Sapienti e mercanti. Dagli umanisti al lavoro cognitivo
di Alberto Sgalla*
Con la rivoluzione umanistica all’inizio dell’evo moderno la conoscenza si è subito manifestata come potenza, che la borghesia ha voluto impiegare come dispositivo di potere.
Nella città, politicamente autonoma, si erano concentrate le attività produttive (artigianale, manifatturiera) e d’intermediazione mercantile, aveva preso figura la borghesia, s’era consolidato un nuovo stile di vita, in un processo di generale riconfigurazione delle classi sociali. Nella città s’era concentrata l’accumulazione primitiva di capitale, come fase di transizione dall’economia feudale all’organizzazione capitalistica della produzione.
Su questa base materiale si era sviluppata una nuova cultura: la coscienza moderna della piena dignità dell’uomo, della “libertas” individuale e collettiva unita alla concezione della “civilitas”, che hanno pervaso le lettere e le arti, l’assunzione del lavoro libero come valore fondamentale del vivere civile, l’esaltazione del valore della vita come godimento dei frutti del lavoro, la valorizzazione della razionalità funzionale come strumento d’organizzazione degli affari e forma propulsiva del vivere civile. Gli intellettuali o “sapienti” hanno contribuito a diffondere il mito positivo della libertas cittadina, un ideale di piena e armonica formazione umana e il valore della vita associativa e industriosa, anche con il sorgere di Università e Accademie. In questo contesto si è affermato l’Umanesimo, che accordava nella formazione dell’uomo colto valore preminente alle humanae litterae o studia humanitatis e manifestava una nuova coscienza storica, per cui l’uomo era visto come artefice, forza attiva, legata alla costruzione storica, da attuarsi mediante il progresso civile e l’educazione, attraverso cui l’uomo rinvigorisce ed estende la sua potenza; la necessità di una rinascita, di un rinnovamento dell’uomo nelle sue capacità e nei suoi poteri, rientrando in possesso di quelle possibilità che il mondo classico ha dischiuso, riportando l’uomo all’altezza della sua autentica natura.
Gli umanisti hanno contribuito allo sviluppo di un nuovo gusto della vita e sono stati protagonisti di una “rivoluzione pedagogica”, avendo presentato la necessità di un’educazione umanistica volta a sviluppare armonicamente le facoltà dell’individuo, i suoi poteri, tutti gli aspetti della personalità umana (fisici, intellettuali, estetici, morali). La Storia era vista come educatrice di umanità; il piacere era rivalutato in quanto procurato dall’utilità a cui sono dirette le leggi, le scienze, le arti; la virtù era ritenuta la scienza dei piaceri; era affermata l’assoluta dignità dell’uomo ed esaltata la vita attiva, operosa; l’uomo era considerato un microcosmo come immagine o riassunto dell’ordine del macrocosmo.
Gli intellettuali umanisti rispondevano alla richiesta, proveniente dalla nuova classe borghese, di cultura e di educazione “virile” alla vita attiva, alle buone maniere, al senso della misura, alla socialità. Ritenevano fondamentale realizzare l’ideale latino dell’humanitas attraverso l’armonia dell’integrale sviluppo umano, ma le loro scuole ospitavano generalmente coloro che erano destinati a posizioni di privilegio o all’esercizio di professioni “liberali”.
La nuova mentalità rinascimentale ha dato luogo al sorgere della cultura scientifica del ‘600. Telesio, ad esempio, parlava della sensibilità come autorivelazione della natura a quella parte di sé che è l’uomo, Galilei affermava che la natura si rivela attraverso la sensata esperienza e Bacone riteneva che le scienze debbano costruire una tecnica (arti) per rendere possibile all’uomo il dominio sulla natura.
Dall’Umanesimo in poi Il “sapiente” sa che conoscere è potenza.
Nel suo significato umanistico-rinascimentale l’impresa (intrapresa) era l’attività libera, che dà al mondo la sua forma umana e rende la sfera umana indipendente dal fato, dalla fortuna, il lavoro artigianale costituiva un nucleo forte d’identità e funzionava come attrattore di energie desideranti, percepito in modo rassicurante in quanto attività utile, legata ai bisogni della comunità. Poi con l’avvento del capitalismo l’impresa è divenuta investimento di capitale per produrre nuovo capitale, grazie alla valorizzazione prodotta dal lavoro in quanto prestazione salariata. L’impresa è presentata come azione avviata per trovare libertà e felicità laddove regna solo l’accumulazione di valore e potere.
Tra Illuminismo ed età industriale (Saint Simon cominciò a scrivere durante l’impero napoleonico) appare l’idea del potere dei tecnici, dei “sapienti”, che possiedono gli strumenti dell’organizzazione sociale per conseguire i fini propri di un’umanità emancipata. L’idea di tecnocrazia è sorta come elemento di discorso politico nel processo che avvalorava la scienza e la tecnica come forze di sviluppo civile, valori eminenti del vivere sociale. Il tecnocrate nasce come sacerdote di una nuova felice età umana.
