica”, sostituendo i meccanismi del mercato con un sistema di previsione automatica della domanda e dell’offerta.

La proposta include anche la formazione di un “centro unificato di informazione economica”, una sorta di banca dati nazionale contenente indicatori di produzione, consumi, risorse energetiche e bilanci pubblici, che l’intelligenza artificiale dovrebbe analizzare per suggerire decisioni ottimali al governo.

Si tratta di un’idea che riflette il nuovo feticismo tecnologico del nostro tempo: la convinzione che la complessità sociale possa essere domata attraverso la computazione e che l’intelligenza artificiale, grazie alla sua capacità di elaborare enormi volumi di dati, possa sostituire la deliberazione politica.

Come nel caso dei modelli di Cockshott e Cottrell, il problema non risiede nella tecnologia in sé, ma nella sua funzione sociale.

Anche il più avanzato sistema tecnologico, se separato dal controllo sociale, non produce socialismo ma amministrazione automatizzata.

La tecnica è uno strumento, non un soggetto: può servire la pianificazione solo se è diretta da una volontà collettiva, non se pretende di sostituirla.

La pianificazione democratica, al contrario, non può essere il prodotto di una macchina che “calcola per tutti”, ma di una società che discute e decide su sé stessa.

 

5. Per una teoria socialista della comunicazione economica

Se la pianificazione non può ridursi a un problema tecnico, ma è innanzitutto un processo comunicativo e politico, allora il compito del socialismo nel XXI secolo non è costruire un “piano perfetto”, ma una forma di comunicazione economica capace di produrre verità collettiva.

La sfida non consiste nel sostituire il mercato con un algoritmo, ma nel creare un sistema di scambio di informazioni in cui le decisioni produttive, le esigenze sociali e le conoscenze diffuse possano incontrarsi liberamente.

In questo senso, la pianificazione socialista può essere intesa come una rete deliberativa che traduce la cooperazione sociale in coordinamento economico.

L’economia moderna è già, in larga misura, una rete di comunicazione.

Ogni impresa, ogni catena di fornitura, ogni sistema logistico si fonda sulla trasmissione di informazioni.

Ma nel capitalismo, questa comunicazione è privata, parziale e orientata al profitto: i dati sono proprietà delle imprese, i flussi informativi sono segmentati, la conoscenza è concentrata.

Una pianificazione socialista deve invece socializzare la conoscenza, rendendola pubblica, condivisa e criticabile.

Solo così l’informazione diventa una forza produttiva autenticamente comune.

Immaginare una pianificazione socialista come sistema di comunicazione significa riconoscere che il sapere economico è distribuito, situato e in continua trasformazione.

Ogni lavoratore, ogni comunità, ogni settore produttivo possiede frammenti di conoscenza indispensabili alla razionalità del tutto.

La funzione del piano non è centralizzare questi frammenti, ma metterli in relazione, costruendo un flusso di retroazioni costante tra chi produce, chi distribuisce e chi consuma.

Non si tratta di un centro che comanda e di una periferia che obbedisce, ma di un tessuto di nodi interconnessi in cui le informazioni circolano orizzontalmente.

In un tale sistema, il concetto di “piano” cambia significato: non è più un documento quinquennale fissato dall’alto, ma un processo permanente di comunicazione e apprendimento collettivo.

Le decisioni economiche vengono prese attraverso una combinazione di criteri tecnici, deliberazioni democratiche e sperimentazioni locali.

Le tecnologie digitali possono servire da infrastruttura — piattaforme pubbliche, reti di dati aperti, sistemi di coordinamento cooperativo — ma il cuore del sistema resta umano: la capacità di discutere, negoziare, proporre.

Invece di sostituire la coscienza collettiva con un algoritmo, la pianificazione socialista dovrebbe amplificarla.

Un’economia socialista della comunicazione non elimina il conflitto, ma lo rende produttivo.

Il conflitto di interessi, di visioni e di priorità non è un ostacolo alla pianificazione, bensì la sua condizione di vitalità.

Solo in un ambiente dove i diversi soggetti possono confrontarsi apertamente — lavoratori, tecnici, consumatori, comunità locali — l’informazione si arricchisce, si affina, diventa realmente rappresentativa dei bisogni sociali.

Il piano, in questo senso, è la forma organizzata del dialogo: un modo per tradurre il disaccordo in decisione comune.

Da questa prospettiva, la democrazia operaia non è un complemento etico, ma una necessità funzionale.

Senza partecipazione, il piano si svuota; senza conflitto regolato, diventa dogma; senza trasparenza, degenera in arbitrio.

Una pianificazione socialista efficiente è tale solo se è trasparente e discutibile, perché la sua efficienza dipende dalla capacità di autocorrezione continua.

