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L’arte di governo è eludere le responsabilità
di comidad
Al di là dei contesti radicalmente diversi, si può riconoscere lo schema ricorrente, l’invarianza; che in questo caso è la cosiddetta “arte di governo”, ovvero l’eludere le proprie responsabilità tramite il vittimismo, la contrapposizione pseudo-ideologica e la gazzarra da talk-show. L’arte di governo è trasversale ai vari governi e ai differenti schieramenti politici, che convergono nella pratica di non precisare i confini tra lecito e illecito. La trasparenza della contestazione e della sanzione dell’eventuale illecito viene sostituita con una generica colpevolizzazione dei cittadini, con la quale giustificare pressioni indebite, terrorismo psicologico e discriminazioni. In epoca psicopandemica si è costruito su queste basi di incertezza giuridica e linguistica una sorta di virtuale obbligo vaccinale, la cui attuazione è stata condotta con strumenti arbitrari di limitazione dei diritti civili. Persino quando l’obbligo vaccinale è stato apparentemente proclamato per legge, si è però continuato nella farsa di voler estorcere la firma al “consenso informato”, negando la somministrazione del siero a coloro che volevano aderire all’obbligo manifestando chiaramente il proprio dissenso. L’ossimoro dell’obbligo che presuppone il consenso, è stato però avallato e santificato dalla Corte Costituzionale nella sentenza 14/2023, per cui si è creata una sorta di giurisprudenza in funzione dell’irresponsabilità del governo e della colpevolizzazione generica del cittadino comune. Lo schema funziona all’incontrario del famoso aforisma dell’Uomo Ragno, perché più potere si ha e più si riesce a scaricare sugli altri ogni responsabilità.
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Da una debacle all’altra: forse si apre il confronto nel M5S
di Gerardo Lisco
Dalla crisi dei consensi al Sud alla chiusura oligarchica: il Movimento 5 Stelle di fronte al proprio modello organizzativo.
Un movimento nato dal marketing politico
Una riflessione sul voto delle regionali in Calabria non può prescindere da un’analisi del Movimento 5 Stelle. Il movimento fondato come una pura e semplice operazione di marketing dal duo Grillo-Casaleggio nasce da una costola di Italia dei Valori e, come ha spiegato Antonio Di Pietro in un’intervista rilasciata a l’Espresso, è destinato — salvo sterzate dell’ultimo momento — a fare la stessa fine.
Il M5S, stando ai dati elettorali, si presenta come un movimento politico meridionale, il che non equivale a dire “meridionalista”. È passato dal 25,55% delle politiche del 2013 al 15,43% del 2022, perdendo in nove anni circa la metà degli elettori: da 8,7 a 4,3 milioni di voti.
Dalla crescita al Mezzogiorno al crollo nazionale
Nel 2013 il M5S registrava una percentuale omogenea in tutte le circoscrizioni, raramente al di sotto del 20%, con una media intorno al 25%. Il quadro cambia radicalmente nel 2018: al Nord il movimento conferma i dati del 2013, mentre nel Mezzogiorno supera il 40%, con punte prossime al 50%.
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Contro il militarismo e la logica del nemico, la nostra parte non è già data
di Fabio Ciabatti
∫connessioni precarie, Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 116, € 15,00
Di fronte “a ogni guerra la prima richiesta è sempre e comunque che le armi tacciano”. Ciò nonostante, “il nostro problema non è solo condannare la guerra ma anche opporre alla sua dura realtà parole e pratiche che essa non sia in grado di governare”. Se questo non avviene possiamo ottenere al massimo una tregua che non consente di cancellare le cause dei conflitti bellici. Queste considerazioni, che troviamo nel libro “Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente”, assumono particolare rilievo in considerazione della tragica scelta che deve affrontare Hamas, insieme alle altre formazioni armate palestinesi, di fronte al cosiddetto piano di pace di Trump: continuare la lotta armata facendo proseguire l’immane carneficina o arrendersi per interrompere il supplizio che comunque proseguirà, anche se, presumibilmente, con tempi più lunghi e modalità meno feroci. La resistenza palestinese sembra davvero trovarsi di fronte a una drammatica impasse. E allora, per non lasciarsi bloccare in questo vicolo cieco può essere utile adottare uno sguardo diverso nei confronti della coraggiosa lotta della popolazione di Gaza (e della Cisgiordania) con l’obiettivo di prefigurare possibili via di fuga dal tragico stallo a cui sembra destinata. Anche perché bisognerà in qualche modo approfittare delle condizioni tutt’altro che ideali in cui si trova oggi lo stato sionista, lacerato da profonde contraddizioni interne e investito da una diffusa condanna internazionale.
Certo, di fronte a un genocidio, ci si può legittimamente chiedere se sia possibile mantenere uno sguardo lucido sugli aspetti critici della resistenza palestinese senza divenire complici dei carnefici israeliani. O senza scadere in un eurocentrismo che solidarizza con i popoli oppressi solo finché non si ribellano perché, con i mezzi a loro disposizione, raramente lo possono fare rispettando il preteso bon ton occidentale. Sicuramente, non teme di andare controcorrente rispetto all’opinione diffusa nella sinistra, compresa quella radicale, l’autore collettivo che ha dato alle stampe il testo qui recensito. Si tratta di ∫connessioni precarie, un’area politica che assume come obiettivo centrale della sua analisi e della sua attività pratica la condizione globale e differenziata del lavoro contemporaneo che è sottoposto all’intreccio tra patriarcato, sfruttamento e razzismo.