Nel clima positivistico dell’800 e del primo ’900 la scienza perde la sua figura autonoma, il “mercante” (il capitale) vuole assoggettare questa potenza e renderla funzionale ai propri fini d’illimitata accumulazione di denaro e potere, il conoscere è fatto organo dello sviluppo capitalistico. Negli anni ’30 del ’900, ad esempio con il New Deal, circola ancora la speranza di poter controllare dal punto di vista della scienza lo sviluppo della vita in comune degli uomini, affidando al tecnocrate la cura del funzionamento societario con una azione programmatrice di equilibrio e costante riequilibrio dei movimenti sociali.
La sociologia (Weber, Mannheim…) ha analizzato gli intellettuali come figure anomale rispetto alla regolare struttura delle classi, figure che portavano la loro capacità cognitiva come conoscenza esterna al processo produttivo, al servizio degli apparati ideologici del capitale per l’organizzazione del consenso (partecipazione felice al consumo di merci in quantità crescenti), pur manifestando, per la mancanza di autonomia di ricerca rispetto agli interessi dei “mercanti”, profondo disagio, essendo in gioco l’aspetto esistenziale che motiva l’attività di ricerca e creazione. Gli intellettuali in quanto outsiders, estranei alla società produttiva, ne potevano essere mediatori o critici, come testimonia la grande letteratura dell’800 (Dickens, Balzac, Zola, France, Proust…), che ha indagato in profondità la classe borghese e la miserevole condizione della classe dei lavoratori. La classe operaia viveva il lavoro come fatica, sofferenza, umiliazione, ma non viveva in condizioni di dipendenza culturale e psichica rispetto alla borghesia, aveva una propria struttura comunitaria (case del popolo, società di mutuo soccorso…) dove un ruolo importante era svolto dagli intellettuali critici del sistema.
A partire dal secondo dopoguerra nell’impresa neocapitalistica, con l’automazione, la scienza viene sempre più incorporata negli automatismi della tecnica, diventa forza produttiva diretta, produttrice di plusvalore. L’azienda diviene un insieme in movimento che interagisce con l’ambiente attraverso sottosistemi sensoriali, di comunicazione, decisori, di controllo, di memoria, di produzione. Fondamento dell’efficienza aziendale sono l’informazione e la sua manipolazione, l’elaborazione dei dati, la programmazione e il controllo, che permettono l’integrazione dei flussi dell’attività aziendale in un dinamico schema funzionale.
L’appropriazione della forza produttiva sociale, generale, dei lavoratori, della loro conoscenza della natura e del loro dominio su di essa, cioè “lo sviluppo dell’individuo sociale”, si presentano “come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza” (Marx). La trasformazione fisica della materia riduce il proprio peso mentre cresce il peso della potenza scientifica, che riduce al minimo il tempo di lavoro necessario.
La proletarizzazione (costrizione a vendere la propria forza-lavoro, che produce nuovo valore) si estende, comporta la perdita del controllo sui fini ultimi dell’attività lavorativa, esprime la contraddizione tra sviluppo della scienza e delle forze produttive e i rapporti di produzione. Nella società intesa come totalità valorifica si manifesta la reale articolazione antagonistica della complessità sociale. Tranne l’attività politica e amministrativa tutto il lavoro si presenta come capitalisticamente produttivo.
Il ’68-69 fu essenzialmente il rifiuto del “sapiente”, del lavoro tecnico e intellettuale, produttivo di valore, di vendere al capitale-denaro il sapere, di accettare il dominio indiscutibile delle priorità economiche, per mettere sapere e bellezza al servizio della società, dell’utilità e felicità comuni. Solo gli esseri umani in quanto soggetti di creatività e di conoscenza sulla propria vita, sulle proprie necessità e risorse, devono stabilire le regole della produzione e distribuzione dei beni.
Negli anni ’60 e oltre il sistema industriale aveva realizzato pienamente il modello fordista caratterizzato dalle forme ripetitive del lavoro e dalla spersonalizzazione della catena di montaggio (prestazione di tempo in cambio di salario), nel lavoro operaio e tecnico il sentimento operaio di estraneità alla fabbrica fordista-taylorista si saldava con la cultura artistica, letteraria, filosofica, cinematografica (es. il cinema della “incomunicabilità”), che faceva dell’alienazione e del bisogno di autorealizzazione umana e di potenziamento vitale il proprio fulcro critico.
La rivista degli anni ’70 “A/traverso” uscì con il titolo La felicità è sovversiva quando diviene collettiva.
Era in campo il desiderio, la tendenza verso ciò che è piacevole e che per la psicanalisi è il motore stesso della vita. Il desiderio è potenza affermativa, che non si fonda su una mancanza, è energia creatrice. Mentre il bisogno è in relazione a un preciso oggetto che può saziarlo, il desiderio non è in relazione con un oggetto reale. Il desiderio s’inscrive nei corpi, imprime ritmi, crea visioni, lavora le forme. Sono la letteratura e le arti che parlano del desiderio. Era dunque in campo la forza che sposta energia collettiva, mette in movimento un processo di trasformazione sociale e dell’immaginario, la forza che ha determinato il rifiuto operaio di piegare la propria vita ai ritmi della catena e di spenderla in un lavoro svolto solo per incrementare il valore del capitale, il suo potere. La classe operaia si sentiva espropriata della propria soggettività, della propria umanità e sempre più assimilabile ad una intellettualità di massa (intelligenza e creatività), sentiva “a pelle” la propria individualità ricca, consapevole, capace di condivisione d’interessi, cooperazione sociale e autonomia culturale; voleva mantenere per sé energie fisiche, intellettuali, affettive. La riduzione del tempo di lavoro necessario con l’introduzione dei sistemi d’automazione flessibile doveva servire a liberare tempo di vita.
