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sinistra

L’origine storica dell’identità palestinese

di Eros Barone

Se vi è oggi un dovere politico, storico e morale a cui i militanti antimperialisti e i sinceri democratici non possono sottrarsi, non vi è dubbio che è quello di intervenire per demistificare una rappresentazione della questione palestinese, quale è quella ìnsita nell’isterico ‘battage’ filosionista dei ‘mass media’, la quale tende, mutuando dalla propaganda imperialistica del sionismo il tono, i contenuti e gli stilemi, ad espungere dalla storia e dalla politica internazionale non solo l’identità, ma addirittura l’esistenza stessa di un popolo palestinese e della sua lotta per affermare il diritto all’autodeterminazione nazionale.

Occorre riconoscere, tuttavia, che capire ciò che sta accadendo in Palestina non è facile, anche perché il sistema dei ‘mass media’, largamente asservito alla voce del padrone, che in questo caso è quella dello Stato di Israele, non aiuta ad orientare su questo terreno ciò che resta di un’opinione pubblica qualificabile come progressista.

Occorre, inoltre, aggiungere che l’evocazione, in chiave emotiva, del tema dell’antisemitismo e dell’Olocausto, nonché la diffusa ostilità nei confronti del mondo islamico, impediscono a molti europei una valutazione razionale delle responsabilità politiche dei soggetti coinvolti: Israele, gli Stati Uniti, i paesi arabi, la Turchia, l’Iran e le organizzazioni palestinesi.

In realtà, contrariamente a quanto affermano i corifei del sionismo filoisraeliano, i quali per coonestare l’occupazione della Palestina non si pèritano di ricorrere, in chiave fondamentalista, perfino alle genealogie bibliche (l’‘invenzione della tradizione’ essendo, a partire dai Pelasgi di giobertiana memoria, un vettore mitopoietico essenziale dei nazionalismi espansionistici), nei decenni a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento, periodo durante il quale le potenze europee, ‘in primis’ l’Inghilterra, decidevano le sorti della Palestina e incoraggiavano il movimento sionista ad occuparla, la Palestina non era un deserto. Era, al contrario, un paese dove da millenni viveva una comunità politica e civile formata da oltre seicentomila persone.

I palestinesi parlavano l’arabo, erano in gran parte musulmani sunniti e coesistevano con minoranze cristiane, druse e sciite, che usavano anch’esse la lingua araba. Grazie al suo elevato grado di istruzione, la borghesia palestinese costituiva dunque un’élite della regione del Vicino Oriente: intellettuali, imprenditori e commercianti palestinesi occupavano posti chiave nel mondo politico arabo, nella burocrazia e nelle industrie petrolifere del Golfo Persico. Questo era il quadro sociale e demografico della Palestina nei primi decenni del Novecento fino alla vigilia della proclamazione dello Stato d’Israele nella primavera del 1948, quando in Palestina era presente una popolazione autoctona di circa un milione e mezzo di persone (laddove gli ebrei, nonostante l’imponente flusso migratorio del dopoguerra, superavano di poco il mezzo milione).

Orbene, l’intera parabola dell’invasione sionista della Palestina e dell’autoproclamazione dello Stato di Israele ha il suo fulcro in una operazione ideologica da cui deriverà una sistematica strategia politica: la negazione, per l’appunto, dell’esistenza del popolo palestinese. L’obiettivo dei maggiori esponenti sionisti, a partire da Theodor Herzl a Moses Hess, da Menachem Begin a Chaim Weizman, per giungere all’attuale primo ministro di Israele, BenjaminNetanyahu, è stato pertanto quello, per un verso, di azzerare l’esistenza della popolazione nativa e, per un altro verso, di squalificarla come barbara, arretrata e indolente. Questa rappresentazione di comodo, tipica della panoplia ideologica del colonialismo, serviva chiaramente a legittimare l’idea che il compito degli ebrei sarebbe stato quello di occupare un territorio semideserto per modernizzarlo.

