Contro il diritto internazionale
di Jacques Bonhomme
1. Il diritto internazionale come ideologia
Il diritto, nel senso più lato della parola, e guardando alla società borghese, non è soltanto ideologia. Pašukanis, per esempio, ha mostrato, in relazione al mondo storico della borghesia, la necessaria cooperazione del diritto con le forme economiche fondamentali del contratto proprietario, dello scambio delle merci e della disumanizzazione capitalistica del lavoratore, rivestito dell’uguaglianza delle merci in quanto merce forza-lavoro, la merce più importante, quella che deve produrre il valore delle merci. Perciò il diritto, fin dagli inizi della società borghese, è stato coessenziale alla produzione di valore, ossia di plusvalore attraverso plus-lavoro. Per questo Pašukanis fa rientrare il diritto nell’economia politica, e, contemporaneamente, lo sottrae alla sfera dell’ideologia, dove era stato confinato da interpretazioni frettolose, schematiche e soprattutto riduttive del materialismo storico. Questa accorta e lungimirante comprensione del pensiero di Marx sul diritto, non è rimasta isolata e marxisti molto diversi tra loro come l’ultimo Lukács e Toni Negri, ne hanno raccolto l’eredità, il primo in modo indiretto e seguendo un proprio cammino, il secondo in modo più esplicito. Sembra quindi assodato che quanto già sapevano, seppur senza un ampio sviluppo tematico, Marx e Lenin, e cioè che il diritto e lo Stato sono fattori organizzativi interni ai rapporti di produzione capitalistici, sia divenuto nella prassi e nel pensiero dei movimenti antimperialisti del Novecento, a seconda dei casi più o meno permeati dal marxismo, un’acquisizione ben assimilata. In conclusione, il diritto eccede l’ideologia in quanto è, insieme allo Stato, nel quale confluisce e dal quale procede, uno strumento materiale del dominio di classe, sia nazionale che internazionale.
Ma il diritto è anche ideologia, è una delle forme originarie dell’ideologia borghese, è scaturito dal modello delle dichiarazioni del XVIII secolo, e perciò è ideologia in quanto contraffazione del particolare interesse di classe borghese attraverso i fini e gli ideali generali – o universali – dell’homme e del citoyen.
Pertanto, nei contenuti rappresentativi dell’ideologia borghese vengono mistificate, spostate o capovolte le “condizioni sociali di esistenza” delle classi subalterne, in quanto la classe dominante deve introdurre in esse, per riprodurre armonicamente il proprio ordine sociale, la concezione del mondo che la legittima. Questa destituzione immaginaria della realtà è l’effetto più tipico dell’ideologia borghese. A tal proposito, e in modo assai pregnante, Althusser ha parlato di un “rapporto immaginario con le proprie condizioni di esistenza”. Ebbene, il diritto assolvendo anche questo compito, si è configurato, lungo tutto l’arco dello sviluppo capitalistico, anche come ideologia. Questo carattere del diritto ha particolarmente influenzato le dichiarazioni dei diritti che si sono succedute, e non è stato assolutamente offuscato dalla controversia e dalle distinzioni, anch’esse ideologiche, tra diritto naturale extragiuridico e diritto positivo giurisprudenziale.
Nel diritto internazionale, l’elemento ideologico del sistema giuridico ha iniziato ad assumere un ruolo decisivo alla fine della Prima guerra mondiale, con la costituzione della Società delle Nazioni. Questa era apparentemente scaturita dal programma in 14 punti di Woodrow Wilson, sebbene fosse racchiusa da tempo nella dipendenza creditizia britannica nei confronti degli Stati Uniti - quale segno premonitore di un futuro passaggio a un nuovo tipo di scambi economici -, nella illimitatezza dei commerci marittimi e nei mercati europei ambiti dalla potenza nordamericana, che, del resto, già spadroneggiava in Centro America, tra Panama e Santo Domingo. Con la Società delle Nazioni, l’autodeterminazione dei popoli, pietra angolare della nuova ideologia wilsoniana, fu completata da una nuova spartizione delle colonie. Infatti, mentre in Europa gli Stati nazionali consolidavano i poteri di borghesie in alcuni casi ancora troppo invischiate in forme di proprietà semifeudali, nei continenti extraeuropei – denominati “territori d’oltremare” – il nuovo diritto internazionale riconosceva i grandi imperi coloniali occidentali, ignorava i loro abitanti, completamente negletti come popoli, e imponeva tutele e sudditanze economiche e diplomatiche. Inoltre, e qui l’ideologia proseguiva trionfalmente il suo corso, rinnovò il quadro giuridico della guerra, orientandolo sulla sicurezza europea. Il fatto che tale ordinamento internazionale si sia sfasciato tra le due guerre, tra i piani statunitensi di ammortamento del debito tedesco, le conferenze internazionali, la devastante crisi di un ciclo di accumulazione capitalistica e l’ascesa dei fascismi, nulla toglie che quel quadro giuridico, e l’ideologia che lo favoriva, dovessero ricostituirsi in circostanze mutate. L’egemonia statunitense nel campo imperialistico dell’Occidente aveva lasciato intravedere i suoi strumenti con la Società delle Nazioni, ma soltanto la Seconda guerra mondiale l’avrebbe imposta definitivamente.