Il capitale mostrava nettamente d’essere “la contraddizione in processo”, appropriazione privata della cooperazione sociale, penetrazione nel sistema cognitivo della società, per modellare percezioni, capacità, gusti, comportamenti, inclinazioni, relazioni, condurre gli individui verso una determinata forma di vita.
Nel ’68-69 crollava il mito tecnocratico, tecnici e ricercatori prendevano atto che l’accumulazione capitalistica si realizza attraverso l’estensione delle conoscenze, della base scientifica della produzione e che anche il loro lavoro è astratto, alienato, merce, volevano poter indirizzare il proprio lavoro verso un fine socialmente utile. Si era formato un blocco storico tra operai e intellettuali (anche in formazione), che si erano scoperti “schiavi del profitto”. I tecnici, i ricercatori, i “camici bianchi” erano venuti alla ribalta dello scontro di classe, avevano colpito l’organizzazione delle aziende e dei laboratori, di cui erano risorse fondamentali, erano scesi per le strade, s’erano organizzati in assemblee e gruppi di studio, attaccando direttamente l’uso capitalistico della scienza, l’alienazione, la mercificazione della ricerca, la “scientificità” dello sfruttamento, per una professionalità diversa da quella legata all’essere strumenti del capitale. Gli intellettuali mostrarono il loro potere nell’organizzazione delle fabbriche e dei laboratori di cui erano fondamentali funzioni, protagonisti della pianificazione scientifica della produzione di valore, garanti dell’efficienza aziendale basata sulle informazioni e la loro manipolazione, avevano la coscienza di essere le “potenze intellettuali del processo di produzione” (Marx) e contestavano il fatto che il capitale costruisce il proprio potere sotto forma di scienza e tecnologia, frutto del lavoro. La potenza intellettuale del lavoro sociale rifiutava di essere uno strumento del capitale per la propria accumulazione di potere.
Era perfettamente acquisita l’analisi di Marx nei Grundrisse, “lo sviluppo dell’individuo sociale” viene appropriato dal capitale, come “il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza”; dalla scienza, divenuta forza produttiva diretta, dipende la produzione di ricchezza, non più regolata dal tempo di lavoro.
Era evidente che la fabbrica s’era estesa a tutte le attività sociali, estraendo plusvalore non solo dal processo di produzione immediata, ma anche a monte e a valle. Il capitale si presentava come organizzatore di ogni attività sociale e il suo dominio come appropriazione della forza produttiva sociale del lavoro.
Era all’ordine del giorno la riconquista della scienza da parte della soggettività operaia (autogestione della salute, contro la nocività, con l’ausilio dei medici) superando le scissioni della società borghese per l’unificazione della potenza dell’essere società degli individui. La sana corporeità desiderante era la forza per rompere i dispositivi di controllo e sfruttamento. Si contrapponevano due modelli di ricchezza, la ricchezza come quantità oggettiva di beni da consumare, la ricchezza come qualità del godimento che l’esperienza soggettiva produce in noi, tempo e libertà.
Due modi diversi di relazione con il mondo, il tempo, il corpo. Una verità soggettiva era divenuta consapevolezza di massa: il tempo dedicato all’acquisizione di denaro per consumare è sottratto al tempo creativo dell’esperienza, del godimento della vita; una verità, scrive Bifo, a cui oggi “possono avere accesso solo déracinés emarginati e rampolli di famiglie miliardarie”.
Le lotte si basavano su una precisa cultura, rifiuto di destinare Il tempo mentale ad accumulare piuttosto che a godere, di accettare l’espansione della sfera economica che coincide con la contrazione della sfera erotica;
rifiuto di una produzione accelerata, espansiva, ansiogena, di ricchezza, basata sulla continua
riproduzione della mancanza di cose, segni, quindi di uno stato di dipendenza; mancanza spesso, col crollo delle garanzie sociali, legata al primordiale ricatto capitalistico, lavorare sotto padrone o morire; rifiuto dell’impoverimento materiale, dell’esistenza, della comunicazione, per cui la vita diviene così vuota e triste che tanto vale scambiarla con denaro!
In un documento dei ricercatori del Cnen “Ricerca al servizio delle masse” s’esprimeva la volontà di creare “un legame reale con i bisogni delle masse”, di cui la scienza dev’essere al servizio, liberando “la ricerca dalla subordinazione al capitale, che non è altro che un aspetto della generale subordinazione dell’intera società civile alla legge del profitto”. Unico “criterio di validità è quello dell’utilità sociale del prodotto scientifico”.
I lavoratori intellettuali rifiutavano d’essere i portatori di una scienza “come potenza produttiva indipendente dal lavoro” (Marx), posta al servizio del capitale, a cui fornire piani razionali, la scienza nelle decisioni; rivendicavano la necessità di un’intelligenza a livello delle sintesi conoscitive in campo sociale e politico.