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Contro il diritto internazionale
di Jacques Bonhomme
1. Il diritto internazionale come ideologia
Il diritto, nel senso più lato della parola, e guardando alla società borghese, non è soltanto ideologia. Pašukanis, per esempio, ha mostrato, in relazione al mondo storico della borghesia, la necessaria cooperazione del diritto con le forme economiche fondamentali del contratto proprietario, dello scambio delle merci e della disumanizzazione capitalistica del lavoratore, rivestito dell’uguaglianza delle merci in quanto merce forza-lavoro, la merce più importante, quella che deve produrre il valore delle merci. Perciò il diritto, fin dagli inizi della società borghese, è stato coessenziale alla produzione di valore, ossia di plusvalore attraverso plus-lavoro. Per questo Pašukanis fa rientrare il diritto nell’economia politica, e, contemporaneamente, lo sottrae alla sfera dell’ideologia, dove era stato confinato da interpretazioni frettolose, schematiche e soprattutto riduttive del materialismo storico. Questa accorta e lungimirante comprensione del pensiero di Marx sul diritto, non è rimasta isolata e marxisti molto diversi tra loro come l’ultimo Lukács e Toni Negri, ne hanno raccolto l’eredità, il primo in modo indiretto e seguendo un proprio cammino, il secondo in modo più esplicito. Sembra quindi assodato che quanto già sapevano, seppur senza un ampio sviluppo tematico, Marx e Lenin, e cioè che il diritto e lo Stato sono fattori organizzativi interni ai rapporti di produzione capitalistici, sia divenuto nella prassi e nel pensiero dei movimenti antimperialisti del Novecento, a seconda dei casi più o meno permeati dal marxismo, un’acquisizione ben assimilata. In conclusione, il diritto eccede l’ideologia in quanto è, insieme allo Stato, nel quale confluisce e dal quale procede, uno strumento materiale del dominio di classe, sia nazionale che internazionale.
Ma il diritto è anche ideologia, è una delle forme originarie dell’ideologia borghese, è scaturito dal modello delle dichiarazioni del XVIII secolo, e perciò è ideologia in quanto contraffazione del particolare interesse di classe borghese attraverso i fini e gli ideali generali – o universali – dell’homme e del citoyen.
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Homo homini lupus?
di Roberto Fineschi*
Smotrich avrebbe dichiarato: “Il diritto internazionale non si applica agli ebrei. Questa è la differenza tra il popolo eletto e gli altri”.
Si tratta evidentemente di una dichiarazione suprematista, atteggiamento già di fatto praticato nello sterminio in atto, ma qui c’è un passo in più: rivendicare formalmente di essere al di sopra di una legge uguale per tutti significa rinnegare l’universalismo, ovvero il pari diritto di individui e popoli a un trattamento analogo di fronte a essa.
Si rinnega in sostanza la civiltà del diritto, uno dei risultati più avanzati del mondo democratico prodotto dall’Occidente.
È il motivo per cui non si concede il termine genocidio: l’olocausto (in questa prospettiva alla quale fortunatamente molti ebrei non aderiscono) non è un crimine contro l’umanità, ma un crimine contro gli ebrei, una prevaricazione contro un popolo in quanto tale, non in quanto espressione del genere umano. Dunque, per coerenza, lo stesso crimine perpetrato verso altri non è lo stesso crimine perché non è l’atto in sé che conta, ma il soggetto contro cui viene perpetrato.
Senza girargli intorno: è semplicemente la legge del più forte e il “diritto” è di chi riesce a imporla.
Questo modo di ragionare ha ovviamente delle controindicazioni: se qualcuno volesse ripagare con la stessa moneta un domani a che cosa ci si potrebbe appellare per dire che non è giusto? Perché gli altri dovrebbero muoversi in difesa degli offesi? In base a quale criterio condannare chi in passato non si è mosso in difesa degli offesi se ciò dipende non dal principio ma dalla particolarità di chi subisce violenza?
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Piano di pace, piano di resa o piano della disperazione?
Paolo Arigotti intervista Fulvio Grimaldi
https://www.youtube.com/watch?v=0e-Ihl2BeO4
https://youtu.be/0e-Ihl2BeO4
(Nel video inquadrature alternative alla vulgata sul Piano di Pace)
L’etichetta che invita a comprare è “Piano di pace”, la sostanza dentro all’involucro è “Piano di resa incondizionata”, il nocciolo della proposta è “Piano della disperazione”.
Hamas e le altre componenti della Resistenza hanno ovviamente dato disponibilità al “Piano di Pace”. Non farlo avrebbe potuto far pensare che il loro è un cinico accanimento sulla guerra a spese dell’olocausto in atto del loro popolo. E’ palese, con Hamas, l’esistenza di una formazione bicefala, con una dirigenza, da anni a Doha, incline ad ascoltare con attenzione gli indirizzi dell’emiro che la ospita, e i più autonomi successori di Hanijeh e Sinwar sul campo di battaglia a Gaza (presenti con minore evidenza anche in Cisgiordania). Consapevoli, questi ultimi, di essere il fattore determinante perché il piano sia stato innescato, se non dalla disperazione, da un’urgenza di sopravvivenza del progetto sionista, con relative ripercussioni sul futuro del Grande Israele e, più in là, della restaurazione colonialista nell’area e in generale.
Il piano del trinomio Trump-Netanyahu-Blair arriva a poca distanza da quando, secondo la delicata definizione euro-atlantica, Israele stava terminando il “lavoro sporco” a Gaza e in giro per il Medioriente.
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“Chi c'è dietro, chi c'è dietro?” L'Algoritmo del Sospetto: 10 passaggi per dimostrare che il gatto ti sta manipolando
di Geraldina Colotti
In un eccellente libro intitolato La era del conspiracionismo (L'Epoca del complottismo), Ignacio Ramonet analizza, in prospettiva storica e attuale, come le teorie complottiste, diventate potenti armi ideologiche e politiche, stiano sempre più occupando spazio. A favorirle, sono le reti sociali, terreno fertile per la veloce diffusione di fake news che, con il loro continuo bombardamento, alimentano l'ossessione e il fanatismo dei dietrologi: per loro, c'è sempre “qualcosa dietro” e, va da sé che loro sanno sempre chi sia.
Smontare la granitica convinzione di un terrapiattista dimostrandogli che la terra è rotonda, è fatica di Sisifo, giacché ti dirà che la scienza è frutto di un grande complotto, eccetera eccetera. La società statunitense, dice Ramonet, concentrandosi soprattutto sull'assalto al Campidoglio del primo governo Trump, è stato lo scenario più propizio per questa vecchia strategia, e il presidente Trump il suo artefice.