L’Organizzazione delle Nazioni Unite ne fu il veicolo. Essa nacque negli Stati Uniti, a San Francisco, e seguì di poco l’investitura internazionale del dollaro come divisa monetaria degli scambi capitalistici mondiali, accompagnata dagli istituti economici e finanziari che dovevano far ruotare il mondo sul gigante imperialista nordamericano. E la Guerra fredda, rumorosamente patrocinata dall’amministrazione Truman, fu il suo abbrivio militare, culminato, dopo la repressione dei comunisti greci e le incursioni aeree occidentali su Berlino, nel massiccio intervento statunitense in Corea, compiuto sotto le insegne dell’O.N.U. Così gli Stati Uniti, che negli anni venti erano usciti dalla Società delle Nazioni, nonostante i vantaggi ricavati dal capitale statunitense col recupero dei mercati europei, divennero il braccio armato dell’O.N.U. Da allora a oggi, non hanno mai abbandonato questo ruolo.
In questo contesto, la “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” delle Nazioni Unite dette impulso a un’ideologia giuridica che sarebbe dilagata successivamente, sommando, fin dall’inizio, convenzioni, dichiarazioni e corti di giustizia, in un affollamento di competenze e di formulazioni convergenti in un senso comune politico orientato su enunciati astratti e procedurali, formalistici e incasellatori, definitori e deleganti. Queste istituzioni o queste convenzioni spesso sono emerse in base a utilità diplomatiche manovrate dai governi imperialisti occidentali, oppure sono tornate nell’anonimato quando avrebbero potuto funzionare in modo equivoco. Le Dichiarazioni successive, quelle del 1966 e quella di Helsinki del 1975, ripetono con sfumature appena percettibili il modello del 1948 e sono servite a lanciare campagne di stampa e proliferazioni di associazioni, perlopiù dirette da gruppi finanziari o da apparati di Stato, volte a delegittimare i nemici dell’Occidente. Così, al di là del farraginoso complesso di istituzioni e di documenti che l’ideologia giuridica dei diritti umani ha alimentato nel tempo, questa ideologia, emersa con l’egemonia degli Stati Uniti nel sistema concorrenziale degli Stati imperialisti dell’Occidente, ha raddoppiato una egemonia economico-militare in una egemonia culturale. I diritti umani, infatti, hanno invaso il linguaggio, la scala dei valori collettivi e l’immaginario sociale della lotta politica nei paesi tardo-capitalistici dell’Occidente. Il vocabolario culturale della lotta di classe e della composizione di classe, sia in riferimento agli sconquassi e alle contraddizioni nella metropoli imperialista sia in riferimento allo sfruttamento e ai conflitti nelle aree coloniali, semicoloniali o avvolte nei reticoli finanziari del neocolonialismo, viene completamente rimosso, o addirittura cancellato, dalla analisi delle situazioni e dalla preparazione delle lotte. Così, il codice dei diritti umani riconduce le contraddizioni potenzialmente “antagonistiche” delle società di classe nelle cornici borghesi delle rivendicazioni costituzionali.
Ed è qui che l’intento distorcente dell’ideologia giuridica appare in tutta la sua efficacia sociale, è qui, infatti, che il rapporto immaginario della coscienza sociale delle masse proletarie e popolari con le condizioni di esistenza loro proprie, finisce con il rendere inafferrabile a queste masse il mondo storico dei rapporti di classe, con tutte le evoluzioni di tali rapporti, nelle loro dinamiche, nella loro genesi, nei loro molteplici aspetti, nelle loro scivolose traslazioni e, soprattutto, nelle loro mobili e rinascenti contraddizioni. Nelle rappresentazioni collettive, i diritti sostituiscono le forze storiche reali con i fantasmi idealistici delle norme e dei tribunali, degli arbitrati e dei testimoni, delle colpe individuali e delle riparazioni proporzionali, e tale spostamento è stato capace di generare un “senso comune” culturale e politico, di portare una concezione morale della società, un ordine di valori, sul terreno della vita quotidiana e dei suoi modi di giudizio, di espressione e d’azione. Gramsci chiamava egemonia questo tipo di senso comune e lo considerava il risultato di un ampio e variegato dispiegamento di apparati ideologici ed educativi, dal giornalismo alla scuola, dalla chiesa all’editoria, dai partiti ai sindacati. I diritti, oggi, sono divenuti un senso comune di questo tipo e perciò adempiono ad un compito cruciale a beneficio delle classi dominanti capitalistiche, nel quadro imperialistico della loro tendenza al dominio globale.
