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terzapagina

Sull’essere comunisti. Un punto di vista

di Carlo Tarsitani

Marx parla poco del comunismo: quando lo fa sembra riferirsi allo stesso tempo ad un processo (o movimento), che porta al cambiamento radicale dell’attuale forma d’organizzazione sociale, con l’abbattimento decisivo della struttura capitalistica dei rapporti sociali di produzione, e a una nuova condizione umana di libertà in cui possono essere soddisfatti i bisogni reali di ciascuno e di tutti e in cui tutti e ciascuno partecipino alla costruzione consapevole e cosciente di un futuro razionalmente concepito. Quindi, progresso e trasformazione. Lo scopo della società futura è la massima felicità per tutti gli uomini. Vale il famoso slogan da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni con la premessa che ad ogni uomo deve essere assicurato il pieno sviluppo delle sue capacità innate e/o apprese. Il comunismo costituisce la negazione del capitalismo, dato che la sua realizzazione si basa sull’eliminazione della proprietà privata e quindi del lavoro alienato. Tuttavia, pensare al comunismo in termini di progresso significa ereditare il patrimonio intellettuale lasciato dalle conquiste “progressive” del capitalismo, dall’abolizione degli antichi privilegi, delle credenze fideistiche, allo sviluppo della scienza e della tecnica (ovviamente nessuna nostalgia per i “buoni selvaggi” o per le comunità ascetiche). E quindi le condizioni necessarie per l’affermazione del comunismo sono poste dallo sviluppo capitalistico pienamente dispiegato. Qui entra in gioco l’elemento dialettico, dal momento che sono le stesse condizioni materiali create dal capitalismo ad indicare la via del loro superamento.

Dunque il presupposto della possibilità di raggiungere una nuova realtà storico-sociale è lo sviluppo una maturità tecnologica tale da garantire il totale affrancamento da qualsiasi costrizione lavorativa che non sia liberamente scelta. Per Marx, com’è del resto ovvio, del comunismo si possono prevedere i principi principali, lasciando da parte progetti dettagliati. L’unica cosa che si può dire è che, dal momento che il progresso della scienza e della tecnica è comunque inarrestabile (anche dopo la realizzazione del comunismo) e nessuno può sapere in anticipo i dettagli della nuova amministrazione delle cose (non più delle merci) che sarà consentita dalle conquiste suddette. Il pericolo principale è che, per passare a questo nuovo stato di cose, occorre una fase più o meno lunga di programmazione e la programmazione, si sa, crea una struttura di potere e una struttura gerarchica della società.

La visione che abbiamo appena illustrato non costituisce una visione propriamente politica. Non ci dice molto sul “che fare” nella situazione storica specifica. La premessa è una concezione complessiva del mondo e della storia. Nel celebre passo della Prefazione a Per la critica dell’economia politica del 1859, Marx enuncia i principi generali della “concezione materialistica della storia”:

Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono ad un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.

Più avanti, Marx parla della contraddizione ineluttabile tra lo sviluppo obbligato delle “forze produttive materiali” e “i rapporti di produzione esistenti” con la conseguente presa di coscienza dell’arretratezza della sovrastruttura giuridica della società. Nasce così la cosiddetta “epoca di rivoluzione sociale”. Egli aggiunge:

Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società e i rapporti di produzione. 