Al proposito, però, l'Italia non ha nulla da invidiare, essendosi allenata sul tema per tutto il grande ciclo di lotta degli anni '70. Già prima del 1973 – quando, dopo il golpe in Cile contro Allende, Berlinguer riconobbe la Nato e lanciò il “compromesso storico” con la Democrazia cristiana – il Pci chiamava “fascisti rossi” i movimenti studenteschi e operai che ne contestavano, dall'estrema sinistra, l'autorità. Era, ovviamente, un modo per delegittimare politicamente e moralmente chi metteva in questione la “stabilità democratica” che il Partito comunista più forte d'Europa andava assumendo come dogma.
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Una nuova politica estera per l’Europa
di Jeffrey Sachs
1. Russia, storia di una minaccia inventata
L’economista di Columbia University smonta la narrazione occidentale della Russia come potenza espansionista
L'Europa è intrappolata in una crisi di sicurezza ed economica, guidata dalla paura di Russia e Cina e dalla dipendenza dagli Stati Uniti. In questa prima puntata del suo saggio «Una nuova politica estera per l’Europa», il professor Jeffrey Sachs sfida la narrazione della Russia come minaccia esistenziale per l’Europa. Ricostruendo gli episodi chiave della storia russa, dall’attacco alla Prussia orientale nel 1914 all’invasione dell’Ucraina del 2022, mostra come la percezione di un’«aggressività russa» sia storicamente distorta. E sostiene che le azioni di Mosca erano dettate da motivazioni difensive, non imperialistiche
L’Unione Europea ha bisogno di una nuova politica estera fondata sui veri interessi economici e di sicurezza del continente. Oggi l’Europa si trova in una trappola economica e di sicurezza in gran parte auto-inflitta: ostilità pericolosa con la Russia, diffidenza reciproca con la Cina e una vulnerabilità estrema nei confronti degli Stati Uniti. La politica estera europea è ormai guidata quasi interamente dalla paura di Russia e Cina — una paura che ha prodotto una dipendenza di sicurezza dagli Stati Uniti.
La subordinazione dell’Europa a Washington deriva quasi esclusivamente dal timore, ingigantito, della Russia: un timore amplificato dai Paesi dell’Est con una forte impronta russofoba e da una narrazione distorta della guerra in Ucraina. Convinta che la minaccia alla propria sicurezza venga innanzitutto da Mosca, l’Ue sacrifica tutti gli altri aspetti della propria politica estera – economia, commercio, ambiente, tecnologia e diplomazia – agli interessi statunitensi. Ironia della sorte, si stringe a Washington proprio mentre gli Stati Uniti diventano più deboli, instabili, erratici, irrazionali e persino pericolosi nel loro approccio verso l’Europa, fino a minacciarne apertamente la sovranità (come avvenuto con il caso della Groenlandia).
Per tracciare una nuova politica estera,
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“Per chi suona la campana”: etica ed epica di un capolavoro della letteratura mondiale
di Eros Barone
«Tu vai spesso dietro le loro linee» disse Karkov. [...] «Preferisco il fronte» aveva detto Robert Jordan. «Più si è vicini al fronte e migliore è la gente.» «E ti piace startene dietro le linee fasciste?» «Moltissimo. Abbiamo della gente in gamba là.» «Ebbene, cerca di capire che anche loro debbono egualmente avere la loro gente in gamba dietro le nostre linee. Noi li troviamo e li fuciliamo, e loro trovano i nostri e li fucilano. Quando stai dietro le linee loro, devi sempre pensare a quante persone loro debbono aver mandato dalla parte nostra.» «Ci ho pensato.»
Ernest Hemingway, “Per chi suona la campana”, cap. XVIII, Milano 1985.
Tutta l’opera di Hemingway è una critica della società: egli ha risposto ad ogni spinta morale del tempo, così come si fa sentire alla base dei rapporti umani, con una sensibilità che quasi non ha eguali [...]
Edmund Wilson, “La ferita e l’arco”, Milano 1973.
Ernest Hemingway amava profondamente la Spagna e la considerava come la sua seconda patria. Questa predilezione spiega l’intensità dei sentimenti con cui partecipò, fin dal luglio 1936, alla guerra civile spagnola, schierandosi ai primi posti tra i sostenitori della repubblica, come molti altri antifascisti americani ed europei. Nel corso di quella drammatica vicenda egli fu anche testimone dell’aspra lotta politica, ideologica e personalistica che divideva gli esponenti del governo repubblicano, i capi militari, i partiti e i rappresentanti delle forze internazionali che partecipavano alla guerra. Il romanzo “Per chi suona la campana”, scritto nel 1940, non narra soltanto un episodio significativo di quella vicenda militare, ma rispecchia anche i motivi politici e morali che, secondo l’autore, ne avevano segnato il cattivo andamento. Tuttavia, benché questi aspetti siano oggetto di una ricostruzione attenta e puntuale, il romanzo attinge il suo significato pregnante alla luce di una prospettiva ideale più ampia, fin quasi a configurarsi, per la carica simbolica che lo anima, come una vera e propria allegoria.
Una concisa sintesi della narrazione si rende perciò necessaria. Mentre in Spagna infuria la guerra civile, Robert Jordan, un giovane professore americano, si arruola come volontario nell’esercito repubblicano.
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Baran e Sweezy e il Potere operaio
di Leo Essen
Che cosa sono i costi di produzione socialmente necessari quando la differenza tra fabbricazione e vendita è cancellata? Se il limite posto dai costi è variabile, persino aleatorio, indefinibile, cosa sono i prezzi se non cartellini arbitrari; che sono l’interesse, il surplus, le valute, i cambi e le bilance commerciali?
La struttura del capitalismo monopolistico, dicono Baran e Sweezy (Il capitale monopolistico), è tale che un volume continuamente crescente di surplus non si potrebbe smaltire attraverso canali privati: in mancanza di altri sbocchi, il surplus non sarebbe prodotto affatto.
La situazione in cui una parte del surplus prodotto non trova impiego profittevole è quella del capitalismo concorrenziale. In esso un eccesso di capitali che non trova condizioni favorevoli di valorizzazione produce disoccupazione e disimpego di impianti.