Ciò che nel capitalismo è affidato al “feedback dei prezzi”, nel socialismo deve essere affidato al feedback della parola.

La parola collettiva — il dibattito, la critica, la proposta — è il vero segnale informativo dell’economia democratica.

In questo senso, la pianificazione socialista può essere concepita come un’estensione della sfera pubblica dentro la produzione.

La fabbrica, l’impresa, l’istituzione produttiva non sono più spazi separati dal discorso politico, ma luoghi in cui si esercita la cittadinanza economica.

Le assemblee di lavoratori, i consigli di settore, le piattaforme pubbliche di deliberazione diventano i nodi attraverso cui la società riflette su se stessa e orienta la produzione ai propri fini collettivi.

La razionalità del piano non consiste più nella previsione perfetta, ma nella capacità di apprendere dai propri errori e di adattarsi.

Una teoria socialista della comunicazione economica riconosce dunque che la conoscenza è il principale mezzo di produzione del nostro tempo, e che la libertà è la condizione della sua produttività.

La pianificazione, in questo quadro, non è una negazione della spontaneità, ma la sua organizzazione consapevole.

Non sopprime l’iniziativa individuale, ma la integra nel tessuto cooperativo della società.

Laddove il mercato coordina gli individui attraverso la concorrenza, la pianificazione democratica li coordina attraverso la comunicazione.

Entrambi sono meccanismi di informazione, ma solo il secondo è cosciente del proprio scopo.

 

6. Verso una pianificazione intelligente e democratica

Il problema della pianificazione socialista non è mai stato soltanto economico.

Dietro le questioni di calcolo, di efficienza e di coordinamento si nasconde sempre una domanda più profonda: chi decide, e come si comunica la verità economica.

L’esperienza del XX secolo ha mostrato che nessun sistema può essere razionale se non è anche libero, e che la quantità di informazione non serve a nulla se la sua qualità è corrotta dalla paura o dall’indifferenza.

Un piano perfettamente calcolato ma politicamente muto non è un segno di razionalità: è una forma di alienazione.

La pianificazione socialista del futuro dovrà fondarsi su un principio opposto: l’intelligenza collettiva.

In un’epoca in cui la produzione è sempre più basata sulla conoscenza e sulla cooperazione, la libertà di comunicare diventa la principale forza produttiva.

Non è l’automazione che può salvare la pianificazione, ma la partecipazione.

Le tecnologie dell’informazione possono costituire una rete di supporto, ma non sostituire la deliberazione umana.

Un’economia realmente socialista non potrà nascere da un calcolo centrale, bensì da una coscienza sociale distribuita, capace di apprendere e di decidere in comune.

Il socialismo, inteso in questo senso, non è l’abolizione del mercato come luogo di informazione, ma la sua trasformazione in un processo consapevole di comunicazione.

Dove il mercato traduce i bisogni in prezzi, la pianificazione democratica li traduce in parole, in decisioni collettive, in orientamenti verificabili.

La “mano invisibile” diventa la voce pubblica della società.

La razionalità economica non è più il risultato di una competizione cieca, ma di una cooperazione cosciente.

Questa trasformazione richiede istituzioni nuove: consigli di produzione, assemblee di settore, piattaforme di deliberazione pubblica, sistemi di autogestione e di revisione partecipata — in altre parole, ciò che Lenin riassumeva nella parola d’ordine “Tutto il potere ai soviet”.

Non si tratta di un ritorno nostalgico alla pianificazione amministrativa, ma di una sua rinascita democratica, fondata sul principio che la verità economica è un bene comune.

Solo un’economia trasparente, in cui i flussi di informazione siano pubblici e discutibili, può essere anche efficiente, sostenibile e giusta.

La pianificazione socialista, intesa come processo di comunicazione collettiva, rappresenta così la forma più alta della democrazia: una società che decide non solo su chi governa, ma su come e per cosa lavora.

La libertà non è più confinata alla sfera politica, ma entra nel cuore della produzione.

In questo senso, il socialismo non è un progetto di controllo, ma un progetto di autonomia, un modo per rendere la società capace di governarsi da sé.

La sfida che si apre oggi, nell’epoca dell’informazione globale e dell’automazione, è proprio questa: restituire alla pianificazione la sua dimensione umanistica, liberandola dal feticismo della tecnica e dall’illusione del mercato.

Il futuro del socialismo non dipenderà dalla potenza dei computer, ma dalla potenza della parola libera. Un sistema socialista pianificato ha bisogno della democrazia come un corpo ha bisogno dell’ossigeno: non come ornamento, ma come condizione vitale della propria esistenza.

Solo dove l’informazione è condivisa, discussa e compresa da tutti, la pianificazione può diventare intelligente — e la libertà, concreta.

Il socialismo non è il dominio del piano sulla società, ma la società che diventa piano di se stessa.


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