Nel diritto internazionale, l’ideologia che, durante il Novecento, ha assunto un prepotente primato egemonico è senza dubbio quella dei “diritti umani”, sospinta dalle dichiarazioni dell’ONU e ancor più dai suoi strumenti istituzionali, ma promossa e divulgata da una larghissima costellazione di agenzie, associazioni e fondazioni. Gli Stati Uniti e i suoi alleati europei, ne ricavano molti favori, poiché, mentre devono abbandonare alle censure e alle denunce di qualche commissione, o alle corti di giustizia internazionali qualche loro alleato particolarmente sanguinario - come avviene nelle circostanze attuali con alcuni membri del governo israeliano -, sicuri che le conseguenze sono minime o inesistenti, in compenso hanno la possibilità di gettare accuse infamanti sui loro più temuti nemici, - come avviene nelle circostanze attuali e come è avvenuto per tanto tempo con la Resistenza palestinese -, squalificandoli come banditi terroristi. Le conseguenze e gli intenti di queste definizioni sono molto note, ma tali conseguenze sono rese possibili dalla mobilitazione costante degli “apparati ideologici di Stato”, poiché sono questi apparati che devono trasformare quelle definizioni in credenze, valori e miti. Pertanto, il diritto internazionale, sempre più improntato all’ideologia dei diritti umani, è divenuto un medium egemonico dell’imperialismo occidentale.
2. I colonizzati e i salariati
Se l’ideologia dei diritti umani, nel Novecento e in Occidente, ha assunto un ruolo chiave nel cucire insieme le cerchie di un’economia capitalistica sempre più concentrata e le guerre imperialiste, immancabilmente accompagnate da ricatti strategici intercontinentali, da avventure militari, da rovesciamenti di governi renitenti all’assoggettamento e dalla crescita smisurata degli arsenali e delle basi militari statunitensi in tutto il pianeta, allora questo ruolo ideologico, che tende a invadere e a deformare la percezione comune della realtà sociale, è inseparabile dal passaggio storico dell’economia-mondo capitalistica dal vecchio colonialismo al neocolonialismo. Il diritto internazionale, infatti, ha accompagnato l’ascesa della borghesia, inizialmente commerciale e monetaria, fin dalle sue prime conquiste e dalle sue prime occupazioni del “Nuovo Mondo”, ed ha regolato la concorrenza degli imperi coloniali marittimi, distribuendo aree e definendo tipi di guerra. Questa regolazione giuridica dello sfruttamento e dei traffici che hanno prosperato a lungo negli empori coloniali dell’accumulazione capitalistica primitiva, ha conosciuto soglie importanti nella genesi storica degli strumenti e delle forme del dominio occidentale sul pianeta, ma la soglia che avrebbe dato al diritto internazionale una nuova configurazione venne oltrepassata nei primi decenni del Novecento, con l’emergere dell’egemonia degli Stati Uniti nel consesso delle potenze imperialistiche occidentali. In questo passaggio, graduale e con molti contraccolpi, un tipo di colonialismo vecchio di secoli cedette il passo a un altro colonialismo, che non amministrava più le cosiddette “terre d’oltremare”, impiegandovi funzionari e guarnigioni, assimilando gli indigeni e introducendo un’élite bianca, variamente stratificata, in mezzo ai popoli assoggettati; ma che, al contrario, usava la forza militare come un “grosso bastone” – secondo una colorita espressione di Theodor Roosevelt – per procurare mercati vantaggiosi alle proprie imprese, per impadronirsi delle dogane dei paesi poveri indebitati, per accaparrarsi diritti commerciali esclusivi e per dare sbocchi remunerativi alla fame di investimenti delle società per azioni giganti che, tra Ottocento e Novecento, cominciavano a svilupparsi negli Stati Uniti. In tal modo il neocolonialismo aveva iniziato la sua marcia, e, dalla Società delle Nazioni all’ONU, forgiò un nuovo diritto internazionale.
Ma è al vecchio diritto internazionale, e soprattutto alle sue origini, che occorre volgere lo sguardo. Gli inizi di questo diritto, nell’epoca delle prime navigazioni oceaniche - quando gli uomini del Rinascimento e la nuova astronomia tracciarono nuove carte nautiche -, rendono pienamente visibile l’orizzonte colonialista di un’antropologia giuridica allora in nuce. Francisco de Vitoria, giurista e teologo al tempo stesso, ne offre un’immagine a tutto tondo. Nelle sue idee l’umanesimo europeo si fuse con gli interessi delle prime coalizioni mercantili, di cui fu modello la Casa de la contratación di Siviglia, rudimentale prefigurazione delle future compagnie di navigazione. Questo domenicano, infatti, condannava le occupazioni delle terre degli indigeni, la loro riduzione in schiavitù per motivi di fede, il misconoscimento della loro dignità morale e giuridica, ma ammetteva che si dovesse abbattere con la guerra la loro ostinata resistenza al “libero commercio” e alla libertà di missione del cristianesimo. Così, le spartizioni del Nuovo Mondo, sancite dai trattati, e la delimitazione degli spazi marittimi, con le grandi linee di divisione che, dall’introduzione della Raya agli sviluppi delle Amity Lines, scatenarono una competizione sempre più predatoria tra i differenti “sistemi mercantilistici” delle monarchie europee, ebbero il loro quadro giuridico. Da allora, e proprio in seguito a queste divisioni, l’espressione “terre d’oltremare” entrò nel repertorio lessicale del colonialismo.