Già a partire dagli anni ’60 intellettuali neo-marxisti (Panzieri, Tronti, Negri, Alquati, Bologna, Ferrari Bravo, Daghini, Luperini, Berti, Marazzi, Meriggi, Virno…) legati a diverse riviste (Quaderni Rossi, Quaderni Piacentini, Contropiano, Primo Maggio, Sapere, Rosso) avevano operato un riesame complessivo del concetto di classe operaia alla luce dell’economia neocapitalistica e della società di massa, di una situazione parzialmente prefigurata nelle pagine dei Grundrisse, dove Marx parla di una fase nuova in cui lo sfruttamento, il plusvalore divengono “una ben misera base” per l’accumulazione, che invece si realizza attraverso l’estensione delle conoscenze, della “base scientifica della produzione”. Una fase in cui la sostanza delle merci dipende sempre meno dal lavoro immediato e sempre più dallo stato generale della scienza e dal progresso tecnologico, di cui gli intellettuali sono i principali attori.
Dal ’68 al ’72 culmina la lotta di liberazione del “sapiente” dal potere del “mercante”. Il lavoro intellettuale, mentale, sa
che la causa evolutiva dell’intelligenza è il risparmio di fatica (chiamato dall’operaismo dell’Autonomia “rifiuto del lavoro”), che si realizza in forma socialmente utile;
che la scienza, messa al lavoro in condizioni di dipendenza dal capitale ha perduto la possibilità di riflettere sui fini che la guidano; che la società del capitale è costruita sul privilegiare la forma-merce come strumento di mediazione fra gli individui;
che nel lavoro cognitivo è coinvolto quanto vi è di più essenzialmente umano, oltre la trasformazione fisica della materia, la comunicazione, la creazione di stati mentali, la sensibilità, l’immaginario.
Vuole mettere il suo sapere al servizio della società creando un legame concreto con i bisogni delle masse.
Gli intellettuali, depositari della scienza, vogliono riflettere sulle finalità della ricerca e dei saperi, perché avvertono che la potenza del sapere sottomessa alla logica del profitto produce alienazione, distruzione, diminuzione di humanitas. La “questione intellettuale” va affrontate in termini globali in un contesto generale. Emerge l’immediatezza dello scontro tra l’ampiezza e la creatività di quello che Marx chiama il “lavoro scientifico generale” e le strutture di lavoro astratto al cui interno il sistema capitalistico lo costringe a rimanere. Le lotte di fabbrica (ad es. sull’ambiente di lavoro, i ritmi di lavoro), in cui si riconoscono i “camici bianchi”, rivelano il valore scientifico della soggettività operaia. Nel momento in cui gli operai non lottano più per il loro posto dentro la catena di montaggio, ma contro la catena di montaggio e la scienza separata, il collegamento coi tecnici è immediato: l’impresa neocapitalistica è un’unica grande macchina, in cui prevale l’asservimento umano, i lavoratori devono conquistare un nuovo senso, associativo, del lavoro. L’analisi dell’ambiente di lavoro e della struttura delle mansioni passa al gruppo omogeneo degli operai, che indaga sul proprio vissuto reale e propone una riarticolazione del lavoro a misura delle esigenze materiali ed esistenziali del lavoratore; l’unità di classe operai-tecnici diviene centro scientifico reale, produttore di cultura alternativa, la soggettività operaia, riconquistando la scienza, si rifiuta di legare il proprio destino a quello del mercato, sempre più deregolato e segnato dall’ideologia della speculazione, mercato assoluto, che si presenta senza alternativa, perduto ogni contatto fra sfera economica e pensiero umanistico.
Era senso comune tra intellettuali e operai che l’essere umano entra in rapporto con gli altri come predicato di quel soggetto sociale reale che è il lavoro astratto merce, di cui è portatore e attraverso la cui vendita al proprietario dei mezzi di produzione riesce a procurarsi un reddito per vivere. Era senso comune che devono decidere l’indirizzo della vita organizzata in comune solo le donne e gli uomini nella loro vivente intersoggettività e capacità di collaborazione solidale. I “mercanti” non devono più decidere della vita di milioni di persone sulla base delle priorità dei loro profitti. Emerge nettamente la consapevolezza del carattere cooperativo del lavoro scientifico e di quello materiale, immediato; della necessità del lavoro scientifico generale di agire in una società comunitaria per sviluppare le sue potenzialità. Si prefigura concretamente la possibilità di una cooperazione comunista della produzione in cui ogni individuo commisura le proprie conoscenze, capacità e facoltà con le conoscenze e capacità degli altri, in un reciproco sostegno e vantaggio.
Nel corso degli anni ’60 e ’70 la lotta del blocco operai-intellettuali-studenti ha destrutturato l’ordine gerarchico-disciplinare, l’autoritarismo in fabbrica, nella famiglia, nella società, ha fatto prevalere la solidarietà sulla competizione, la qualità della vita sull’accumulazione di denaro e di potere, ha ottenuto un livello dignitoso di sicurezza sociale. La comunità operaia era il luogo di socializzazione dei proletari, di costruzione d’identità collettiva, sulla base di una comune coscienza del proprio interesse oggettivo e della propria missione civilizzatrice, per un comune futuro aperto da costituire, forte d’un apprendimento “per prove ed errori”, d’un pensiero che può modificare l’andamento del mondo, di fronte al capitale che costringe la classe del lavoro a vivere in condizioni disumane e di passività mentale.
