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Baran e Sweezy e il Potere operaio

di Leo Essen

baranesweezy 1220x600.jpgChe cosa sono i costi di produzione socialmente necessari quando la differenza tra fabbricazione e vendita è cancellata? Se il limite posto dai costi è variabile, persino aleatorio, indefinibile, cosa sono i prezzi se non cartellini arbitrari; che sono l’interesse, il surplus, le valute, i cambi e le bilance commerciali?

La struttura del capitalismo monopolistico, dicono Baran e Sweezy (Il capitale monopolistico), è tale che un volume continuamente crescente di surplus non si potrebbe smaltire attraverso canali privati: in mancanza di altri sbocchi, il surplus non sarebbe prodotto affatto.

La situazione in cui una parte del surplus prodotto non trova impiego profittevole è quella del capitalismo concorrenziale. In esso un eccesso di capitali che non trova condizioni favorevoli di valorizzazione produce disoccupazione e disimpego di impianti.

Il sistema del laissez-faire – la concorrenza – produce una quantità di capitali superiore alle possibilità di valorizzazioni offerte dal mercato. Fino al 1870 questo capitale in eccesso veniva distrutto. Il mercato poteva riprendere il suo regolare funzionamento solo dopo questa distruzione.

In condizioni di laissez-faire il mercato è una struttura autonoma indipendente dal desiderio e dalla volontà dei partecipanti. La concorrenza conduce i prezzi al limite dei costi socialmente necessari alla produzione della merce. C’è un limite indipendente oltre il quale il mercato boccia le offerte. Questa struttura indipendente determina contemporaneamente l’impiego dei fattori – lavoratori, clienti, fornitori, proprietari – e la distribuzione dei prodotti.

Dopo il 1870, e in maniera decisiva dopo la Grande Depressione (1873-1896), il sistema dei prezzi rappresenta un limite per la valorizzazione. I prezzi che il mercato impone alle imprese, e sotto i quali esse non possono scendere, non sono più sostenibili. Il mercato boccia il mercato. Meglio non produrre affatto che produrre in perdita. A meno che non si trovi un metodo per ingannare il mercato e superare la concorrenza.

Ma senza la concorrenza, si chiedono Baran e Sweezy, come si determinano i prezzi? Come sono remunerati i fattori e quale relazione esiste tra retribuzioni e prestazioni? Qual è, se esiste, il meccanismo che assicura un efficace impiego delle risorse e in che modo le direzioni delle società possono avere le carte in regola con i lavoratori, i clienti, i fornitori e i proprietari e nello stesso tempo agire nel pubblico interesse?

Senza la concorrenza, dicono Sweezy e Baran, i prezzi e i redditi sarebbero indeterminati e non vi sarebbero tendenze definibili verso l’equilibrio. Gli odierni teorici dell’economia rimarrebbero disoccupati.

Si può ancora misurare dopo che l’unità di misura è distrutta? Quando il mercato smette di regolare e allocare correttamente le risorse, si può ancora pensare di ricondurre le grandezze entro un ordine intelligibile, oppure tutto è smisurato e perso, confuso e disordinato e la fuffa sale al fianco della mamma e pretende un compenso?

Se il laissez-faire produce un eccesso di capitali che non possono tornare in circolo e valorizzarsi, capitali che devono dunque essere distrutti, allora bisogna trovare un modo per far rientrare questi capitali violando le condizioni imposte dal mercato e dal sistema dei prezzi. Le strade percorribili sono due: 1) abolire il mercato e il sistema dei prezzi e sostituirlo con un sistema più vantaggioso; 2) mantenere il mercato e il sistema dei prezzi, ma ingannarlo: violarne la consistenza mantenendone la struttura.

La seconda strada è quella scelta dal capitalismo monopolista.

Il capitalo quinto del libro di Baran e Sweezy – L’assorbimento del surplus: la promozione delle vendite – è spettacolare, superbo. Il libro è stato scritto tra gli anni Cinquanta e Sessanta e pubblicato nel 1966.

Il grande limite che regola i prezzi nel sistema di mercato è costituito dai costi di produzione – i costi socialmente necessari. Le imprese che non sono in grado di offrire entro questo limite sono sbattute fuori dal mercato. Le imprese non scelgono il prezzo, lo subiscono.