Dunque, le concezioni che gli uomini si fanno del processo storico in atto e della dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione sono forme ideologiche (che mistificano o mascherano i vari aspetti di quel processo). Come tali, esse fanno parte della sovrastruttura. L’analisi scientifica del processo stesso è invece possibile, ma non fa parte di per sé della sovrastruttura ideologica. Tuttavia, poiché è impossibile tracciare un netto confine tra teorie scientifiche e loro presupposti filosofici, la critica dell’ideologia è parte integrante dello stesso dibattito scientifico. Il progresso scientifico, che è reale crescita della conoscenza, dipende quindi fortemente dalla critica razionale dei presupposti impliciti (i pregiudizi nascosti) delle forme in cui erano state espresse le conoscenze precedenti. Personalmente sono convinto che esista anche un progresso filosofico, fortemente legato al progresso scientifico, che non può essere considerato soltanto ideologia. Il proletariato combatte per una nuova concezione del mondo e per il diffondersi di una nuova cultura. Ma bisogna evitare ogni forma di relativismo, altrimenti la lotta di classe si ridurrebbe a uno scontro tra “punti di vista” e la transizione sociale sarebbe il frutto di un semplice atto volontaristico. Per questo la concezione materialistica della storia appare indispensabile. È la conoscenza e l’azione razionale che guida il proletariato nella sua lotta e non certo il sentimento spontaneo o l’istinto di ribellione (che pure possono giocare un ruolo, se opportunamente orientati). 

Se Marx parla di sovrastruttura giuridica, vuol dire che chi vi si oppone ha ben chiari quali ne sono gli aspetti non più tollerabili. Questa “coscienza” non è “ideologia”, ma conseguenza necessaria dell’evolversi dello stesso processo produttivo. Se ciò è chiaro, allora si elimina finalmente l’immagine del processo rivoluzionario come influenza della sovrastruttura ideale sulla struttura economica reale. 

Il brano della Prefazione del 1859  immediatamente successivo a quello citato per secondo è illuminante non solo poiché esso rende più chiaro il collegamento con quanto detto nel primo brano, ma perché dà un’idea del rapporto tra le tesi marxiane e quanto avvenuto nella storia del XX secolo. Dice Marx:

Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. […] A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese possono essere considerati come epoche che marcano il progresso della forma economica della società. I rapporti di produzione borghese sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale […]. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana.

I giudizi circa la “superiorità” e il “progresso” non possono essere considerati ideologici. Essi si riferiscono a quelle premesse filosofiche generali di quella concezione della storia che Marx propugna. Possono essere considerati “sovrastrutturali”, ma solo se si usa il termine “sovrastruttura” con l’intenzione di includervi qualsiasi espressione del pensiero umano che giunga a maturazione grazie allo sviluppo economico della società. Tuttavia non è questo il problema che vogliamo discutere. Riteniamo infatti che il brano citato proietti luce sull’andamento e gli esiti della rivoluzione del 1917 Russia. Non si trattava soltanto di “un solo paese”, ma anche di un paese in cui il capitalismo e la borghesia non si erano ancora completamente affermati, né il capitalismo aveva prodotto uno sviluppo adeguato delle forze produttive. Queste possono essere le cause strutturali della parabola storica della rivoluzione sovietica.

Se guardiamo con freddo distacco ai risultati raggiunti dal PCUS non possiamo negare che la concentrazione autoritaria del potere abbia avuto i suoi meriti. Il costo umano, come sappiamo, è stato però atroce. Qui sta tutto il “problema Stalin”. Un tiranno che però ha portato l’Unione Sovietica a poter competere prima con la Germania durante la guerra e poi con con gli Stati Uniti almeno fino al 1960. Il fallimento della rivoluzione sovietica ha quindi due facce: fallimento della forma politica sovrastrutturale che prende la conduzione dello stato socialista (certo non comunista) sin dagli anni immediatamente successivi alla rivoluzione stessa, e fallimento del programma di sviluppo strutturale, ma solo a partire dagli anni 1960. Di più non so dire. Posso però continuare citando alcuni brani degli scritti giovanili di Marx, brani in cui l’autore si addentra di più di quanto avrebbe fatto in seguito nella sua concezione del comunismo (probabilmente perché ancora impegnato nelle polemiche con i comunisti utopisti). Un passo de L’ideologia tedesca mi appare, proprio per questo punto della discussione, quasi profetico. Marx parla delle condizioni pratiche per la realizzazione del comunismo. A questo proposito afferma:

Affinché [l’estraniazione capitalistica] diventi un potere “insostenibile”, cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell’umanità affatto “priva di proprietà” e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda […].

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