Dagli anni ’80 in poi Il capitale ha fatto propria la spinta libertaria proveniente dai movimenti di classe e ha dissolto la potenza politica della classe operaia riducendola a lavoro salariato disgregato, mobile, precario, duttile, senza identità. L’unica dinamica esistente è quella dell’autoriproduzione del capitale. I proletari non hanno più comunità. L’info-produzione del capitalismo postfordista, estesa a tutti i settori, ha trasformato la ribellione antigerarchica degli anni ’60 e ’70 in deregulation economica, individualismo espresso nell’essere imprenditori di sé stessi nella produzione high tech, in costante competizione, in una new economy, la cui ideologia, veicolata dal discorso pubblicitario onnipresente, è:
l’oggetto-merce è il soggetto principe di tutta la vita sociale, anche a livello mentale. la felicità è il valore essenziale della merce, è divenuta un dovere, il consumo è promessa di partecipazione felice al grande spettacolo della merce.
La produzione di oggetti e stati mentali è sorretta da un’ideologia della felicità che in realtà nasconde effetti crescenti d’infelicità, depauperamento materiale e spirituale, supersfruttamento, disagio psichico. La macchina digitale inocula nell’organismo umano fin dall’infanzia degli automatismi emozionali, ad esempio nel caso dei videogames e delle tecnologie immersive si sta procedendo verso interfacce immersive che possono stimolare effetti emozionali assistiti dalla macchina. L’emozione, la stimolazione di reazioni psichiche o fisiche, può essere provocata da catene di automatismi tecnologici.
Negli anni ’70 il desiderio stava fuori dal capitale e attraeva forze che si sottraevano al suo dominio, poi dagli anni ’80 in poi, è stato captato dal capitale, lo ha ricaricato, ha convogliato energie verso l’impresa, verso il miraggio della “autorealizzazione” nel lavoro. L’ideologia new economy è fondata sulla convinzione che l’affezione al lavoro si traduce in denaro e quindi fa la felicità. Oggi sembra che fuori dal business non ci sia più alcun desiderio, alcuna vitalità. Il capitale ha messo a frutto un culto di sé, con la mercificazione di ogni aspetto relazionale (sociale, affettivo, culturale); ha recuperato energia economica e ideologica avendo fatto propria la creatività del desiderio, la sua spinta libertaria, individualistica, per l’autorealizzazione di sé. L’impresa tende ad essere l’oggetto di un investimento psichico, non più solo economico.
Il tempo di lavoro medio è enormemente aumentato fino a raggiungere le 12-16 ore giornaliere o più di 50 ore settimanali. La dipendenza nel lavoro è sempre meno legata a una gerarchia formale e sempre più incarnata nella fluidità automatica della rete. Lo smartphone sempre acceso, perché il neuro-lavoratore sia sempre raggiungibile, nell’intera giornata, nel ciclo globale dell’info-produzione, è il simbolo dell’auto-impresa sostanzialmente dipendente. Per vincere nella competizione economica occorre essere capaci di minimizzare l’umano che è in noi, considerato un “costo”, per esaltare gli automatismi, che sono ovviamente sine pietas. Per stare sull’onda bisogna assecondarla, costi quel che costi, euforici e depressi, assorbiti nell’universo fantasmagorico delle merci nell’info-sfera elettronica, nell’immaginario dell’economia coinvolgente come un video-game, chini di fronte all’idolo che sta devastando la psiche umana e l’ambiente; non si può che correre con un atteggiamento mentale di tipo usa-e-getta.
Nell’impresa, dunque, è in gioco l’investimento di desiderio, nella piena libertà da vincoli statali e sociali, solidaristici, sotto l’imperativo “felicista”, che non riconosce la normalità del fallimento, perché chi non vince è eliminato. A partire dagli anni ’80 si procede all’applicazione fanatica delle regole del mercato assoluto, L’intera responsabilità della propria vita è collocata in ciascun individuo, in un contesto di accelerazione dei circuiti comunicativi e dei ritmi delle performance, di espansione illimitata dell’info-sfera, da cui dipende la competitività e quindi la sopravvivenza. Lo stress percettivo, cognitivo e psichico, dovuto all’iperstimolazione e al sovraccarico di dati produce una diffusa psicopatia sociale, panico e depressione, malattie della responsabilità in cui domina il sentimento d’insufficienza.
Lo scenario del capitalismo postfordista è chiaro. Scienza, informazione, comunicazione sono divenute fattore centrale della produzione, con la messa al lavoro dell’intelligenza collettiva e individuale, del linguaggio; il nuovo assetto produttivo è basato sulla sussunzione reale della società al capitale, ha forme flessibili di accumulazione, imprese flessibili, finanza globale, fabbriche robotizzate e diffuse, messa in rete di diversi modi, tempi e luoghi di produzione del plusvalore, mercato del lavoro fluidificato, dispersione territoriale della forza-lavoro, ridotta a “folla atomizzata”, caos di sradicati, nomadi, fluidi, protagonisti del lavoro precario, saltuario, mobile, in una società dell’incertezza, in cui l’esistenza del lavoratore è orientata alla mera sopravvivenza. Patologie identitarie e corsa anfetaminica verso la felicità del business sono il vissuto quotidiano delle donne e degli uomini nella società del rischio.