Sospendo la questione della circolarità tra costi di produzione e prezzi e tutti i tratti irrazionali che affettano anche il mercato in regime di laissez-faire, e considero acquisito il limite dei prezzi di produzione.

Il potere del mercato – un potere impersonale – impone alle imprese di produrre entro i limiti dei costi socialmente necessari. Anche le imprese che sono in salute e perfettamente concorrenziali, soprattutto quelle che sono andate bene e hanno prodotto un surplus che vogliono investire, lo possono fare alla condizione di rimanere entro i costi socialmente necessari e a patto di trovare una domanda solvibile. In ogni caso, la domanda solvibile si indirizza verso merci prodotte entro i limiti dei costi socialmente sostenibili. A parità di qualità il consumatore compra la merce che costa di meno.

Per gli economisti classici, marxisti compresi, tutto ciò che viene aggiunto a una merce e che eccede i costi socialmente necessari è lavoro sprecato, risorse sprecate, lavoro improduttivo. Aumentando il costo della merce si diminuiscono le sue possibilità di vendita. Invece di renderla socialmente utile la rendono inutile.

Tutti i costi che scaturiscono solo dal mutamento di forma di una merce, scrive Marx (Capitale), non aggiungono valore a quest’ultima. Il capitale sborsato in questi costi (compreso il lavoro da esso comandato) appartiene ai faux frais della produzione. Essi costituiscono una sottrazione di surplus. Tutto ciò che eccede i costi socialmente necessari costituisce una spesa inutile che grava sul surplus e che lo riduce di un ammontare equivalente – è surplus consumato, distrutto.

Questa regolazione e ripartizione dei costi opera in un regime di mercato concorrenziale. In esso un compratore non è disposto a sobbarcarsi costi che non ritiene socialmente necessari. La musica cambia in un regime di monopolio.

Quando una o più imprese unite in un trust controllano l’offerta di un prodotto, il potere del mercato di imporre il prezzo viene bloccato. Si passa da un regime di prezzi subiti a un regime di prezzi amministrati. Il limite dei costi di produzione può essere superato e il surplus in eccesso può entrare in circolazione e trovare condizioni di valorizzazione.

La promozione delle vendite, dicono Baran e Sweezy, è un modo alternativo di utilizzo del surplus eccedente le condizione di valorizzazione ordinarie in un sistema di laissez-faire.

Non bisogna certo sottovalutare il legame tra la pubblicità e l’industria culturale, tutta la paccottiglia – faux frais – che viene finanziata dalla pubblicità. Allo stesso tempo non bisogna dimenticare che tutti i discorsi critici di economisti e filosofi che hanno tentato di evidenziare i lati cattivi della pubblicità, che hanno posto l’accento sugli sprechi massicci di risorse, sul continuo drenaggio dai redditi dei consumatori e sulla sistematica distruzione delle loro libertà di scegliere tra genuine alternative, sono discorsi che depistano. In primo luogo, dicono Baran e Sweezy, in questi discorsi la pubblicità è considerata come un costo accessorio – un faux frais, appunto – che può essere eliminato se si avesse voglia e coraggio di farlo. Si tratta di quella copertura fornita al capitalismo dai sui difensori più ingenui. Una volta emendato dei sui tratti sporchi e corrotti il mercato è il migliore dei sistemi possibili. Non si tiene conto del fatto che la pubblicità è parte integrante del capitalismo monopolistico e che essa non è una sottrazione di surplus, ma un metodo per la sua valorizzazione. Senza pubblicità una parte di risorse, compresi lavoratori e capannoni industriali, rimarrebbe disoccupata. In secondo luogo, la teoria critica dice che la pubblicità è un sistema che indirizza il consumatore verso scelte irrazionali e a spendere in prodotti e servizi privi di valore, prodotti e servizi che altrimenti non verrebbero comprati. In questo caso, dicono Baran e Sweezy, la pubblicità non viene considerata come un fattore capace di modificare il volume complessivo degli acquisti dei consumatori, e dunque non viene vista come un fattore in grado di valorizzare risorse che altrimenti verrebbero distrutte.

