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linterferenza

Caso Battisti: estradizione politica

Fabrizio Marchi

Di tutta la galassia di gruppi e gruppetti che sorgevano come funghi negli interstizi delle metropoli italiane negli anni ‘70 e che hanno praticato la lotta armata, quello dei PAC (Proletari Armati per il Comunismo) di cui faceva parte Cesare Battisti, era sicuramente uno dei più scalcinati.

Un gruppo senza una vera strategia, “spontaneista”, come sarebbe stato definito una volta, che operava ai margini e senza alcun rapporto con organizzazioni ben più strutturate come le Brigate Rosse. Le loro azioni e la loro “pratica” erano rivolte soprattutto contro le strutture carcerarie (medici e agenti di custodia) con l’obiettivo di raccogliere consensi soprattutto nelle fasce marginali e sottoproletarie delle periferie urbane.

Cesare Battisti era uno dei militanti di quel gruppo. Un giovane che, come tanti altri in quegli anni, scelse di ribellarsi ma lo fece nel modo sbagliato, come peraltro lui stesso ha riconosciuto, optando per una scelta, quella della lotta armata e del terrorismo, che avrebbe portato migliaia di giovani in un tragico vicolo cieco.

E’ bene chiarire alcuni punti. La lotta armata e il terrorismo in questo paese non sono nati dal nulla, non sono piovuti dal cielo o dal delirio (che pure c’è stato…) di qualche intellettuale. Sono stati, piaccia o no, il prodotto delle contraddizioni di questo paese, cioè di un conflitto sociale e politico durissimo combattuto senza nessuna esclusione di colpi – in special modo dalle classi dominanti e dai loro apparati di sicurezza legali e/o illegali (leggi stragismo, “Gladio”, servizi segreti “deviati” e trame eversive di ogni genere finalizzate a destabilizzare il sistema democratico e a tenere il movimento operaio sotto pressione e ricatto) – e di condizioni internazionali, oggi diremmo geopolitiche, che lo hanno favorito e anche alimentato. Erano gli anni della cosiddetta “guerra fredda” e l’Italia, anche per la sua posizione geografica, era considerato un paese chiave dell’Alleanza Atlantica. E però, nello stesso tempo, era un paese dove erano presenti un forte movimento operaio e studentesco e il più grande partito comunista del mondo occidentale.

E’ in questo contesto che è nato e si è sviluppato il terrorismo di sinistra (comprese le sue degenerazioni di cui il fenomeno massiccio dei “pentiti” è paradossalmente una delle cartine al tornasole insieme ad omicidi ed atti di violenza ingiustificabili sia sotto il profilo politico che morale) ma anche quella che una volta veniva definita “illegalità diffusa”, cioè un insieme di pratiche e comportamenti sociali di massa: occupazione di case, autoriduzione delle bollette, “espropri proletari”, scioperi e lotte operaie nei posti di lavoro fuori e contro la linea dei sindacati ufficiali e dei partiti della Sinistra riformista. In poche parole la lotta di classe, quella che all’epoca veniva combattuta da ambo le parti e oggi da una parte sola, quella delle classi dominanti.

L’obiettivo ideologico e politico di queste ultime (che hanno vinto quello scontro sociale e politico) è di ridurre quella grande esperienza di lotte, di idealità, di grande partecipazione di massa e di altrettanto grande conflittualità sociale a mero terrorismo, agli “anni di piombo”, come vengono tristemente definiti. E’ quella conflittualità sociale che non viene perdonata se nel 2017, a distanza di quarant’anni, ancora ci si accanisce nel voler perseguire persone che di quegli anni, a vario titolo, sono state protagoniste. E’ trascorsa un’epoca, siamo nel terzo millennio, in un’altra fase storica, è crollato il muro di Berlino, l’URSS e il socialismo reale (ma la NATO è ancora in piedi, viva, vegeta e molto attiva…), il movimento operaio non esiste più così come la Sinistra, chi allora aveva vent’anni oggi ne ha sessanta, e ciò nonostante l’accanimento continua. La ragione di ciò consiste nel fatto che non si vuole dare una lettura politica di quegli anni, perché farlo significherebbe appunto riconoscere che era in atto uno scontro politico e soprattutto sociale, ed è esattamente quello che non si vuole riconoscere.  Del resto la storia la scrivono i vincitori, come noto, e non i vinti.

Tutto ciò è tanto più paradossale se pensiamo che alla fine della seconda guerra mondiale, subito dopo il crollo del fascismo, fu concessa l’amnistia (proprio per mano dell’allora segretario del PCI, Palmiro Togliatti) ai fascisti, decidendo così di voltare pagina, nonostante vent’anni di dittatura, l’alleanza con la Germania nazista, la guerra imperialista e l’aggressione all’Albania, alla Grecia, alla Francia, alla Jugoslavia e all’Unione Sovietica, i tanti lutti, la corresponsabilità con le stragi naziste, le deportazioni, le leggi razziali, le persecuzioni, gli omicidi e le guerre coloniali in Africa con relativi massacri e crimini di guerra.

In altre parole, a torto o a ragione, fu dato un colpo di spugna e gli ex o post fascisti, responsabili e/o corresponsabili di quanto sopra poterono addirittura e fin da subito dare vita ad un loro partito, il Movimento Sociale Italiano (MSI), che faceva esplicito riferimento al fascismo, il cui segretario, Giorgio Almirante, già firmatario del famigerato Manifesto della Razza, aveva ricoperto importanti incarichi nella RSI, oltre ad aver fatto parte della  Guardia Nazionale Repubblicana, milizia fascista che collaborava con le truppe naziste, incaricata della repressione delle forze partigiane e responsabile di impiccagioni e fucilazioni  di partigiani, rastrellamenti ed eccidi avvenuti in diverse località italiane.

Ma è ovvio che i neofascisti non erano considerati pericolosi e anzi furono utilizzati, ai vari livelli, dallo Stato italiano e dalla stessa NATO, o come manovalanza o come stampella parlamentare della Democrazia Cristiana, il partito che ha governato l’Italia per più di quarant’anni.

La richiesta di estradizione di Battisti da parte del governo italiano a quello brasiliano – al di là delle sue personali responsabilità (anche se lui si dichiara innocente per gli omicidi che gli vengono attribuiti da alcuni “pentiti” che si sono peraltro contraddetti l’uno con l’altro…) – non è un incaponimento giudiziario né una vendetta ma la conseguenza dell’ incapacità/non volontà/rifiuto da parte del governo, dello stato e delle classi dirigenti italiane di chiudere politicamente con quella fase storica e di darne una lettura politica. Quella lettura e quella soluzione politica che, come abbiamo visto, fu invece fatta per quanto riguarda l’intera vicenda del fascismo in Italia.

Un tale incaponimento ci fu forse soltanto dopo la sconfitta e la distruzione della Comune di Parigi, uno dei punti più alti toccati dal conflitto e dal movimento di classe nel corso della storia, con arresti e processi che durarono ancora per decenni e decenni.

Gli anni ’60 e ’70, con tutte le loro contraddizioni che abbiamo affrontato in altri articoli (mi riferisco alla deriva ideologica e neoborghese o neocapitalista del ’68 e di una gran parte dei “sessantottini”) e al netto di trame di ogni genere, di depistaggi, infiltrazioni, complotti, collusioni varie, hanno rappresentato un momento alto dello scontro di classe in quello che allora era considerato un paese avanzato della catena di comando capitalista mondiale. E’ questo che si deve rimuovere. Per questo quella complessa vicenda storica e politica deve essere ridotta a mera questione di ordine giudiziario.

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