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mauro poggi

Bankitalia, breve storia di uno scippo

di Mauro Poggi

Fra le vicende che a partire dagli anni ’80 hanno segnato la progressiva rinuncia da parte dello Stato italiano alla propria sovranità, e quindi alla propria democrazia, è esemplare quello che ha interessato la Banca d’Italia. Da istituto pubblico di emissione subordinato al Ministero del Tesoro, si è trasformata col tempo in una banca privata facente parte del Sistema europeo della banche centrali, in condizioni di subordinazione alla Banca Centrale Europea – che non risponde ad alcun potere democraticamente eletto.

Di recente mi sono imbattuto in alcuni vecchi appunti: si tratta di una storia nota, di cui tuttavia è sempre utile rammentare tappe e personaggi, dato che si è trattato di un autentico scippo ai danni della comunità, perpetrato in parallelo allo scippo di democrazia.

Fino al 1981 Bankitalia aveva l’obbligo di copertura delle emissioni del Tesoro, garantendo il collocamento integrale dei titoli offerti in asta e controllando di fatto il costo del tasso di interessi che lo Stato pagava per il proprio debito. Lo Stato aveva inoltre diritto a uno scoperto di conto corrente per i suoi fabbisogni urgenti di cassa, a un tasso minimo, per un ammontare massimo fissato al 14% del fabbisogno di spesa previsto dal parlamento.

Ciò gli permetteva di corrispondere un tasso di interesse nominale inferiore a quello dell’inflazione, quindi un tasso reale negativo. In buona sostanza il debito si ripagava da sé.

Questo ovviamente penalizzava le rendite, ma permetteva allo stato di sostenere la spesa pubblica e di limitare le tasse, favorendo l’economia reale e redditi .

Nel 1981, in linea con l’indirizzo ideologico che si andava affermando nella costruenda Europa comunitaria, venne deciso che questa situazione non era accettabile, ufficialmente perché portava a inefficienze nella spesa e contribuiva al lassismo morale della politica. Affinché la spesa diventasse efficiente doveva essere giudicata e sanzionata dai mercati, i soli soggetti che nella nuova visione post-democratica fossero legittimati a esprimersi: nella loro ontologica saggezza avrebbero valutato di volta in volta se lo Stato si stava comportando in modo oculato, stabilendo quindi il valore e il costo dei suoi titoli di debito in base a oggettivi criteri economici e non più soggettivi criteri politici. (Fra i sostenitori di questa tesi, un giovane consulente, certo Mario Monti, il quale era sicuro che in questo modo i giudizi dei mercati avrebbero condizionato positivamente le politiche economiche e in definitiva ci avrebbero consentito notevoli risparmi e il rientro dal debito).

Nel 1981 fu deciso quindi il “divorzio” fra Tesoro e Bankitalia.

Divorzio che non fu deliberato dal Parlamento dopo un’approfondita discussione che permettesse un voto consapevole: fu una decisione fra Andreatta, allora Ministro del Tesoro, e Ciampi, allora governatore di Bankitalia, formalizzata da una semplice lettera fra i due.

Nelle parole di Andreatta, 10 anni dopo, in un famoso articolo pubblicato dal Sole 24 Ore:

“[…] I miei consulenti legali mi diedero un parere favorevole sulla mia esclusiva competenza, come ministro del Tesoro, di ridefinire i termini delle disposizioni date alla Banca d’ Italia circa le modalità dei suoi interventi sul mercato, e il 12 febbraio 1981 scrissi la lettera che avrebbe portato nel luglio dello stesso anno al divorzio

[…] Il divorzio non ebbe allora il consenso politico, ne’ lo avrebbe avuto negli anni seguenti; nato come “congiura aperta” tra il ministro e il governatore divenne, prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi, un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso abolire – soprattutto sul mercato dei cambi – per ritornare alle più confortevoli abitudini del passato.

[…] Naturalmente la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale. Da quel momento in avanti la vita dei ministri del Tesoro si era fatta più difficile e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato.”

Notare come una misura giustificata ufficialmente dall’esigenza di moralizzare la politica monetaria liberandola da condizionamenti elettorali, così da mettere sotto controllo il debito, era in realtà giudicata dallo stesso promotore un “nuovo grave problema per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale“.

Non a caso il rapporto debito/PIL, all’epoca in cui Andreatta scriveva queste note, era già arrivato al 99% (56% nel 1981).

La vera ragione dell’operazione è appena accennata alla fine dell’articolo: “Negli anni successivi [il divorzio] non divenne certo popolare nei palazzi della politica, ma continuo’ ad assicurare i legami fra la politica italiana e quella dell’ Europa“. Il divorzio era stato cioè propedeutico alla sottoscrizione del Trattato di Maastricht, allora in fase preparatoria, che adottava la prescrizione tedesca di drastica indipendenza delle autorità monetarie rispetto ai governi.

La necessità che da quel momento in poi nasceva di corrispondere interessi reali ormai sistematicamente positivi, al livello stabilito dai mercati, comportò per l’Italia l’ingresso nella spirale del debito alimentato dalla capitalizzazione degli interessi: un gigantesco spostamento di risorse dall’economia reale a quella finanziaria e dai redditi alle rendite, con le gravi ripercussioni sul tessuto industriale che ancora oggi il Paese sconta.

L’espressione “gigantesco spostamento” non è un’iperbole, ma va presa alla lettera.