Questo modello non subì cambiamenti rilevanti per alcuni secoli, e si piegò facilmente agli interessi e alle forme di estrazione di ricchezza coloniale che le monarchie europee patrocinavano attraverso le grandi compagnie di navigazione. Le piazze borsistiche misero in movimento le navi e il diritto le seguì. Così, dal momento che nel Seicento i traffici coloniali europei si appoggiarono sull’egemonia finanziaria, commerciale e militare dell’Olanda – come è, del resto, ben documentato dalla ricostruzione di Arrighi -, anche il diritto internazionale venne puntualmente rinnovato da un giurista olandese, Ugo Grozio. Pertanto, il libero commercio allargò il suo campo di applicazione e la sua casistica bellica. Infatti, le idee di Grozio, quale giurista della Repubblica delle Provincie Unite, buon protestante per quanto moderato rispetto alle élites dominanti, furono chiamate direttamente in causa, e proprio per avallare appropriazioni, nella competizione militare marittima fra l’Olanda e la Spagna, che raggiunge il suo acme durante la Guerra dei Trent’anni. Questo fatto rafforzò, anzi perfezionò le finalità coloniali di un diritto internazionale allora in formazione, e pertanto ancora inficiato dai retaggi dello jus gentium medioevale. In quel periodo, infatti, mentre i corsari predavano le navi dell’impero coloniale rivale, gli stabilimenti coloniali espropriavano le popolazioni autoctone in nome dello scambio e della “libera” propaganda religiosa. Quando l’Inghilterra subentrò all’Olanda, servendosi di istituzioni finanziarie più centralizzate e irrompendo nelle rotte atlantiche con le “navi negriere” che fiorenti società mercantili muovevano in un ampio circuito di scambi - dall’Europa, all’Africa e alle Antille -, niente mutò nel diritto internazionale. Il diritto internazionale assorbì il “commercio degli schiavi” come un “fatto economico” del tutto omogeneo.
In quei secoli il diritto internazionale nuotava nella corrente dell’accumulazione capitalistica primitiva e ne incanalava le spoliazioni, e quindi le teorie giuridiche, pur non perdendo il loro carattere di ideologia giuridica legittimatrice delle conquiste militari e delle colonizzazioni, costituivano anche un importante fattore interno e funzionale del commercio mondiale, ovvero del movimento oceanico di corpi umani, merci e strumenti nautici. Invece, alla fine del XVIII secolo, quando apparvero gli scritti di Kant sul “diritto cosmopolitico”, una nuova immagine del diritto internazionale, consonante con le Dichiarazioni della Rivoluzione francese, e quindi rappresentativa della autocostruzione ideologica di una borghesia ormai affermata, balenò nell’orizzonte storico. Fu un passaggio rapido, poiché, nel suo tempo, il diritto cosmopolitico di Kant non si ingranò nei meccanismi dell’accumulazione capitalistica primitiva, ed anche il suo carattere ideologico borghese, del resto assai contraddittorio, poiché conteneva concetti non integrabili nelle strategie coloniali in corso, sarebbe emerso, e avrebbe giocato un ruolo, soltanto nel Novecento.
Il modo in cui Kant guarda al colonialismo è a tal punto utopico, è a tal punto centrato sulle apologie proto-borghesi della società civile e dell’armonia del libero scambio, perorate da Smith e da Ferguson, che finisce per approdare a una critica molto insolita delle violenze e delle soperchierie coloniali degli “europei”, insolita perché compiuta in nome del libero commercio. Quest’ultimo, addirittura nella sua forma più impersonale e inesorabile, nella forma della finanza, gli appare come un argine alle turbolente ambizioni belliche degli Stati, come un’attività che abitua gli uomini a coltivare quelle relazioni pacifiche nelle quali il negozio può prosperare. Pertanto anche gli appetiti predatori dei proprietari coloniali e il brutale assoggettamento degli indigeni che ne deriva, appaiono a Kant come fatti e situazioni nettamente contrastanti con la natura pacifica delle transazioni commerciali. Kant non rivolge la minima attenzione al sistema dei traffici coloniali, e mostra un pieno disinteresse per ogni analisi delle strutture economiche sulle quali tali traffici si appoggiano, ma il ritratto morale e antropologico delle sopraffazioni dei colonizzatori e del loro sfruttamento dei colonizzati, per quanto fumoso e limitato, è sempre accompagnato da severe condanne. Tuttavia, il nesso tra colonizzazione ed economia capitalistica in ascesa risulta completamente mistificato. Ne segue che il “diritto cosmopolitico” di Kant, finalizzato a scongiurare le guerre interstatali, e assai spregiudicato nel frugare nei cassetti della ragion di Stato assolutistica e parlamentare, appare cieco nei confronti delle basi economiche e di classe degli apparati militari e delle guerre del suo tempo, sia di quelle che avvenivano in Europa sia di quelle che avvenivano negli altri continenti.