Il sistema del laissez-faire – la concorrenza – produce una quantità di capitali superiore alle possibilità di valorizzazioni offerte dal mercato. Fino al 1870 questo capitale in eccesso veniva distrutto. Il mercato poteva riprendere il suo regolare funzionamento solo dopo questa distruzione.
In condizioni di laissez-faire il mercato è una struttura autonoma indipendente dal desiderio e dalla volontà dei partecipanti. La concorrenza conduce i prezzi al limite dei costi socialmente necessari alla produzione della merce. C’è un limite indipendente oltre il quale il mercato boccia le offerte. Questa struttura indipendente determina contemporaneamente l’impiego dei fattori – lavoratori, clienti, fornitori, proprietari – e la distribuzione dei prodotti.
Dopo il 1870, e in maniera decisiva dopo la Grande Depressione (1873-1896), il sistema dei prezzi rappresenta un limite per la valorizzazione. I prezzi che il mercato impone alle imprese, e sotto i quali esse non possono scendere, non sono più sostenibili. Il mercato boccia il mercato. Meglio non produrre affatto che produrre in perdita. A meno che non si trovi un metodo per ingannare il mercato e superare la concorrenza.
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Perù in fiamme, Bolouarte sotto accusa: contestata all’ONU e nelle piazze
di Geraldina Colotti
All’ottantesima Assemblea Generale dell’Onu, la rappresentante del Perù, Dina Bolouarte, ha concluso il suo intervento a microfoni spenti. Guasto tecnico o sordina intenzionale? Intanto, fuori dal Palazzo di Vetro, si facevano sentire i peruviani risiedenti a New York. Come molti concittadini immigrati in altri paesi, i peruviani che vivono negli Stati uniti non hanno perso occasione per protestare contro quella che considerano non la presidente, ma un’”usurpatrice”, che governa dal 7 dicembre del 2022, a seguito di un “golpe istituzionale” contro il maestro Pedro Castillo. L’ex presidente è tutt’ora in carcere e i manifestanti, che hanno denunciato la dura repressione subita dal 2022 a oggi, inalberavano le foto delle oltre 80 vittime e chiedevano la liberazione di Castillo.
Altri feriti – giornalisti e giovani manifestanti – si sono aggiunti in questi giorni a Lima, a seguito dei violenti scontri con la polizia, che ha duramente contrastato la manifestazione del movimento “Generazione Z”. A scendere in piazza sono stati i ragazzi cresciuti nell’era digitale che si organizzano attraverso piattaforme virtuali, innalzando simboli culturali come la bandiera di One Piece. La bandiera di One Piece, o Jolly Roger, è l’emblema del protagonista dell’omonima serie manga e anime giapponese, creata da Eiichiro Oda. Nella serie, è il simbolo della ciurma di pirati guidata da Monkey D. Luffy. Indica libertà, avventura e ribellione contro il potere costituito dal governo mondiale, che i pirati li considera criminali.
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Il flop di DSP
di Fabrizio Marchi
Un mio amico appartenente a quella che fu l’area cosiddetta “sovranista” mi ha chiesto quali sarebbero le ragioni, secondo il mio punto di vista, dell’ultimo flop elettorale di DSP (la formazione guidata da Marco Rizzo e Francesco Toscano), nel caso specifico nella regione Calabria dove ha ottenuto circa lo 0,9% (c’è anche da considerare che è la regione di Francesco Toscano dove infatti era candidato). Questa di seguito è stata la mia risposta che ho pensato di rendere pubblica.
Qualche settimana fa ho ascoltato su Facebook un brevissimo video/spot di Marco Rizzo in cui testualmente diceva:”Ma quale invasione della Russia, qui l’invasione è quella degli immigrati!”.
Ora, posso capire l’esigenza della sintesi, di lanciare un messaggio breve ed efficace che faccia presa sull’elettorato ma questa è una frase che potrebbe stare in bocca al più inveterato leghista o a qualsiasi catenaccio di estrema destra, anche di un militante di Casapound o di Forza Nuova.
Un comunista o un socialista dovrebbero entrare un po’ più nel merito e spiegare quali sono le cause strutturali dell’immigrazione, e cioè lo sfruttamento e il saccheggio a cui sono sottoposti i paesi della periferia del mondo a opera dei paesi ricchi, cioè sostanzialmente dell’Occidente a guida USA ma anche di altri, penso ad esempio al Qatar o all’Arabia Saudita che vivono anch’essi sullo sfruttamento dei lavoratori immigrati oltre che dai proventi del petrolio.
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Migranti e capitale
di Alberto Giovanni Biuso
Il significato del marxismo come analisi volta a comprendere la realtà e come spinta rivoluzionaria a trasformarla sta anche e specialmente nel rifiuto costante che Marx oppose a ogni prospettiva moralistica e sentimentale, proponendosi invece di pervenire a una comprensione quanto più oggettiva e fredda del divenire storico e dei conflitti tra le classi.
Das Kapital rappresenta il vertice di questa intenzione che è stata ed è feconda non in quanto ‘scientifica’, aggettivo che ricorre spessissimo nei testi marxiani ma che ne mostra la dipendenza dal clima positivistico dell’epoca, bensì in un fitto ragionare e argomentare, fondato su una miriade di dati statistici, di analisi sociologiche, di resoconti evenemenziali. Tutti trasformati poi in categorie generali dell’economia politica.
C’è nel Capitale una sezione che affronta un argomento centrale per comprendere il funzionamento e gli obiettivi del modo di produzione capitalistico. Si tratta della VII sezione del I libro, più esattamente del § 3 del capitolo n. 23. Il titolo del capitolo è La legge generale dell’accumulazione capitalistica (Das allgemeine Gesetz der kapitalistichen Akkumulation), quello del paragrafo è Produzione progressiva di una sovrappopolazione relativa ossia di un esercito industriale di riserva (Progressive Produktion einer relativen Übervölkerung oder industriellen Reservearmee).
