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manifesto

Contro la «buona scuola» il no distratto della sinistra

di Piero Bevilacqua

Un leader calato dall’alto, i territori penalizzati dalle candidature. Sono i limiti di LeU. Con l’avvicinarsi del 4 marzo bisogna concentrarsi sui contenuti della battaglia. La scuola che abbiamo conosciuto è sotto attacco. Anziché spingere sulla formazione culturale, il governo la riduce a un apprendistato utile alle imprese

Diciamo la verità, tutta la verità, almeno a sinistra, circondati come siamo da un oceano di menzogne pubblicitarie.

Non siamo contenti di come il nostro campo politico è arrivato all’appuntamento elettorale del prossimo 4 di marzo.

Un anno perduto appresso alle oscillazioni quotidiane di Giuliano Pisapia, quando pure appariva evidente l’inconsistenza del tentativo e l’inadeguatezza del suo proponente.

Poi, al momento della configurazione di un nuovo organismo politico, con la nascita di Liberi e Uguali, il prevalere di logiche spartitorie e pattizie che hanno emarginato i protagonisti del Brancaccio e dunque una vasta area di movimenti e di giovani.

E l’incoronazione dall’alto, come il deus ex machina delle tragedie antiche, di una persona esterna alla storia politica delle formazioni che si fondevano.

Come se il prestigio pur alto di un uomo delle istituzioni, come Pietro Grasso, avesse potuto compensare l’assenza di democrazia nella scelta dei candidati: pratica inveterata che costituisce una delle cause della fuga dai partiti politici e della diserzione delle urne.

Tutto questo mentre a sinistra una nuova formazione, Potere al popolo, mostra altre forze vitali del nostro campo che si disperdono, in un momento di acuto scontro politico e ideale in atto nel Paese

Ma se è andato male il percorso con cui si è arrivati alla scadenza elettorale non è che la campagna con cui ci si presenta al 4 marzo stia proseguendo splendidamente.

Pur tra spunti apprezzabili, mancano indicazioni programmatiche limpide e nette, in grado di caratterizzare e distinguere il campo della sinistra. E nelle indicazioni, a livello di linguaggio elettorale, una strada di efficace comunicazione è costituita dalla opposizione radicale ad alcune riforme del governo Renzi.

Quella contro il Jobs Act è certamente di grande importanza e parla a una larghissima platea di lavoratori e di italiani. Anche se la critica a quel monumento antioperaio andrebbe articolata con maggiore ricchezza di motivazioni.

Ma c’è un ambito fondamentale della vita del nostro Paese, una istituzione strategica per il nostro avvenire, che oggi non appare sufficientemente vicina agli sguardi e agli interessi della sinistra. E’ la scuola. Il luogo dove si formano le nuove generazioni.

Occorre dire con forza quello che è ignorato da gran parte degli italiani: la scuola così come l’abbiamo conosciuta, luogo di formazione culturale, civile, spirituale è quasi andata distrutta. Essa è stata trasformata e diventa sempre di più, una unica, indistinta, scuola professionale.

La cultura, l’insieme di discipline in cui si articola il sapere del nostro tempo è ormai ridotta ad apprendistato, un campo neutro e frantumato di “competenze”, di cui gli studenti devono appropriarsi per accedere al lavoro.

Come è noto l’alternanza scuola lavoro prevede 400 ore annue di prestazioni lavorative da parte dei ragazzi degli istituti tecnici e 200 da parte dei liceali.

Ore sottratte allo studio, alla riflessione, al dialogo con gli insegnati. Questi ultimi sempre meno sono impegnati nell’insegnamento diretto e nella preparazione delle loro lezioni e sempre più assorbiti da compiti di valutazioni del lavoro, di rendicontazione, misurazione dei risultati, elaborazione di progetti per raccogliere risorse per i loro istituti, ecc.

La scuola azienda – un progetto avviato in Europa alla fine degli anni ’90 – diventa un pilastro di una più ampia riforma del mercato del lavoro, in cui le istituzioni pubbliche della formazione vengono piegate ai presunti bisogni produttivi delle aziende.

Una esagerazione? Invitiamo a leggere (Gazzetta, 25/1/2018) il decreto congiunto del ministero del Lavoro e delle politiche sociali e del Miur che istituisce il Quadro nazionale delle qualificazioni rilasciate nell’ambito del Sistema nazionale di certificazione delle competenze.

E’ evidente che siamo arrivati alla cancellazione di un paradigma educativo che l’Europa aveva elaborato nel corso di alcuni secoli, vale a dire il profilo culturale della modernità, il fondamento della nostra civiltà.

E l’aspetto davvero grottesco di questa drammatica involuzione del processo formativo, è che avviene in una fase storica in cui la vorticosa innovazione dei processi produttivi rende obsoleto in breve tempo qualunque “competenza”.

La scuola che vuole formare i giovani non come cittadini e spiriti liberi, ma come lavoratori, equivale a rincorrere a piedi un treno in corsa, ma correndo in direzione contraria. Abbiamo bisogno di generazioni culturalmente ricche e dotate di capacità creativa, per fare della tecnologia che avanza strumenti di liberazione umana e di un superiore assetto di civiltà.

E invece si vogliono fabbricare soldatini di un esercito del lavoro per una guerra che si combatte con altre armi.

Per queste ragioni l’impegno a cancellare alla radice l’assetto aziendale della formazione – di cui la Buona scuola è l’ultimo esito – non è solo un tema efficace di campagna elettorale, ma un obiettivo strategico irrinunciabile della sinistra.

Comments

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renata puleo
Monday, 26 February 2018 19:04
Forse caro Professore, visto che recentemente ha apprezzato il lavoro di riflessione di molti di noi (popolo della scuola) andrebbe in qualche modo ricordato che, fin dal primo testo delle Nuove Indicazioni Nazionali per il Curriculo ( 2007-2012) avevamo visto l'imbuto che da lì portava verso il QNQ (qualifiche, modello EU), passando per la valutazione standardizzata delle competenze e - da qualche anno - dai dispositivi dell'Alternanza Scuola Lavoro.Il problema è che la scuola reale, di base, ha sempre meno luoghi in cui farsi ascoltare, dalla politica, dagli intellettuali. Grazie
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