La mistificazione in cui scivola il diritto cosmopolitico di Kant è la stessa mistificazione dei diritti dell’uomo, ai quali Kant ha fornito una solida impalcatura filosofica. In essa diviene manifesto il nucleo ideologico borghese del diritto. E’ in tale diritto, infatti, che il decollo industriale inglese del XVIII secolo, alimentato dalla massa di capitale proveniente dalle colonie americane e dal commercio degli schiavi, trovò, in anticipo sulle Dichiarazioni dei diritti della Rivoluzione francese, le formule dello sfruttamento del lavoro salariato. Marx ha colto anche questo “arcano”. In questo nodo, infatti, la funzionalità economica dei diritti dell’uomo per l’accaparramento padronale del plus-lavoro operaio, è, al tempo stesso, un rapporto oggettivo fra un individuo indigente e un individuo possessore di denaro, e la rappresentazione ideologica di tipo giuridico della loro uguaglianza e libertà di proprietari. Senza questa metamorfosi giuridica quel rapporto non esisterebbe neppure, poiché è soltanto il significato legale di tale rapporto che definisce la situazione sociale e storica sottesa ai due personaggi immaginari. Questa situazione è il rapporto di classe che si costituisce nel diritto e grazie al diritto, poiché il libero contratto, mentre fa della capacità lavorativa dell’individuo indigente, una merce, la merce forza lavoro del lavoratore, fa del denaro dell’individuo proprietario, il mezzo dell’appropriazione capitalistica del lavoro operaio, che in quanto plus-lavoro è, al tempo stesso, l’abbrivio e l’asse portante del processo di valorizzazione del capitale. Il passaggio dal mondo semifeudale e proto-borghese della monarchia assoluta alla società borghese avviene quando questo libero contratto può aver luogo senza intralci e senza restrizioni. I diritti dell’uomo delle Dichiarazioni francesi generarono tali condizioni.
Per questo Marx ha svelato il retroscena di classe dei diritti del XVIII secolo associandoli alla circolazione delle merci, e chiamando quest’ultima, in tono canzonatorio, il “vero Eden dei diritti innati dell’uomo”. Così, la caricatura marxiana dei diritti “originari”, messi a nudo nella loro natura borghese, mette in fila la serie: Libertà, Uguaglianza, Proprietà e Bentham. Infatti, poiché il libero contratto esige due volontà libere e riconosce due uguali possessori di merci, il possessore di denaro e il possessore della forza-lavoro, i primi tre membri della serie si accordano subito con la circolazione delle merci. Ma anche Bentham, il filosofo dell’utilitarismo, ha un ruolo importante in quella fila: i proprietari liberi e uguali della società borghese sono atomi sociali che perseguono soltanto il proprio utile. Del resto Marx aveva già riconosciuto il sottofondo utilitaristico degli ideali civili borghesi nella sua critica giovanile dell’opposizione di uomo e cittadino, nella quale aveva scoperto una vistosa lacerazione fra egoismo proprietario e comunità astratta. Questa lacerazione insuperabile nella società borghese, mostrava, nella sua duplicità morale e giuridica, la natura, al tempo stesso, economica e ideologica dei diritti. Nel “Capitale”, Marx andava oltre e con la “commedia” del libero contratto, con le due dramatis personae che metteva sulla scena, faceva saltar fuori, asciutta e perentoria, l’essenza del diritto, bellamente visibile nello sfruttamento capitalistico del lavoro salariato: “L’antico possessore del denaro va avanti come capitalista, il possessore di forza lavoro lo segue come suo lavoratore; l’uno sorridente, con aria d’importanza e tutto affaccendato, l’altro timido, restio, come qualcuno che abbia portato al mercato la propria pelle e non abbia ormai da aspettarsi altro che la… conciatura”.