Va da sé che la ripresa, da parte del sionismo, della ‘missione civilizzatrice’ dell’Europa escludeva, per definizione, ogni collaborazione della popolazione autoctona che non avesse carattere banausico e subalterno. Non meraviglia perciò che la prima grande battaglia che i Palestinesi hanno dovuto ingaggiare dopola costituzione dello Stato d’Israele sia stata quella per il riconoscimento dell’esistenza della nazione palestinese. Il loro obiettivo precipuo è stato quello di affermare, non solo contro Israele ma anche contro i paesi arabi circonvicini, come l’Egitto, la Giordania e la Siria, la loro identità storica e il loro diritto all’autodeterminazione. Soltanto nel 1974 le Nazioni Unite riconosceranno formalmente l’esistenza di un soggetto internazionale denominato Palestina e individueranno in Yasser Arafat il suo legittimo rappresentante.

Sennonché la negazione dell’esistenza di un popolo nella terra dove lo Stato ebraico mirava ad inserirsi è un tratto caratteristico del colonialismo e, in buona sostanza, del razzismo, due elementi che caratterizzano sin dalle sue origini il movimento sionista: un movimento, peraltro, strettamente legato alle potenze coloniali europee e da esse sostenuto in varie forme. Dopo aver infatti concepito il progetto di costituire in Argentina, in Sudafrica o a Cipro la sede dello Stato ebraico, la scelta del movimento sionista cadrà sulla Palestina non solo e non tanto per motivazioni religiose, quanto perché, come fu detto dagli ideologi sionisti, la Palestina è «una terra senza popolo per un popolo senza terra».

È in un contesto prettamente coloniale come quello testé delineato che si compirà l’esodo forzato di grandi masse di Palestinesi(non meno di settecentomila) ad opera soprattutto del terrorismo praticato da organizzazioni sioniste come la Banda Stern e come l’Irgun Zwai Leumi, tristemente famosa per la strage degli abitanti (oltre 250) del villaggio arabo di Deir Yassin nel 1948. Così, dopo la prima guerra arabo-israeliana, l’area occupata dagli israeliani si espanderà passando dal 56% dei territori della Palestina, assegnati in forza della raccomandazione della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, al 78 %, includendo fra l’altro l’intera Galilea e buona parte di Gerusalemme. Infine, nel 1967, a conclusione dalla guerra dei Sei giorni, come è noto, Israele si impadronisce anche del restante 22 %, si annette illegalmente Gerusalemme Est e impone un duro regime di occupazione militare agli oltre due milioni di abitanti della striscia di Gaza e della Cisgiordania, sottoposti alla sistematica espropriazione delle terre, alla demolizione di migliaia di case palestinesi e alla cancellazione di interi villaggi. Ma è la vicenda degli insediamenti coloniali nei territori occupati della striscia di Gaza e della Cisgiordania ad essere emblematica della vocazione colonialista, che contrassegna lo Stato israeliano.

La conclusione che sgorga da questa vicenda storica, economica, ideologica e militare è, come afferma giustamenteEdward W. Saidnel suo saggio sulla«Questione palestinese» (2011), cheil ‘peccato originale’ dello Stato di Israele è il suo carattere strutturalmente sionista. In altri termini, il fondamentalismo sionista è riuscito ad attuare,usando la carta della persecuzione antiebraica e della tragedia dell’Olocausto,la progressiva conquista della Palestinadall’interno, in modo tale da accreditare in tutto il mondo (non solo in quello occidentale) l’idea che l’elemento autoctono sia costituito dagli ebrei e che stranieri siano i Palestinesi. In questa inversione della realtà risiede sia il nucleo della tragedia che ha colpito il popolo palestinesesia la ragione principale delle sue molte sconfitte. Il sionismo si è quindi assicurato, per questa via, un vasto consenso e un sostegno generale da parte dei governi e dell’opinione pubblica europea, così come non è accaduto per alcun’altra impresa coloniale.