La produzione, disseminata in un arcipelago di isole produttive, è un ciclo continuo globalizzato, sempre più indipendente dai territori, in cui sono connessi, attraverso le infrastrutture della rete telematica. I diversi frammenti di lavoro, coordinati in un flusso permanente di informazioni, sotto il comando unificato del capitale, in grado di spostarsi secondo le proprie private convenienze. Gli intellettuali nel sistema postfordista devono misurarsi con questa nuova realtà: penetrazione molecolare dei processi di produzione di valore in tutti gli aspetti della vita quotidiana, intrecciando tempo di lavoro e tempo di vita; aleatorietà; economia dei flussi non dei luoghi, stimolazione pubblicitaria frenetica, ininterrotta, invasiva; espansione della realtà simulata, che intensifica gli stimoli emotivi e obbliga a reazioni sempre più accelerate: accelerazione, come ha mostrato P. Virilio, che produce un impoverimento dell’esperienza.
L’altro ha perso la fisicità, la sensibilità, la reciprocità desiderante o dialogante, la verità di essere vivente.
Ognuno deve fronteggiare incertezza, flessibilità, mobilità, rischio, che hanno un loro corrispettivo psichico. Il “sapiente” postmoderno sa che per poter sopravvivere psichicamente alla costante accelerazione e virtualizzazione dell’esperienza ha bisogno del sussidio di sostanze o dispositivi artificiali, anch’essi merci. Questo è il concreto stato di cose presenti!
Per indicare il coinvolgimento dei saperi nel corpo della produzione-valorizzazione del capitale è stato elaborato il concetto di capitale culturale, inteso come insieme di conoscenze e competenze acquisite in contesti diversi, attraverso la formazione scolastica, le relazioni sociali e il consumo culturale, soggette a un’accumulazione disseminata lungo il percorso esistenziale. Capitale culturale che i singoli mettono in gioco in un proliferare di attività parasubordinate, collaborazioni, consulenze, autoimprenditorialità (autosfruttamento) ecc. nelle sempre più complesse filiere dell’informazione, del trattamento di dati e immagini, di cura, ricerca. Attività segnate da precarietà, assenza di garanzie, in cui è assoluto il dominio del profitto sulla produzione di sapere e di tecnologia, con prestazioni in genere ad alto contenuto cognitivo e comunicativo, che si adattano male alla forma salario.
Nella percezione sociale impresa e lavoro sono sempre meno in opposizione, cresce il “lavoro autonomo di seconda generazione”, libero-professionale, ma anche il lavoratore dipendente ad alto contenuto cognitivo tende a considerarsi “partecipe” dell’impresa, con le proprie competenze comunicative, creative, innovative, considera il suo lavoro come missione esistenziale legata alla “missione” d’impresa. È spinto ad agire come il “guardiano” di sé stesso e a considerare il lavoro come l’ambito principale di conforto nella vita.
Il lavoro manuale viene tendenzialmente svolto da macchine comandate automaticamente o da robot tendenzialmente animati dall’intelligenza artificiale. Il lavoro che produce effettivamente valore è il lavoro mentale, intellettuale, che ricombina, elabora, trasferisce miriadi d’informazioni circolanti sul supporto digitale, compie simulazioni poi trasferite alla materia dagli automatismi informatici. Il lavoro intellettuale-cognitivo, come forza di valorizzazione del capitale, copre tutti gli aspetti dell’agire umano suscettibile di produrre valore economico (conoscitivi, comunicativi, estetici, affettivi, formativi, terapeutici ecc.).
L’uso del sapere per la produzione di valore si è realizzato nella creazione di una tecno-sfera e info-sfera digitali, con grandi capacità potenziali sottomesse alla logica di un’infinita proliferazione metastatica del capitale, moltiplicatrice di alienazione, miseria, disagio mentale, distruzione.
Il lavoratore cognitivo deve muoversi, cambiare prospettive, relazioni, forme operative, essere flessibile, con identità fluide, seguendo linee ansiogene, soggetto della comunicazione trasformata in necessità economica, quindi impoverita. Ma nel lavoro mentale va distinto il lavoro propriamente cognitivo-creativo (brain workers) da quello di tipo esecutivo (chain workers), che rimane prevalente in termini quantitativi.
Il tempo di lavoro necessario nel ciclo industriale diminuisce, sostituito da macchine o trasferito verso le periferie povere del pianeta, dove è ridotto in condizioni semischiavistiche, ma cresce il tempo di lavoro nella sfera del lavoro mentale, cognitivo, anche a causa della rarefazione del legame comunitario, che forniva piacere, rassicurazione. Il lavoro è “inteso come unico luogo di conferma narcisistica per un’individualità abituata a concepire l’altro secondo le regole della competizione, cioè come un pericolo, un impoverimento, una limitazione, piuttosto che come esperienza, piacere e arricchimento” (F. Berardi – Bifo).