Se il diritto internazionale, nei primi secoli del dominio borghese, ha sposato l’umanesimo europeo con le piantagioni e con la tratta atlantica delle navi negriere, i diritti dell’uomo della Rivoluzione francese, rivelatisi inadatti a spezzare il gioco coloniale durante la rivoluzione haitiana di Toussaint Louverture, hanno proiettato l’illuminismo nella fabbrica capitalistica, in quella fabbrica che Fourier e Marx chiamavano “ergastolo mitigato”. Ma i due contesti si richiamano a vicenda e la critica di Marx, per quanto scaturita da osservazioni storiche compiute in Europa, libera una spinta concettuale e metodologica capace di estenderne l’applicazione. Questa ampia portata dello scrollone dato da Marx a un pilastro dell’economia politica capitalistica e ad un’insegna “gloriosa” della società borghese, acquista una particolare evidenza se guardiamo alle forme di economia-mondo che negli ultimi decenni del XIX secolo riorganizzarono le spartizioni coloniali precedenti. I centri propulsivi delle nuove forme di economia-mondo, dal gigantismo finanziario ai monopoli commerciali e industriali, dalla fabbrica taylorista alle flotte da guerra, dall’espansione dell’industria pesante agli investimenti in infrastrutture paramilitari, convergevano verso nuove spartizioni territoriali nei “paesi d’oltremare”, per le quali occorrevano comunque strumenti giuridici appropriati. Questa nuova configurazione del dominio capitalistico mondiale – l’imperialismo! - mostra che la natura specifica del diritto internazionale, consistente nella sua dipendenza dai processi dell’economia politica e dalle dinamiche di classe, era stata ben compresa da Marx.
Nella prima fase del periodo imperialista, nei decenni di quella esacerbata rivalità coloniale europea che culminò nella Prima guerra mondiale, il diritto internazionale, con la Conferenza di Berlino del 1884-85, mostrò senza pudore la completa coincidenza fra la riorganizzazione territoriale dell’Africa e la divisione di un bottino di guerra. Del resto, il diritto di preda era stato da lungo tempo un capitolo importante dei trattati internazionali, al punto che il sistema delle conferenze fra i rappresentanti degli Stati europei, avviato con il Congresso di Vienna del 1814-1815, ne fece un canone diplomatico. Naturalmente, tutto questo non stava sotto il vessillo dei diritti dell’uomo, ma questi diritti, diluiti nel liberalismo delle guerre dell’oppio, del canale di Suez e del “fardello dell’uomo bianco”, continuarono ad alimentare sommessamente - anche nel diritto internazionale - “l’Eden della circolazione delle merci”, come diceva Marx. Soltanto con l’avvento degli Stati Uniti alla guida dell’Occidente imperialista, i diritti umani divennero, al tempo stesso, un cardine ideologico e uno strumento di governo del neocolonialismo.
3. Due paroline sull’O.N.U.
La Carta dell’O.N.U. del 1948, ricalca e aggiorna le Dichiarazioni settecentesche, o almeno alcune di esse. La traccia originaria è quella, ma la casistica è ben più estesa, poiché la Carta deve tener conto di prevaricazioni, di crudeltà e di offese agli esseri umani portate sopra la soglia dell’attenzione comune dalle lotte di emancipazione – spesso armate - degli oppressi di tutto il mondo. Ma subito, nelle definizioni del testo, vengono mistificate quelle situazioni ricorrenti, poiché risulta strappata loro la dimensione collettiva e sociale ed esse appaiono riferite solo e soltanto ai singoli individui. L’incipit “Ogni individuo” ricorre in lunghe sfilze di articoli. Non soltanto! Nella dichiarazione si trovano anche asserzioni di valore, come quelle sulla famiglia, che, nei termini in cui sono formulate, sembrano rispecchiare una concezione privatistica, tipicamente occidentale, dei rapporti sociali.
Non tutte le Dichiarazioni settecentesche sono il modello della Carta dell’O.N.U., poiché la Dichiarazione del 1793, dove spesso viene tirato in ballo Rousseau, non trapela mai nell’elenco dei diritti. Anzi, quando, nell’articolo 20, si definisce la volontà popolare, si ha cura di ingabbiare tale volontà in “procedure” elettorali, mettendo implicitamente fuori gioco – ossia delegittimando attraverso la negligenza – le forme consiliari e soviettiste di democrazia. E che dire della proprietà, definita con due paragrafi dell’articolo 17, prima in positivo, come diritto, e poi in negativo, attraverso la condanna della privazione di essa. E si può star certi che, una formulazione così astratta, era più adatta a proteggere le grandi coltivazioni della United Fruit Company che non le terre dei contadini guatemaltechi. E inoltre, e la cosa non è così marginale come sembra, quando, nell’articolo 2, viene nominata la “differente ricchezza” fra gli uomini come un loro carattere universale, assimilandola a colore, sesso, lingua, nazione, religione, origine sociale, ecc., la divisione in classi della società riceve un pieno riconoscimento. Da tutto ciò, e alla luce della storia successiva, qualche conclusione può essere tratta: la Carta costituzionale dell’O.N.U., redatta tra gli accordi di Bretton Woods e la fondazione dell’Alleanza atlantica, intendeva propagandare i valori con i quali gli Stati Uniti e l’Europa occidentale stavano progettando nuove espansioni economiche e militari.