Questo atteggiamento critico oscura completamente il ruolo della pubblicità. Secondo questi critici, senza pubblicità, i vestiti si acquisterebbero per la loro utilità, gli alimenti si comprerebbero in base al loro valore nutritivo ed economico, la automobili sarebbero ridotte all’essenziale e tenute dallo stesso proprietario per tutti i dieci o quindici anni della loro vita utile, le case sarebbero costruite per la loro capacità di dare riparo, senza badare allo stile o al quartiere. Senonché, se i consumatori si comportassero in questo modo, tutto il mercato che dipende da questi acquisti si fermerebbe, e con esso si fermerebbero i lavoratori e gli impiegati, si fermerebbero le macchine e le presse e i capannoni presto sarebbero infestati dai rovi e le strade riconquistate dalla natura. Questo è il nocciolo della questione, dicono Baran e Sweezy. Cosa accadrebbe infatti a un mercato continuamente affetto da domanda insufficiente? E a un sistema economico sofferente di sottoconsumo, sottoinvestimento e sottoccupazione cronici? L’importanza della pubblicità, dicono, non sta nel fatto che essa determina una redistribuzione della spesa dei consumatori tra differenti beni o che incentiva l’acquisto di prodotti inutili, ma nei suoi effetti sul volume della domanda globale effettiva e quindi sul livello dell’occupazione e del reddito. Non si può pensare di togliere la pubblicità e tenere il mercato. Pubblicità e mercato, nell’età del monopolio, sono la stessa cosa, sono inseparabili, persino indistinguibili.

La spinta della pubblicità sulla domanda determina un impiego di quella parte del surplus che altrimenti rimarrebbe inutilizzata. Ciò non lascia le cose come stanno. Il sistema economico del laissez-faire – il sistema dei prezzi e il mercato – viene alterato. Il verificarsi di una situazione in cui gli sforzi di produzione e di vendita si compenetrano in misura tale da diventare praticamente indistinguibili, dicono Baran e Sweezy, comporta un profondo cambiamento del sistema. Quando i costi socialmente necessari non sono più distinguili dai faux frais – dai costi accessori o inutili – il sistema dei prezzi entra in un processo di disgregazione, e se continua ancora a regolare gli scambi è perché, da una parte, risponde ancora a interessi forti, e, dall’altra, perché non si riesce a trovare un sistema alternativo.

In una struttura concorrenziale, dicono Baran e Sweezy, soltanto costi di produzione minimi (in quanto determinati dalla tecnologia prevalente), insieme con dei costi minimi di imballaggio, trasporto e distribuzione (in quanto richiesti dalle vigenti consuetudini) sarebbero riconosciuti dal mercato – e dalla teoria economica – come costi socialmente necessari per fornire un prodotto agli acquirenti. In questo regime, dicono, i costi socialmente necessari si potrebbero chiaramente definire e misurare come spese per produrre e consegnare un prodotto utile. E una volta definiti i costi, dicono, il surplus sociale si poteva facilmente identificare come la differenza tra prodotto totale e costi totali.

Nei bilanci delle società monopoliste, e in genere in tutti i bilanci delle società post laissez-faire, i faux frais sono registrati come costi di produzione. I produttori rivolgono sempre più attenzione alla vendibilità del prodotto, per cui ciò che nei libri contabili risulta come costo di produzione si dovrebbe più propriamente attribuire alla produzione di apparenze vendibili, ovvero a fuffa che non aumenta l’utilità del prodotto, ma aumenta le sue probabilità di esser venduto. Con ciò la distinzione tra costi di produzione e costi accessori o inutili viene completamente cancellata. Che cosa sono infatti i costi socialmente necessari, si chiedono Baran e Sweezy, quando questa distinzione viene cancellata? Fino a quando l’industria delle vendite e l’ufficio vendite sono separati e non interferiscono con gli uffici di produzione, si possono facilmente riconoscere come forme di surplus. In tal caso, dicono, i costi di vendita, come la rendita e l’interesse, si possono facilmente riconoscere come forme di surplus da dedurre dai costi globali al fine di pervenire ai veri costi di produzione socialmente necessari. Ma come dobbiamo procedere, dicono, quando i costi di promozione e vendita non si possono letteralmente distinguere dai costi di produzione, come avviene per esempio nell’industria automobilistica? È fuori di dubbio che buona parte del lavoro che entra nella produzione di un’automobile non ha lo scopo di produrre un bene funzionale, ma uno più vendibile. Ma l’automobile, una volta progettata, dicono, è un bene prodotto dallo sforzo unitario di tutti gli operai che lavorano nella fabbrica e nella linea di montaggio. Com’è possibile distinguere gli operai produttivi da quelli improduttivi? Come è possibile separare i costi di produzione da quelli di vendita? Non è più possibile, dicono, perché gli operai che producono i cerchioni sono gli stessi che producono i copri cerchioni che rendono la macchina più vendibile, e quelli che progettano il freno sono gli stessi che progettano il cambio che duri meno di quello precedente, quelli che progettano il bene utile sono gli stessi che progettano la sua obsolescenza anticipata. La distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, sulla quale si regge l’impianto dell’economia classica e marxista, viene cancellata.