In queste poche ma fondamentali pagine Marx applica la distinzione tra capitale costante (i macchinari e le materie prime) e capitale variabile (la forza lavoro, gli operai) alla relazione tra il plusvalore e i cicli di maggiore o minore impiego della forza lavoro, individuando in tale relazione una delle fonti più importanti dell’accumulazione capitalistica.
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Due anni, la Storia
di Enrico Tomaselli
Oggi sono passati due anni da quel fatidico 7 ottobre 2023, e ora che con il piano Trump si apre uno spiraglio – non ancora di pace per il Medio Oriente, ma forse di tregua per Gaza – si può fare un bilancio, anche se certamente non ancora definitivo. E poiché si tratta di una questione assai articolata e complessa, questo primo bilancio sarà diviso per comodità in due parti. In questo articolo esaminerò, sia sotto il profilo politico che militare, questi due anni di guerra, e soprattutto cosa ne emerge; in un articolo successivo invece esaminerò la vexata questio del via libera calcolato, da parte del governo israeliano, affinché l’attacco palestinese fungesse da giustificazione per il successivo genocidio. E cercherò di farlo non a partire da una posizione preconcetta – pro o contro questa tesi – ma da un esame quanto più oggettivo possibile, e sottolineo possibile, delle informazioni certe di cui a oggi disponiamo. Per il momento, mi limito a osservare che, se davvero l’operazione Al Aqsa Flood ha potuto essere messa in atto grazie a una decisione del governo di Tel Aviv, possiamo oggi affermare, con tutta evidenza, che in tal caso si sarebbe trattato della decisione più folle, più errata e più controproducente dell’intera storia di Israele.
Una delle cose che scrissi, nell’immediatezza dell’attacco palestinese del 7 ottobre, fu che quella operazione rappresentava la definitiva sconfitta politica del progetto sionista; e che, a quel punto, restava soltanto da attendere la sconfitta militare. Che, a due anni esatti di distanza, e anticipata da due fondamentali passaggi (il conflitto con Hezbollah, settembre-novembre 2024, e il conflitto con l’Iran, giugno 2025), è ora arrivata. Nell’arco di questo biennio, Israele ha semplicemente fatto a pezzi il progetto sionista, lo ha sbriciolato in un modo che rende semplicemente impossibile rimettere insieme i pezzi, e quando la spinta cinetica del conflitto si arresterà, la società israeliana sarà semplicemente squassata sino alle fondamenta dall’onda d’urto di questi due anni.Quando le formazioni combattenti della Resistenza palestinese lanciano l’attacco, il contesto geopolitico regionale – e non solo, ma questo al momento, lo lasciamo da parte – è caratterizzato fondamentalmente da due elementi.
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Aria frizzante. Un punto di vista dalla provincia sulla marea del «Blocchiamo tutto»
di kamo
0. Ci sono giorni che valgono anni. Le ultime settimane, dal 22 settembre al 4 ottobre, sono state tra questi. Anche a Modena.
1. Due scioperi generali che hanno travalicato le appartenenze (o non appartenenze) sindacali e fermato, rallentato, sabotato, la fabbrica della guerra che è nel suo complesso il sistema-Italia e di cui Modena è uno dei suoi reparti più avanzati. Una composizione eterogenea e trasversale di massa e diffusa che ha utilizzato strumentalmente e pragmaticamente le scadenze di sigle, collettivi e delle più svariate infrastrutture organizzative per scendere in mobilitazione permanente. Che, capillarmente, dai territori metropolitani a quelli provinciali, su livelli di intensità variabile da territorio a territorio, ha occupato le strade, le piazze, le facoltà, le scuole, i magazzini, gli stabilimenti, le stazioni, le tangenziali, tentando di praticare con slancio e determinazione l’obiettivo del “blocchiamo tutto”. Una oceanica manifestazione nazionale che ha fatto tremare, per la prima volta, un governo di postfascisti, atlantisti e sionisti – scappati fuori Roma – a digiuno di opposizione. Per non parlare, appunto, delle imbelli, inutili e ipocrite opposizioni della Sinistra, atlantista e sionista, saltate a bordo all’ultimo – citofonare Landini e Schlein – per timore di rimanere naufraghe.
2. L’avevamo percepito il lunedì di sciopero generale che l’aria non era più la stessa. Certe cose le senti: ti lasciano il sapore dell’elettricità in bocca. Il 22 settembre abbiamo assaporato un gusto che non sentivamo da molto tempo a Modena.
La manifestazione degli studenti è rumorosa e con numeri (circa 400-500) che non si vedevano da decenni – anche se a maggioranza liceali e con poco apporto di seconde generazioni – portati per la gran parte dal “lavorio invisibile” di un gruppo di giovani senza pregressi politici nato, più o meno spontaneamente, un paio di settimane prima, “Giovani di Modena per la Palestina”. Piazza Grande è ingrossata da lavoratori delle più disparate categorie: operai della logistica e non solo, professionisti e partite iva, insegnanti, impiegati dell’industria, tecnici, precari, operatori delle cooperative, tirocinanti, universitari, perfino i funzionari della CGIL. La manifestazione arriva a contare circa 3000 persone e si carica di un’energia che neanche i soliti, interminabili comizi al microfono riescono a spegnere.
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IA è compatibile con noi?
di Riccardo Fedriga
Immaginiamo di vivere in un mondo popolato da umani perfettamente razionali, chiamiamoli Penelope, che convivono con altrettanti Ulisse, macchine artificiali deferenti e utili: la convivenza tra le due specie non sarebbe un problema. Ulisse passa la vita a imparare, con discrezione e pazienza, le preferenze della sua padrona, diventandone l’assistente perfetto. Ma la realtà è ben diversa: l’umanità non è un blocco monolitico, bensì una costellazione di individui contraddittori, invidiosi, irrazionali, incoerenti e complessi. Una moltitudine che si evolve, si scontra, cambia direzione, pretende di ottenere tutto e subito per ciascuno. Qui nasce il dilemma. Come far coesistere preferenze individuali e interessi collettivi e istruire le intelligenze artificiali così che soddisfino i requisiti per il bene comune? Come può Ulisse prendere le misure per soddisfare i capricci egoistici e le pretese degli umani? Ce ne parla Compatibile con l’uomo, pubblicato oggi da Einaudi e uscito nel 2019 dalla penna di Stuart Russell, informatico e direttore del Center for Human-Compatible Artificial Intelligence a Berkeley. Insisto sul 2019 non per sottolineare ritardi dell’editore quanto per rilevare come sia incredibile che un volume, uscito solo sei anni fa, possa già essere considerato un classico.
