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Totalitarismo, revisionismo e identità europea a 80 anni dall’inizio della Seconda guerra mondiale

di Cosimo Francesco Fiori

A ottant’anni dal Patto Molotov-Ribbentrop, una risoluzione recentemente approvata dal Parlamento europeo ha riacceso la riflessione sul legame tra secondo conflitto mondiale ed identità europea e sull’uso della categoria di “totalitarismo”. Come contributo alla discussione sul tema ospitiamo questo articolo di Cosimo Fiori

L’assenza di valore normativo propria delle dichiarazioni e dei preamboli non può indurre a sottovalutarne l’importanza, specialmente se il loro tenore è del tutto rispondente al senso comune. A ottant’anni dall’inizio della Seconda guerra mondiale il Parlamento europeo ha approvato a larghissima maggioranza una risoluzione che si aggiunge ad altri strumenti consimili adottati in passato, con cui sono condannati in blocco nazismo, fascismo e comunismo. Analizzarne il contenuto è utile per una riflessione generale sui fondamenti su cui si intende costruire una identità europea e per vedere all’opera i modelli ideali che si sono imposti come egemoni sul piano della vulgata storiografica, terreno elettivo di ogni grande battaglia delle idee.

La Prima guerra mondiale fu certamente «conseguenza immediata» dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, ma chi ritenesse tale evento causa sufficiente della guerra avrebbe bisogno di (ri)aprire i libri di storia.

Analoga censura si può muovere alla risoluzione del Parlamento europeo, secondo la quale il Patto Molotov-Ribbentrop è sufficiente a spiegare il Secondo conflitto che ne è, appunto, «conseguenza immediata». Ma non si fa menzione di ciò che lo ha preceduto: né, ad esempio, del riarmo tedesco, né dell’atteggiamento delle potenze occidentali dal Trattato di Versailles del 1919 (criticato fin da subito da Keynes) fino alla conferenza di Monaco del 1938, con la sostanziale acquiescenza all’espansionismo del Terzo Reich. Tale acquiescenza, secondo alcune ricostruzioni, era peraltro interessata, onde avere un forte “cane da guardia” appunto contro l’Urss, che le potenze occidentali avevano precedentemente contribuito a tentare di soffocare nella culla, foraggiando la guerra civile. D’altra parte, quel Patto è piuttosto incongruo, alla luce di quel che è successo sia prima, sia dopo: la Germania nazista si allea coll’unico Paese comunista al mondo dopo aver mandato tutti i comunisti tedeschi nei campi di concentramento, e poi tenta di cancellare il suo alleato dalle cartine geografiche. La guerra mondiale fu diverse cose assieme, e isolare un fatto storico dal suo contesto è errore talmente grossolano che si può spiegare solamente in base al valore polemico che una simile premessa assume.

Tale premessa è funzionale a un discorso arcinoto, ribadito in ogni atto dell’Ue e che è vero e proprio senso comune: il “totalitarismo”. La teorizzazione del totalitarismo prende le mosse da questioni eminentemente formali, sulla base delle quali si stabilisce l’equivalenza tra regimi anche molto diversi tra loro (si ricordi anche la promiscuità d’uso coi lemmi “dittatura” o “tirannide”): sono concetti scorrettamente usati come passe-partout, concetti generalissimi che consentono di sussumervi cose molto eterogenee sul piano della collocazione ideologica, geografica e persino temporale. Da qui la considerazione sui morti di Hitler e Stalin. Ora, a tacere della facile obiezione su quanti morti abbia richiesto (nelle praterie americane, nelle colonie o nelle fabbriche) l’edificazione della liberaldemocrazia, è scarsamente euristico catalogare regimi politici sulla base di conteggi e tassonomie che escludono il loro elemento più pregnante, ossia il loro contenuto concettuale. Una fondata analisi deve saper fare distinzioni, senza mescolare il tutto in una stolida e generica critica della violenza in astratto, che di fronte all’erompere della necessità della Storia ha lo stesso grado di utilità che potrebbe avere una critica della legge di gravità.

Da un punto di vista generale, la critica al totalitarismo, proprio perché non ha necessariamente a che fare con contenuti ed è sufficientemente generica, si adatta al tentativo di definire una generica identità culturale europea: in sintesi, società aperta contro società chiusa. Prati verdi e grandi vetrate contro solidi Muri di mattoni. La scelta del Patto Molotov-Ribbentrop come premessa non è nuova: da anni il Parlamento europeo ha scelto la sua data, il 23 agosto, come Giornata europea di commemorazione («delle vittime dei regimi totalitari», o secondo altre dizioni «delle vittime di tutti i regimi totalitari e autoritari», o ancora, e segnatamente, «delle vittime dello stalinismo e del nazismo»). I bersagli polemici sembrano essere essenzialmente due.