Gli intellettuali, di fatto, sono ridotti a free agent (la cui controparte è il mercato, non la singola azienda), nel ciber-spazio, dove non ci si può assentare, la sfera di connessione, in espansione virtualmente illimitata, fra i corpi organici (menti) e il corpo inorganico delle macchine digitali. Sono di fronte al problema del tempo necessario perché la mente umana possa elaborare la massa di dati informativi e stimoli emozionali provenienti dal ciber-spazio, tempo la cui espansione è limitata da fattori organici, da limiti legati alla dimensione emozionale del cosciente organismo umano, al tempo della corporeità.
Il sapere-lavoro degli intellettuali ha trovato fertile terreno di applicazione nella produzione biotecnica, che ha aperto la prospettiva di manipolazione tecnica della vita su scala industriale, sottomettendo alla logica del profitto il processo di generazione degli esseri umani, aprendo la strada al controllo privato del patrimonio genetico dell’umanità, secondo i criteri neoliberali dell’eugenismo, quelli della permanente competitività economica e dell’efficienza tecnica. Con le biotecnologie s’è aperta la prospettiva della modificazione della biochimica del corpo, della creazione di ibridi uomo-macchina (cybernetic organism), esseri umani dalle prestazioni potenziate, tramite la convergenza tra tecnologie informatiche, tecnologie psicotropiche di tipo chimico (psicofarmaci, droghe) e di tipo biotecnico (inserzione nel corpo di dispositivi artificiali, innesti elettronici, induzione di neuro-mutazioni).
Nel Novembre ’99 avviene a Seattle una manifestazione di contestazione del vertice del Wto, che con le altre organizzazioni internazionali (Imf, G7, World Bank, Ocse), funziona come strumento normativo e amministrativo del dominio delle multinazionali sull’economia planetaria. Fulcro di quel globalriot, di quell’attacco alla dittatura delle multinazionali della finanza, è stata l’intelligenza collettiva del proletariato high-tech (definito con un neologismo cognitariato), nel cuore del sistema della documedialità, come lo chiama Ferraris, “il medium tecnico che ha reso possibile la post-verità: l’unione tra la forza normativa dei documenti e la pervasività dei media nell’età del web”.
Quel globalriot ha riattualizzato i contenuti del movimento di lotta di operai, tecnici, intellettuali e studenti del ’68-69 e ha manifestato la possibilità di ricomposizione cognitiva e sociale dell’intellettualità di massa del lavoro postfordista. Sembrava allora che stessero entrando in crisi la spietata ideologia neoliberale, la violenza competitiva, il terrorismo economico, che dalla fine degli anni ’70 avevano distrutto la forza politica e progettuale della classe operaia, sottomettendo la società e l’immaginario collettivo ad un’opera sistematica di piena omologazione privatistica. Il cognitariato ha espresso la necessità di ricomporre la miriade dei dispersi frammenti di lavoro in gran parte cognitivo, posti in interfacce tecno-linguistiche-produttive, la necessità di un uso sociale del lavoro cognitivo, tecnico-scientifico, che presuppone l’autonomia della ricerca rispetto agli interessi dei “mercanti”, la necessità di una ricomposizione che metta in gioco le componenti esistenziali che motivano la ricerca e l’elaborazione culturale.
L’intellettualità di massa, pur in un contesto di rapporti di forza politici e sociali sfavorevoli e in una prospettiva nebulosa a livello mondiale, aveva iniziato a porre all’ordine del giorno questo problema, a indicare la necessità di decostruire gli automatismi della rete, d’iniziare a fare della rete, luogo di produzione di valore, l’infrastruttura di una comunità virtuale, capace di attraversare i circuiti della comunicazione con “flussi destrutturanti”, di costruire una propria sfera pubblica autorganizzata. Non si è realizzato alcun processo di autonomia del lavoro cognitivo, che si sta limitando a elaborare e far circolare interfacce tecno-linguistiche, tecno-finanziarie, tecno-sociali, tecno-sanitarie. La soggettività di corpi e menti è sempre più dipendente dal funzionamento della rete globale, i cui automatismi s’innervano nella struttura, deprimente e folle, delle relazioni sociali. Le menti continuano a lavorare in modo unidirezionale, sulla base del codice del capitale, non si sperimentano vie indipendenti. Individui e imprese sono in competizione globale, non c’è un altrove nel quale rifugiarsi.
Da molti anni è evaporata la mobilitazione per boicottare i vertici delle organizzazioni internazionali (Wto, Imf, World Bank, Osce), che hanno lo scopo di ridurre il ruolo economico-sociale degli Stati e favorire la penetrazione delle corporation globali nelle società-mercato. I lavoratori del ciclo del lavoro cognitivo, che vivono nel circuito produttivo del semio-capitale, non hanno usato la rete come ambito di autorganizzazione sociale dell’intelligenza connettiva, dei coltivatori biologici, degli ecologisti e di quella parte della popolazione che non ha gli strumenti per reggere il gioco della competizione. Nessuna assemblea permanente virtuale. Il fronte sociale postfordista è rimasto altamente contraddittorio, così fitto di particolarismi da non poter generare una strategia comune. La realtà parla di lavoratori cognitivi che non hanno la compattezza e l’omogeneità sociale e culturale della classe operaia. I “sapienti” non sono riusciti a contrastare
il discorso pubblicitario (produzione sistematica di illusione), che si è trasformato in una sorta di paradigma di pensiero economico e di azione politica; l’ideologia neoliberale che ruota intorno alla parola “felicità” e pervade l’immaginario sociale prodotto dal media system, in cui la pubblicità crea un senso d’inadeguatezza e insieme sollecita a un consumo che permetterà d’essere “adeguati”.