I fatti e i piani che precedettero la nascita dell’O.N.U., dei quali il riassetto monetario globale e i nuovi poteri finanziari mondiali furono l’aspetto più importante, presero il via da un disegno abbozzato dall’amministrazione Roosevelt, e calorosamente sostenuto dal presidente degli Stati Uniti: integrare il mondo intero nel sistema economico, nelle istituzioni politiche e nelle forme di vita della grande potenza Nordamericana. Roosevelt avrebbe voluto assorbire perfino l’Unione sovietica in questo sistema, ma con Truman, la strategia imperialista che aveva preso le mosse durante la Seconda guerra mondiale fu trasferita sul terreno della Guerra fredda. Le origini delle Nazioni Unite sono una figura chiave di questo ordito, intrecciate come sono con l’avanzare del ruolo egemonico degli Stati Uniti nel circolo imperialistico occidentale, e sintonizzate come sono con il nuovo tipo di colonialismo che, a partire dal programma in 14 punti di Wilson, aveva cominciato a delinearsi. Anche questo neocolonialismo, che nel secondo dopoguerra europeo emerse dalle precedenti oscillazioni con una propria traiettoria, appartiene alla stessa congiuntura storica dell’O.N.U., e indubbiamente trova un solido appoggio nei principi fondamentali della sua carta. Infatti, questi principi che, conformemente allo spirito del Fair deal di Truman, formulavano in modo individualistico e meritocratico perfino le più elementari forme di protezione sociale, tacevano completamente sul controllo delle risorse, delle terre e dei beni sociali e naturali da parte dei popoli che ne avrebbero dovuto far uso, e in tal modo liberavano da ogni intralcio il passaggio, non più rinviabile, dal vecchio al nuovo colonialismo. La condanna retorica dei vecchi imperi coloniali, soprattutto di quelli appesantiti da residui di mercantilismo, era stata da tempo un leitmotiv delle pose propagandistiche dei capi politici statunitensi, ed era stata sfoderata soprattutto quando si era trattato di scacciare la Spagna da Cuba e dalle Filippine per far entrare le due ex colonie spagnole nell’orbita nordamericana, oppure quando le cerchie wilsoniane del Congresso avevano dovuto propagandare patriotticamente la partecipazione alla Prima guerra mondiale; ma soltanto nel 1949, in un importante discorso di Truman, il neocolonialismo fu programmaticamente illustrato.
Nel discorso di Truman, la protezione degli investimenti delle imprese, delle società e degli enti finanziari degli Stati Uniti, insieme al sostegno e all’acquisizione di migliori condizioni per la loro estensione e per i loro profitti, erano la rotta che la politica estera e militare dell’amministrazione doveva perseguire. Le garanzie che i governi stranieri avrebbero dato contro i rischi cui erano esposti tali investimenti vennero considerate, in quel discorso, un decisivo interesse nazionale. Non c’è bisogno di elencare le innumerevoli guerre, piccole e grandi, gli sbarchi, le occupazioni militari, i colpi di stato, gli assassinii mirati e sistematici di oppositori dei vari governi fantoccio, le stragi immani di militanti comunisti o antimperialisti, i genocidi per procura e le basi militari disseminate in tutto il pianeta, per comprendere che cosa avrebbe significato l’espressione “protezione degli interessi degli Stati Uniti d’America”. Tuttavia il nesso tra la Dichiarazione universale dell’O.N.U. e la dottrina neocoloniale di Truman era soprattutto ideologico, e riguardava l’ideale politico che doveva riunire l’Occidente capitalistico nella sua aggressiva contrapposizione, militare, economica ed etica, all’area comunista e alle rivoluzioni anticoloniali appoggiate e armate dalla Cina e dall’Unione Sovietica. I diritti della Carta, infatti, non si incorporarono in un diritto internazionale positivo, capace di cooperare, direttamente e con successo, all’efficacia economica e amministrativa delle appropriazioni delle compagnie o capace di promuovere baldanzosamente le attività militari degli Stati occidentali. Piuttosto, i diritti umani avrebbero dovuto essere l’atmosfera propizia, il clima migliore, per gli affari capitalistici e per la loro protezione militare, ma non avrebbero dovuto essere lo stato maggiore del “mondo degli affari”. Così, i due piani del diritto, quello ideologico e quello economico, si separarono, diversamente da quanto era avvenuto nel diritto internazionale anteriore alla Prima guerra mondiale.