Partendo da un dibattito filosofico che affonda le sue radici nelle ricerche sviluppate dagli utilitaristi tra la metà del XVIII secolo e il XIX, Bentham e Mill su tutti, Stuart Russell ripercorre per temi le tappe di un’area di studi, che certo non è nata nel 2020 con il lancio di GPT-3, ma che pochi oggi hanno la capacità di disegnare in modo organico. Dalle discussioni avviate da Alan Turing alla metà degli anni Trenta del secolo scorso (che sfociarono nel congresso del 1956 al Darmouth College - New Hampshire, con McCarthy, Minsky, Shannon, Rochester, Newell e Samuel) il libro, che per chiarezza, attendibilità e capacità di organizzare gli argomenti dovrebbe essere adottato ovunque si studi intelligenza artificiale, ne ripercorre la storia sino alle AI generative e ai modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM).
Compatibile con l’uomo, tuttavia, non è solo un viatico autorevole tra storia e problemi dell’intelligenza artificiale. È soprattutto una proposta su come l’uomo possa pensare non meglio o peggio ma con essa: una soluzione ‘compatibilista’ che presenta molti aspetti su cui vale la pena di soffermarsi.
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Il prossimo 14 ottobre, a Udine, si giocherà la partita di calcio tra Italia e Israele…
di Docenti per Gaza
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa presa di posizione di “Docenti per Gaza” su (e contro) questo prossimo evento sportivo, che di autenticamente sportivo avrà ben poco, e sarà al centro di un’ampia contestazione di massa. Quanto alle leggi e alla Costituzione del 1948, all’occorrenza, come in questo e altri mille casi, lo stato non esita a mettersele sotto i piedi. Carta straccia, come le infinite risoluzioni ONU di condanna dello stato sionista. (Red.)
Il prossimo 14 ottobre, a Udine, si giocherà la partita di calcio tra Italia e Israele valevole per le qualificazioni ai campionati mondiali del 2026.
Incuranti degli appelli che si susseguono, ormai da mesi, per chiedere la sospensione di questo evento, FIGC, prefettura e governo ritengono che non ci sia nulla di male a ospitare la squadra che rappresenta un’entità coloniale che da decenni occupa il territorio palestinese illegalmente, costringendo i suoi abitanti a vivere sotto assedio, e che negli ultimi due anni ha accelerato e inasprito a dismisura un progetto dichiaratamente genocidiario.
“Cosa c’entra lo sport?”, qualcuno si domanda. Tante, forse troppe persone non sono a conoscenza del fatto che molti dei componenti della squadra israeliana sono membri effettivi dell’esercito, e che non perdono occasione per esaltare le ignobili “imprese” dell’IDF; la propaganda sionista e la copertura al genocidio in atto passano anche per manifestazioni come questa.
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Gli “scontri” di Roma. Come ti cucino un falso
di Redazione Contropiano
Il governo Meloni non regge le critiche, si sa. I suoi quasi-avversari liberal fanno notare che non dà interviste da una vita (quelle di Bruno Vespa non possono onestamente essere considerate tali…), che non risponde mai a nessuna domanda, che il suo stile comunicativo è praticamente autistico.
Ma nella pratica di governo – nella concretezza delle decisioni, prima e più che nelle dichiarazioni – è solarmente evidente che sta velocemente passando dalla “tolleranza occhiuta” del dissenso alla repressione pura e semplice.
Pensare di fermare così un movimento di popolo capace di portare in piazza due milioni di persone in due giorni – oltre che di dar sostanza a due sciopero generali in meno di 15 giorni, che hanno portato realmente a “bloccare tutto” come promesso – è miope. Quasi autolesionistico.
Perché l’indignazione morale che ha mosso tanta gente davanti a un genocidio in diretta può solo crescere, se messa davanti a plotoni di celere che pestano gente inerme (anche se poi tutti – ma proprio tutti – i giornalisti li definiscono “scontri”; come del resto chiamano quel che accade a Gaza una “guerra”, anche se lì c’è un esercito tecnologicamente avanzato che martella su una popolazione civile e qualche miglio di combattenti armati al massimo di fucili, qualche bazooka e trappole esplosive mimetizzate tra le macerie).
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Da Roma a Gaza: Palestina vincerà!
di Militant
Il 4 ottobre è stata una giornata figlia di un lungo percorso, durato due anni, che ha visto nel suo corteo oceanico uno dei momenti di apice per un movimento che in questo autunno ha iniziato a dispiegare tutta la sua capacità di mobilitazione. Una settimana lunga e intensa, inedita, che ha portato milioni di persone in piazza in tutta Italia e che ha saputo esprimere numerosi momenti di conflitto. Questa settimana ha dimostrato plasticamente che la società italiana è schierata convintamente per la Palestina e contro le politiche terroristiche di Israele, contro il sionismo colonizzatore, e contro un sistema di relazioni internazionali marcio e complice, che permette da 70 anni al sionismo genocida di annientare un popolo senza Stato, senza esercito e senza economia, armato solo della convinzione e della necessità di dover resistere per sopravvivere.
Un movimento ormai composto dai più diversi settori sociali e che rivendica con forza il proprio sostegno alla resistenza palestinese. Che ha preso le mosse dalle organizzazioni della diaspora palestinese che per prime si sono organizzate all’alba del 7 ottobre e che hanno avuto la capacità di generalizzare, nel pieno di una crisi di mobilitazione che durava da un decennio, le ragioni della Palestina e dell’opposizione all’operato del governo Meloni, uno dei più filo-irsraeliani d’europa, in piena e sostanziale sintonia con quello di Netanyahu.