L’intellettualità di massa che opera nel ciclo del lavoro cognitivo, nella rete interdipendente del lavoro mondiale, dove contano solo le “regole” del mercato, per definizione oscillante, segnato da aleatorietà, flessibilità, arbitrio, oggi chiama in causa la nozione foucaultiana di “governo di sé”, perché la società del rischio e dell’incertezza dà luogo a una struttura del sé costantemente “in recupero” sugli eventi.
L’intellettualità di massa è chiamata a giocare le potenzialità dello sviluppo della scienza e delle forze produttive (telematica, bio-tecnologie, robotica, intelligenza artificiale…) per aprire orizzonti di ricchezza esistenziale, di potenziamento e affinamento qualitativo della vita per tutti, per rompere la dipendenza della ricerca dal dominio delle corporation global. Deve non più subire la lotta di classe del semio-capitale, ma contrattaccare, organizzare socialmente l’intelligenza connettiva, i mille pezzi di un fronte contraddittorio che va indirizzato con un progetto comune, in cui trovi spazio quel “popolo” che vive l’espropriazione della propria potenza di cooperazione, di produzione di sapere, di ciò che è “comune” e che rifiuta di rendere completamente disponibile l’esistenza generica di ciascuno, anche quella parte del popolo che non ha gli strumenti per “correre” nella gara del mercato assoluto.
Gli intellettuali devono parlarci dei rapporti di produzione e di scambio, delle tecnologie e delle forme sociali di vita che essi determinano, della sofferenza e del piacere che la realtà concreta induce nella vita degli esseri umani, della vita buona, quella fresca come la natura potente e felice, unico criterio utile per un giudizio etico-politico. Rompendo l’asservimento della ricerca e dell’attività intellettuale dal dominio delle giant corporation globali è possibile un percorso diverso delle biotecnologie, della telematica, dell’intelligenza artificiale in un mondo non più ansiogeno e psicopatico. Possibile riprendere il contatto materiale con la vita, la bellezza, il piacere, la conoscenza. Mettere in moto una dinamica conflittuale riacquistando il senso della propria fisicità, razionalità, emozionalità, umanità. Stare nel territorio fisico (la cui centralità è tragicamente dimostrata dalle guerre) e nel circuito di info-produzione per influenzare dall’interno il mondo della ricerca, della scienza e della tecnica, così da produrre effetti di autocoscienza, di organizzazione, di riorientamento nel ciclo del lavoro cognitivo, di rovesciamento del funzionamento e del senso dell’innovazione tecno-scientifica. Possibile una condivisione percettiva (cum-passione) della sofferenza e della gioia degli altri membri della comunità, nei “mondi della vita”, intesa come vivente inter-soggettività, facendo sì che la vita quotidiana non sia più un esercizio di sopravvivenza di individui in stato d’assedio, che per difendere il proprio equilibrio psichico devono contrarsi in un io minimo.
Occorre di nuovo rivendicare l’umanistico diritto-dovere di tutti di godere delle arti, delle lettere, delle scienze e un elementare obiettivo di civiltà, il salario minimo mondiale, per evitare che una giacca venduta a 200 dollari sia prodotta da lavoratrici/tori, spesso minorenni, che lavorano, in un sistema servile, 12 ore al giorno per meno di 1 dollaro l’ora. Spezzare la barbarie della condizione servile e miserevole del lavoro ridotto a semplice forza biologica-mentale nei paesi cd “poveri” e in gran parte anche in quelli “ricchi”, che è garanzia di competitività per l’investimento dei capitali.
È il capitale con i suoi automatismi di rete, non la politica, che governa, stabilisce le finalità della produzione, i criteri secondo cui il lavoro cognitivo deve connettersi e produrre oggetti, ma anche stati mentali, combinazioni immaginarie, nella prospettiva di un orizzonte postumano, in cui corpo e mente sono campo di sperimentazione di tecnologie e pratiche sociali e le identità sono oggetto di consumo e s’identificano nei consumi. La lotta deve consistere nel rovesciare contro il capitale la potenza materiale e l’intelligenza generale della classe del lavoro, la forza costruttiva della comunità del lavoro, dell’individuo sociale produttore, la forza della prassi come intervento razionale nella realtà oggettiva per costruire vita buona, vita felice, politicamente qualificata, una vita dotata di una forma, che esprima lo sviluppo di forza e bellezza.
Serve sempre il pensiero d’origine hegeliana e marxista che considera l’evoluzione del capitale come frutto di un’energia nella quale si manifesta dialetticamente l’autenticità, la soggettività negate dallo stato di cose. Quella soggettività deve riprendere il cammino affascinante della Storia, verso una rivoluzione neo-umanistica, Libertas, Civilitas, sviluppo integrale dell’essere umano ed esercizio armonioso delle sue facoltà dentro i piaceri e le responsabilità di un comune destino.
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Jimmie Moglia, Portland Oregon www.yourdailyshakespeare.com