Questo carattere ideologico delle formulazioni giuridiche e, successivamente, delle sentenze dei tribunali internazionali dell’O.N.U., ha fatto sì che le bandiere dell’O.N.U. siano sventolate al servizio dell’imperialismo occidentale. Proprio all’inizio del suo cammino, l’O.N.U. attaccò la Corea, ma le armi erano statunitensi, e da allora in poi gli Stati Uniti e la NATO sono stati, quando conveniva loro, il braccio armato delle Nazioni Unite. Anche in questo caso il diritto dell’O.N.U. ha assolto un compito ideologico, mistificando, attraverso tipologie giuridiche preformate, un quadro storico in cui la realtà e un’immaginazione manipolata si capovolgevano l’una nell’altra. Le situazioni controverse in cui l’ideologia giuridica borghese, sviluppatasi precedentemente, si rinnovava nelle organizzazioni internazionali successive alla Seconda guerra mondiale, svolgendovi un ruolo decisivo, si verificavano sempre più spesso, e sono aumentate man mano che le istituzioni dell’O.N.U. si sono accresciute e burocratizzate, e dalle prime, che presero piede alla fine degli anni Quaranta, e che comprendevano anche una Corte penale internazionale, ne sono scaturite tante altre – convenzioni, dichiarazioni e corti di giustizia internazionali con competenze limitate o circoscritte -, fino alla più recente: il Tribunale penale internazionale dell’Aja.
In nessun atto significativo di istituzioni dell’O.N.U., collegate all’O.N.U. o scaturite da trattati, convenzioni o conferenze internazionali è mai avvenuto il riconoscimento di movimenti rivoluzionari antimperialisti che non siano ancora divenuti uno Stato, portando così a compimento la loro lotta di liberazione, e anche in questo caso gli ostacoli non sono mai mancati, come è avvenuto con la Repubblica Popolare Cinese, ammessa nell’organizzazione soltanto nel 1971. Inoltre, l’ONU ha impresso il marchio dell’assolutezza al “dispositivo” giuridico del riconoscimento diplomatico, proveniente dai trattati di Westfalia, adattandolo agli interessi del consesso occidental-imperialistico, che filtra ammissioni e messe al bando. Non si contano le missioni delle forze di interposizione dalle quali i blocchi antimperialisti, delegittimati dall’arbitraggio esterno proprio quando stavano costruendo nuove istituzioni decoloniali, sono stati sopraffatti dai loro nemici spalleggiati dai colonialisti occidentali. L’assassinio di Lumumba, in Congo, nel 1961, è una didascalia di tutto questo. E che dire della lunga e inscalfibile sordina sull’O.L.P., mai menzionata – al di là di un episodico discorso di Arafat del 1974 - come unico rappresentante del popolo palestinese nelle risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite, quando tali risoluzioni riguardavano alcuni territori palestinesi in cui l’espansionismo militare di Israele era debordato nel 1967. E soprattutto che cosa dire dell’appoggio neocoloniale dell’O.N.U. al progetto coloniale sionista nel 1948, un appoggio che autorizzò la trasformazione di un sistema paramilitare di insediamenti e di un coacervo di gruppi armati ultranazionalisti, già pronti per le imminenti pulizie etniche, in uno Stato legittimo.
Questo riconoscimento “costitutivo” dello Stato sionista fu completato dall’inquadramento dei palestinesi espulsi dalle loro terre nello status di rifugiati, con il conseguente allestimento dei campi-profughi. Inoltre, il rovescio beffardo dell’acquiescenza delle Nazioni Unite nei confronti di Israele, è stato una negligenza senza remore nei confronti della Resistenza palestinese, un suo accantonamento sommesso e tenace che arriva fino ai nostri tempi, e che, inoltre, si è allargato a tutte le istanze giuridiche e giudiziarie internazionali. In tal modo, la cancellazione, nel diritto internazionale dell’O.N.U., delle asimmetrie coloniali e neocoloniali fra i diversi spazi storico-sociali del pianeta, è sfociata nella sentenza del tribunale internazionale dell’Aja che ha accomunato, in un’unica condanna, il capo del governo genocida israeliano e gli uomini della Resistenza palestinese. Questa cancellazione, occorre ribadirlo, non deriva da piccole astuzie o da reticenze ipocrite di giurisperiti selezionati con cura nelle università delle classi dominanti, ma è racchiusa e sedimentata in sistemi di idee, in forme linguistiche e in codici sociali che vengono continuamente elaborati e diffusi mediante gli apparati ideologici della società e dello Stato borghesi - per dirla, al tempo stesso, con Gramsci e con Althusser -, e che tendono a produrre in larghe masse umane una deformazione immaginativa delle condizioni di esistenza ad esse proprie. Il dominio di classe e il dominio coloniale, in quanto reclamano irresistibilmente pratiche di liberazione collettiva, sono le “condizioni di esistenza” che quegli apparati ideologici devono truccare nell’immaginario sociale. Per questo, nello sviluppo della società borghese, con i suoi cicli di accumulazione capitalistica e con i suoi imperi coloniali, il diritto è stato un’ideologia esemplare.
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