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Manifestare per Gaza significa
di Francesco Piccioni
Ai reazionari – dichiarati o camuffati – che in questi giorni fanno finta di chiedere “ma perché protestate per Gaza?” (sottinteso spesso urlato: “andate a lavorare!”) si può facilmente rispondere, e asfaltarli, mettendo in fila un po’ di notizie che in questi giorni di mobilitazione continua forse sono passate un po’ inosservate.
Prima notizia.
Nella vicinissima Grecia, che tanto ci somiglia da aver fatto coniare il detto “una faccia, una razza”, sono cominciati gli scioperi contro la nuova legge sul lavoro che il governo Mitsotakis sta cercando di far approvare dal Parlamento.
Non stupisce che si protesti. Il testo prevede – per i lavoratori che hanno un solo padrone, di innalzare l’orario di lavoro fino a 13 ore al giorno, per un massimo di 37 giorni all’anno, con l’unica limitazione formale (facilmente aggirabile, come sappiamo da sempre qui in Italia) che il lavoratore sia d’accordo e riceva un aumento del 40% della retribuzione.
Respirate un attimo, perché non è finita qui. Si prevede anche di innalzare l’età pensionabile a 74 anni, l’introduzione della settimana lavorativa di sei giorni, i licenziamenti senza preavviso nel primo anno di contratto, un periodo di prova fino a sei mesi, nonché sanzioni fino a 5.000 euro o sei mesi di carcere per chi blocca il lavoro altrui durante uno sciopero.
In pratica: lavorare sempre (se riesci a trovare un lavoro), fino alla morte (è davvero improbabile che lavorando 13 ore al giorno di possa arrivare a 74 anni), senza protestare mai se no finisci in galera.
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IL 7 ottobre è un altro e 1 milione di manifestanti lo sa
L’origine di un genocidio, di una flottiglia, di un “accordo di pace”
di Fulvio Grimaldi
Mentre scrivo dalla data di uscita dell’articolo nella mia rubrica di martedì manca qualche giorno. Distanza dovuta a un accumularsi di impegni, sanitari e di convegni, non rinviabili. Chiedo perciò scusa se avrò dovuto bucare qualcosa di importante inerente all’argomento del pezzo, cosa possibile data la tumultuosità degli accadimenti. Ho fatto in tempo, però, a vivere il privilegio di assistere, nelle notti e nei giorni attorno al cambio del mese, a una della più grandi, belle, valide espressioni di civiltà e coraggio umani. Civiltà e coraggio sulla Flotilla e parallelamente in Italia, vera avanguardia europea, la gigantesca sollevazione di popolo del 3 e 4 ottobre contro la barbarie genocida e i suoi sicari in Occidente e a dispetto del ratti in fuga che ci governano. Un ottobre come un maggio parigino di 57 anni fa. Allora grazie al Vietnam, oggi alla Palestina. E’ sempre dal Sud globale, quello che allora chiamavamo Terzo Mondo, che viene la salvezza.
* * * *
Nel milione di manifestanti del 3 e 4 ottobre non s’è udito nessuno azzardare una sola parola di biasimo, o di condanna, o di critica, a Hamas. Bella risposta a Travaglio e al suo inserto nel Fatto Quotidiano in cui ben 14 paginoni sono state riempite da firme ritenute illustri per ripetere l’assunto che Israele ritiene giustifichi l’orrore di Gaza: il terroristico pogrom di Hamas del 7 ottobre, con la carneficina di 1.200 civili e relativi stupri. A salvarsi è rimasta la sola Barbara Spinelli che, forse, ha intuito che se un milione di persone applaudono a un cartello con la scritta “Verità sul 7 ottobre” e se gli stessi israeliani di Haaretz rifiutano la fabbricazione del loro governo, qualche motivo per pensarci dovrebbe esserci.
Quelli che… poveri palestinesi ma quei terroristi di Hamas…”Il governo di Israele e il vertice di Hamas, cioè le due organizzazioni terroristiche…”, “”Israele appoggiava Hamas per cancellare la già debolissima ANP… “Entrambi, Israele e Hamas, i guardiani del loro inferno”…” E’ un genocidio, ma le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre”…”La strage dei milleduecento innocenti perpetrata il 7 ottobre 2023 dai macellai di Hamas”… “Sentimenti ovviamente ignoti al terrorismo di Hamas”…
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È l’accademia, bellezza!
di Linda Brancaleone
1. “Oggi la precarietà è dappertutto”: un’introduzione necessaria
La precarietà è ormai la cifra del nostro tempo, si trova «dappertutto»[1], come ammoniva Bourdieu. Non è solo una condizione lavorativa: è una forma di vita, un destino imposto a una generazione che ha fatto dell’incertezza la propria biografia. Il “precariato” – fusione simbolica di precario e proletariato – definisce un nuovo soggetto sociale, sfruttato e vulnerabile, privato di garanzie e diritti, gettato nel limbo di contratti a termine, borse malpagate, rinnovi a singhiozzo. È una condizione «che si radica anzitutto nella sfera occupazionale»[2], ma si estende a tutte le altre: abitativa, relazionale, affettiva. Nulla sfugge al morbo della precarietà.
Né si tratta di una questione privata: la precarietà si fa istituzione, criterio di governo. Come nei sistemi neoliberali descritti dalla sociologia più critica, i meccanismi di welfare vengono piegati per “espellere” i lavoratori instabili, trasformando la mancanza di stabilità in colpa individuale. Il precario diventa, per usare le parole della dottrina, un «impossible group»[3], una moltitudine di esclusi accomunati solo dalla mancanza: di sicurezza, di diritti, di voce. Nessun senso di appartenenza, nessuna “comunità occupazionale”: solo la solitudine di chi naviga a vista in un mare di incertezze.
A rendere questa condizione più insidiosa è la vulnerabilità, intesa come «elevata esposizione a certi rischi»[4] unita all’incapacità di difendersi dalle loro conseguenze. Guy Standing ha descritto bene questa categoria: i precari non sono solo lavoratori poveri, ma cittadini dimezzati, esclusi dal tessuto sociale, privi di riconoscimento[5]. La loro esistenza è frammentata, il loro tempo sequestrato. È qui che la precarietà diventa biopolitica: il potere plasma i corpi e ne regola i ritmi, “autorizzando” solo forme di vita funzionali all’economia dell’incertezza.