Negli ultimi 25 anni (salvo due episodi) l’Italia è stato l’unico paese europeo che ha realizzato sistematicamente avanzi primari: vale a dire che se si escludono gli interessi sui titoli, le spese della cicala sono state più basse rispetto alle entrate, e i disavanzi di bilancio sono la conseguenza degli interessi.

Se ci si prende la briga di esaminare il periodo 1981-2016, si vedrà che la somma algebrica di avanzi e disavanzi primari, più l’ammontare del debito pubblico al 31/12/1980 (+757-178-114) dovrebbe aver generato un saldo attivo di 465 miliardi di euro. Poiché nel 2016 il debito pubblico era pari a 2218 miliardi, la conclusione è che in questi 35 anni sono stati pagati a titolo di interessi quasi 2683 miliardi: 465 mdl tramite gli avanzi primari, 2218 mld tramite indebitamento – interessi su cui si pagano interessi.

Si tratta di un conteggio grossolano, che tuttavia dà un’idea delle cifre in gioco.

Ma la storia continua.

Nel 1992, in pieno fervore neo-liberista – la cui ideologia viene ormai abbracciata senza riserve anche dalle forze “di sinistra”, Guido Carli e Giuliano Amato decidono di privatizzare le banche. “La giustificazione principale alla riduzione della presenza pubblica nel capitale delle banche è rinvenibile nel legame tra struttura della proprietà ed efficienza nella gestione. La teoria economica tradizionale considera l’impresa privata come un agente che ha come obiettivo la massimizzazione del profitto; stimoli a perseguire livelli di efficienza vengono dal vaglio continuo dei creditori, dalla selezione delle iniziative imprenditoriali sulla base della redditività. Nel contesto della proprietà pubblica, la pressione competitiva può risultare meno intensa; il management può non essere adeguatamente incentivato a ricercare le soluzioni organizzative più efficienti”. (cfr A. M. Tarantola, 2007, intervento al forum “The perspectives of the european banking and financial sector”).

Nessuno eccepisce nulla, anche perché di nuovo l’operazione passa senza alcun previo dibattito in Parlamento e tanto meno nel Paese, dove la stampa omologata si preoccupa di far passare il messaggio della necessaria modernizzazione del sistema bancario.

Tutto fila liscio fino al 2004, quando il settimanale Famiglia Cristiana pubblica un documento che fino a quel momento era rimasto riservato: l’assetto societario di Bankitalia. Si scopre così che questo organismo “di diritto pubblico”, il cui statuto prevede in ogni caso la partecipazione maggioritaria al capitale da parte di enti pubblici, per effetto delle privatizzazioni bancarie di dieci anni prima è finito per il 95% in mani private. Oltretutto, quelle stesse mani su cui Bankitalia è chiamata a vigilare.

Un cittadino fa causa e la vince.

La sentenza 2978/2005 Tribunale di Lecce, dice: “Bankitalia è un ente privato … cui è affidato in regime di monopolio la funzione statale di emissione della carta moneta, senza controlli da parte dello Stato e tuttavia controllata da quegli istituti che dovrebbe controllare. Rileva inoltre la violazione dell’articolo 3 dello statuto, che prevede che la maggioranza del capitale dev’essere tenuto da mani pubblica”.

Per tamponare la manifesta situazione di illegalità, il governo Berlusconi – con legge 262 del dicembre 2005 – stabilisce che entro tre anni le quote detenute da soggetti diversi da Stato o Enti pubblici devono essere da questi dismesse e ritornare allo Stato.

Quindi, nazionalizzazione?

Non scherziamo, nell’Italia neoliberista questa parola è bestemmia.

Quella che il governo Berlusconi ha escogitato è solo una soluzione provvisoria: la soluzione definitiva arriva l’anno dopo, quando, con Decreto del Presidente della Repubblica (i.e. Giorgio Napolitano) del 12/12/2006, l’articolo 3 dello statuto viene riscritto abolendo la previsione che impone la maggioranza pubblica nella partecipazione azionario di Bankitalia. Per la cronaca: il governo di Romano Prodi è insediato da otto mesi; Ministro economico finanziario è un Padoa Schioppa che arriva fresco fresco da una “esaltante esperienza” nel comitato esecutivo della BCE; al Ministero dello sviluppo economico Pier Luigi Bersani.

La legalità è salva. Un po’ meno la legittimità.

L’ultimo capitolo viene scritto qualche anno dopo, allorché il Governo di Gianni Letta, (2013-2014), procede alla ricapitalizzazione di Bankitalia mediante utilizzo di parte delle riserve: la ratio ufficiale è la possibilità di tassare la plusvalenza degli azionisti (la banche) e ridurre il deficit. Il capitale passa da 156 milioni a 7,5 miliardi: la situazione patrimoniale di Bankitalia non cambia di un centesimo, in compenso un’eventuale nazionalizzazione è diventata estremamente onerosa.

La strategia è sempre la stessa: bruciarsi i ponti alle spalle e poi dire che non ci sono alternative all’andare avanti. Noi, felici cittadini eurocomunitari, ce lo sentiamo raccontare ogni giorno.

Come ripeto spesso, è certo che sarà la Storia a giudicare gli attori di questa vicenda, insiemi agli altri loro sodali che in diversa misura hanno avuto un ruolo nel disastro generale in cui ci hanno precipitati. Però continuo a pensare che un tribunale sarebbe stato meglio.

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