Ma in un simile ‘lucus a non lucendo’ sta anchel’errore storico commesso dalla classe dirigente israelianae dalla potente élite ebraica statunitense che ne ha sempre sostenuto le scelte politico-militari. Il popolo palestinese esisteva in Palestina prima della costituzione dello Stato di Israele, continua ad esistere nonostante lo Stato di Israele ed è fermamente deciso a sopravvivere allo Stato di Israele, nonostante le sconfitte, l’oppressione e la distruzione dei suoi beni e dei suoi valori. Esso ha nelle sue mani un’arma formidabile: la conversione della guerra imperialista in guerra civile. Giacché, se nella guerra dei razzi la superiorità militare dello Stato di Israele, che gli permette di massacrare la popolazione civile a Gaza, è schiacciante, nella guerra civile che si combatte all’interno delle città di Israele i rapporti di forza cambiano e la situazione può perfino essere rovesciata da una nuova “Intifada”.

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Sandro Caddeo
Saturday, 22 May 2021 10:40
Commento dell’articolo di Eros Barone “L’origine storica dell’identità palestinese” 22-05-2021
I compagni come Eros Barone, non sono come quelli del PD, o quelli dei 5 Stelle, i quali fanno politica internazionale non conoscendo la storia, e sono quindi di una ignoranza incredibile. Purtroppo, la verità, come dicono anche certe canzoni, fa male. E bisogna anche ricordare che la storia non è una storiella, o una canzoncina che fa anche piacere qualche volta ad ascoltarla, ma è una storia che tutti devono conoscere, studiandola, come facevamo quando eravamo bambini, anche se la storia vera, soprattutto anche dopo il periodo fascista, ha incominciato a essere studiata dopo molti anni da quel periodo. E soprattutto dopo gli anni 60, noi, non solo i Comunisti, o si Socialisti che venivano dalla guerra partigiana contro la Dittatura fascista, perchè oltre la sinistra Comunista e Socialista, vi erano anche altri Partiti che, pur non essendo di sinistra, hanno fatto la guerra partigiana per la liberazione del nostro Paese dal Fascismo. Ma oggi quei Partiti non ci sono più, e solo l'ignoranza o meglio il ritorno a quel periodo può permettere di fare ragionamenti che sono terribilmente falsi. Ecco perchè ho voluto condividere l'articolo di Eros Barone, dal titolo “L'origine storica dell'identità palestinese" che ha scritto il 19 maggio di questo mese. Invece di essere come dice giustamente Eros un problema di natura storica la si vuole solo ed esclusivamente vedere dal punto di vista politico. E invece non è così. La storia si deve studiare, perchè la storia non si conosce se non la si studia, mentre la politica si schiera sempre tra la destra e la sinistra. Io pretendo che la storia venga ripresa nelle scuole per la sua capacità di rivedere il passato, di conoscerlo, perchè senza la conoscenza del passato non possiamo comprendere ii presente, e se non capiamo il presente non possiamo nemmeno progettare il nostro futuro, ma soprattutto quello delle future generazioni. E questo è quello che i fascisti fanno per cancellare la memoria del passato. Noi quella memoria la dobbiamo invece recuperare per portare avanti una politica che guardi sempre al futuro e non al presente. Grazie Eros per questo articolo che riporta le questioni palestinesi nella giusta condizione di chi passa per il colpevole, ovvero lo Stato di Israele, il quale Stato viene sempre aiutato dagli Stati Uniti, contro la Palestina, contro quel Paese che ha sempre vissuto in quel territorio che è la Palestina, perfino la Bibbia degli Ebrei e dei Cristiani conoscono quella storia. E invece la storia, quella vera la si vuole cancellare. E noi non possiamo accettare che venga cancellata come stanno facendo sia la destra che la sinistra che non è di sinistra ma è colpevolmente conservatrice, avendo cancellato LA PROPRIA MEMORIA RISPETTO a quella che aveva il Partito Comunista Italiano. E questo spero con tutto il cuore che riusciamo a farlo finalmente dopo tanti anni dalla morte del PCI che è rinato.
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