2. Il ddl Bernini: la riforma che moltiplica la precarietà
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Trump: il difensore delle élite che le élite non amano
di Ferdinando Bilotti
Immaginate di essere un giocatore di roulette che prima si è arricchito, grazie a una serie di puntate favorevoli, ma cui successivamente è andata male per parecchie volte di seguito. Avete consumato quasi tutte le vostre fiches, e la prospettiva di doversi alzare dal tavolo con le tasche vuote si è fatta maledettamente concreta. Cosa fate? Chiaramente, le opzioni possibili sono due. Potete adottare una condotta di gioco molto cauta, in modo da potere continuare a puntare a lungo anche in questa situazione di difficoltà: con un po’ di fortuna, potreste riuscire a riguadagnare un piccolo gruzzolo. Oppure potete puntare in un colpo solo tutto ciò che vi rimane: se vi va male siete rovinati, ma se vi va bene vi siete rifatti abbondantemente delle perdite.
Eccovi spiegata la politica americana degli ultimi anni.
Come abbiamo già scritto nell’articolo del 21 agosto, a partire dagli anni Ottanta le grandi imprese hanno sempre più trasferito le proprie produzioni in paesi dove i salari erano più bassi che negli USA (Messico, Sud-Est asiatico, poi soprattutto Cina). Negli anni, la loro fuga ha assunto portata tale da determinare una vera e propria desertificazione industriale, con ricadute gravi sulla condizione delle classi lavoratrici (oggi diffusamente sottooccupate e malpagate, non trovando di meglio da fare che lavoretti precari e dequalificati… quando li trovano) e sulla solidità finanziaria del paese (in ragione del restringimento della base imponibile, determinato dall’impoverimento dei lavoratori). A quest’ultimo riguardo, ci si farà notare che il governo ha comunque mantenuto la possibilità di tassare le ricchezze dei proprietari delle aziende, nonché le attività che queste ultime hanno continuato a condurre in patria (come quelle finanziarie, generatrici di ingentissimi profitti). Vero: “la possibilità” ha continuato a esserci. In concreto, però, ai ricchi è stato consentito di non pagare più le tasse, in quanto l’imposizione sui profitti societari e sui redditi elevati è stata drasticamente ridotta.
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Per Bruxelles la guerra è l'ultima possibilità e i giornali di regime vi si adeguano
di Fabrizio Poggi
La situazione internazionale, scrive la signora Alessandra Ghisleri su La Stampa del 7 ottobre «genera smarrimento, confusione e – forse più di tutto – paura», anche perché le persone sono costrette a «navigare un’informazione parziale, frenetica e spesso polarizzata». Vien da rispondere con la locuzione oraziana “de te fabula narratur”: è dei vostri giornali di regime che si parla, impegnati ad alimentare un clima di guerra, per preparare le coscienze ai “necessari” tagli a salari, pensioni, sanità e per convincere le masse che, come ha proclamato l'ex Segretario NATO, Jens Stoltenberg: «Un miliardo per la difesa dell'Ucraina è un miliardo in meno per assistenza sanitaria o istruzione. Ma, un prezzo più alto, sarebbe quello di permettere a Putin di vincere. Pertanto, dobbiamo farci carico dei costi e pagare per la pace».
E voi, giornali del bellicismo eurogovernativo, fate a gara a infuocare quella “confusione” e quella “paura”, bramosi di fare da megafono alle parole di Vladimir Zelenskij che, dite, «hanno avuto un effetto deflagrante. L’avvertimento che la guerra in Ucraina potrebbe estendersi oltre i suoi confini ha toccato le corde profonde delle paure collettive». Come no: è il vostro mestiere quotidiano, da mesi, quello di rinfocolare le “paure collettive” per alimentare la corsa al riarmo e alla militarizzazione della società. Così che non vedete l'ora di proclamare che «il 39,7% degli italiani teme che anche il nostro Paese possa diventare un potenziale obiettivo della Russia di Vladimir Putin» e per moltiplicare quei timori, non trovate niente di meglio che citare anche l'attuale segretario NATO Mark Rutte: «Siamo tutti minacciati dalla Russia, anche l’Italia». Orsù dunque, armiamoci e prepariamoci alla guerra, per difendere i «cieli e i confini della NATO» dalle fameliche orde iperboree.
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Meloni: il governo della deindustrializzazione italiana
E la sinistra esorcizza i suoi tradimenti con il genocidio di Gaza
di Luigi Tedeschi centroitalicum.com
È in corso un processo di deindustrializzazione dell’Italia che rischia di divenire un Paese condannato al sottosviluppo. Ma la politica economica del governo non incontra alcuna opposizione da parte della sinistra. Strumentalizzando la protesta popolare, la CGIL di Landini vuole autoassolversi dalle sue responsabilità inerenti la devastazione dello stato sociale messa in atto dai governi (specie di sinistra), sin dal sorgere della seconda repubblica
Se esaminiamo la politica economica del governo Meloni alla luce del processo di dismissione delle imprese strategiche in atto, i risultati si rivelano devastanti. Assistiamo infatti alla progressiva decomposizione della struttura industriale italiana, con la cessione da parte dello Stato di imprese essenziali alla salvaguardia della sovranità e dello sviluppo economico del paese, con pesanti ricadute per la crescita e l’occupazione. Appare evidente che per le esigenze di equilibrio dei conti pubblici, l’azione governativa è finalizzata a fare cassa. Il governo Meloni non ha implementato alcuna strategia di sviluppo per l’economia italiana. Vogliamo dunque proporre un elenco sommario delle più rilevanti dismissioni industriali messe in atto dal governo negli ultimi tempi.
1) Ilva. Trattasi della seconda acciaieria europea per dimensioni produttive. Il suo destino appare oscuro. Dopo l’arresto di Emilio Riva e il susseguente commissariamento statale, fu ceduta nel 2017 all’indiana Arcelor Mittal, a cui subentrò nel 2021 l’agenzia governativa Invitalia e fu rinominata “Acciaierie d’Italia S.p.a”.
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