Non è un caso che proprio nei primi anni Settanta dell’Ottocento l’economia neo-classica (Jevons, 1871, Menger 1871, Walras 1874) spazzi via il lavoro e i costi di produzione come centri regolatori del sistema economico, e introduca un sistema strutturale privo di centro, senza punto di ancoraggio assoluto, dove l’uno è misura dell’altro e tutto è relativo (novanta anni dopo la letteratura impererà la lezione con Pynchon).

La teoria economica moderna, dicono Baran e Sweezy, vede le cose diversamente: tutti i costi sostenuti in questo processo sono ugualmente importanti e per definizione necessari. Per essa è da rigettare ogni distinzioni tra prodotto utile e inutile, tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, tra costi e surplus – anche la spazzatura è buona.

La teoria economica moderna, dicono, ha pacificamente accettato le cose come sono, non ha lotte da condurre, non vuole confronti tra realtà e ragione, non vuole confronti tra ragione e sragione. Va tutto bene, tutto procede bene, ogni scontrino va bene, ogni importo va bene, ogni richiesta è ricevibile, ogni compenso è giusto.

Eppure, e qui sta la grandezza di questo capitolo, una grandezza che lo pone alla pari dei Dialoghi sulla religione naturale di Hume, in questo caos dove tutto è misura di tutt’altro, e non c’è alcun centro per fissare i prezzi, e tutto è mobile e relativo e ogni segno è un azzardo, e ogni senso è un decreto, e ciò che è finto ed è fuffa è veicolo di ciò che serve ed è necessario, in questo caos, noi due, Baran e Sweezy, ripetiamo i calcoli fatti da Fisher, Griliches e Kaysen e diciamo che una macchina costruita nel 1961 dovrebbe costare meno della metà di quello che costa, che il 25% dei suoi costi sono dovuti a faux frais e l’altro 25% sono dovuti a obsolescenza pianificata, ai costi di riparazione e al consumo ingiustificabile di carburante artificialmente incrementato, e che tutti questi costi accessori pesano sul PIL degli Usa per il 2,5%. Effettuato per l’economia nel suo complesso, dicono, tale raffronto ci darebbe una stima del volume del surplus attualmente nascosto dalla compenetrazione tra gli sforzi di produzione e di vendita.

Ciò non dimostra, dicono, che attualmente sarebbe possibile eseguire questo calcolo. Non è possibile eseguire il calcolo. Nessun gruppo di economisti, dicono, per quanto ricchi di fantasia, e nessun gruppo di statistici, per quanto dotati di ingegno, potrebbe – né del resto dovrebbe – tentare di specificare la struttura della produzione che sarebbe possibile avere in un regime economico più razionale. Non c’è alcun regime economico razionale. C’è solo questo caos in cui le cose si approssimano e si respingono e trovano una sistemazione reciproca. E comunque, dicono, non c’è bisogno di accedere subito, adesso, a una dimensione razionale, per valutare razionalmente questo caos e metterci ordine. Non è necessario avere l’idea precisa di un’automobile ragionevolmente costruita, di un quartiere ben organizzato o di una bella composizione musicale per riconoscere che i cambiamenti di modello che ci sono continuamente imposti, gli slums che ci circondano e il rock-and-roll che ci assorda, rappresentano un modello di utilizzazione delle risorse umane e materiali dannoso al nostro benessere. Non c’è bisogno di aspettare un aiuto dal cielo, basta appoggiarsi ai calcoli di Fisher, Griliches e Kaysen che, seppur azzardati, costituiscono un ottimo punto di appoggio per spiccare il salto.

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