Per prima cosa, colpisce la crescita di dichiarazioni siffatte dopo il 2004, data di ingresso nell’Ue (e nella Nato) di molti paesi dell’Europa orientale. La condanna del comunismo è funzionale a dare copertura ideale al reingresso di quei paesi nella famiglia dei «paesi democratici liberi», e nelle organizzazioni che ne sono espressione. La questione non è solo l’Unione Sovietica (che, bisogna ricordare, era un paese vincitore della guerra in alleanza con le potenze occidentali); c’è da considerare il rapporto di tutti questi paesi con la Russia odierna. Paesi ex membri del Patto di Varsavia, o addirittura compresi nel territorio dell’ex Urss (Paesi baltici) sono oggi sedi di basi della Nato. Non può negarsi l’influenza di ciò nelle complicazioni del rapporto tra Russia ed Europa, che si estrinsecano, ad esempio, nell’accusa alla Russia di condurre una «guerra di informazione» contro l’Europa e di essere la causa occulta di ogni contraddizione intra-europea (dal cosiddetto populismo ai gilets jaunes). La continuità Urss-Russia porta a notevoli esercizi di revisionismo, come la recente rimembranza dello sbarco in Normandia, tenutasi in Inghilterra alla presenza della Regina Elisabetta, alla quale non erano presenti autorità russe (è vero che l’Urss non partecipò allo sbarco, ma era un paese alleato) ma era invece presente la Cancelliera Merkel (la Germania partecipò allo sbarco, ma invero dalla parte di chi sparava contro gli sbarcati). Di questo passo, in futuro potrebbe perfino ritenersi che la Seconda guerra mondiale sia stata una guerra dell’Occidente contro la Russia sovietica, con buona pace dei morti di Stalingrado: si dovrebbe ricordare tutto questo quando si parla di importanza della memoria e dei programmi scolastici, come si fa nella risoluzione del Parlamento europeo. Il grado di autodeterminazione che poté avere il popolo cecoslovacco sotto il giogo dell’Armata Rossa fu molto simile a quello che ebbe poco dopo il popolo cileno nell’eleggere un presidente socialista come Allende, cui risultò indigesto l’11 settembre del 1973 (anche lì c’erano degli aeroplani, ma si limitavano a bombardare il palazzo presidenziale).

Secondo, inevitabile punto polemico è il già citato populismo, o sovranismo, o nazionalismo, in un’ottica di «resilienza alle moderne minacce alla democrazia». Vari dei movimenti ascrivibili a questa non ben definita categoria politica manifestano istanze di tipo razzista e xenofobo, e sono pertanto – sotto questo profilo – equiparabili al totalitarismo nazista e fascista. Giova però smontare alcuni automatismi, a cominciare dal nazifascismo e dalla sua riduzione alla questione della razza. Il fascismo italiano nasce prima del nazismo tedesco. Trae le sue origini dal nazionalismo dell’epoca bellica, ma non va dimenticato che le precedenti istanze irredentistiche e risorgimentali (anch’esse “nazionalistiche”) non posso essere catalogate puramente e semplicemente come fascismo; il fascismo considerava se stesso come il culmine del Risorgimento, ma lo stesso problema si poneva Gramsci in carcere nei suoi Quaderni. Non si può, pertanto, liquidare ogni considerazione sulla nazione italiana come fascista. Nato dal nazionalismo, irrobustito dal mito della “vittoria mutilata”, il fascismo trova però definitivo slancio ponendosi come soluzione della questione sociale. Non dirimente, alle origini, è la questione razziale: l’Italia non aveva in casa una questione ebraica, e per quanto riguarda le colonie non risulta che l’Italia abbia avuto un atteggiamento diverso da quello della Francia, della Gran Bretagna, del Belgio. Non facile né immediata fu l’alleanza con la Germania nazista (l’Italia, per esempio, voleva un’Austria indipendente) e le leggi razziali arrivarono solo dopo. Il nazionalsocialismo tedesco ha invece nella questione razziale un punto qualificante delle sue origini culturali. Ma l’antisemitismo non nasce negli anni Venti o Trenta: di questione ebraica si discuteva da molto tempo (si veda ad esempio il dibattito ottocentesco tra Bauer e Marx) e nell’Est europeo i pogrom erano faccenda plurisecolare. D’altro canto, il razzismo tipicamente biologistico-positivistico non era una questione solo tedesca: era molto forte anche in Francia, e l’affare Dreyfus (fine Ottocento) lo testimonia. Ciò detto, nemmeno il nazismo è riducibile alla questione razziale: senza le enormi riparazioni di guerra e le umiliazioni imposte alla Germania col Trattato di Versailles e la conseguente drammatica crisi, economica e politica, della Repubblica di Weimar non si capirebbe l’ascesa del partito nazista.

La cronica omissione di qualsiasi accenno alla questione sociale (ossia le ragioni del conflitto che un tempo usava dirsi lotta di classe) come fattore decisivo del ventennio che separa le due Guerre è la degna premessa per un discorso che omette qualsiasi accenno alla questione sociale nell’Europa di oggi. Per quante somiglianze storiche si possano trovare (e certo l’uso di simboli e gesti di quel periodo è un valido aiuto alla teoria dell’equiparazione) non si deve dimenticare che i fenomeni politici nascono nel contesto che gli è proprio, e non in altri. Si condanna il fenomeno di ieri anche per condannare il fenomeno dell’oggi: ma l’erronea comprensione delle cause di fenomeni storici quali la Seconda guerra mondiale è forte indizio dell’erronea comprensione di quelli odierni. Dare la colpa della guerra (anche) all’Unione Sovietica – attaccata e minacciata nella sua stessa esistenza fin subito dopo il 1917 – vuol dire ignorare i milioni di morti sovietici che hanno consentito all’Europa di oggi di proclamarsi libera. Senza una seria considerazione di tutto questo si fa ideologia e puro revisionismo storico.

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