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sinistra

Draghi e la trappola dell’ordoliberismo*

di Andrea Ventura

L’alternativa non è tra Stato e mercato, ma nell’idea di società che vi è a monte, cioè tra un sistema basato sulla rivalità e la concorrenza e uno sulla condivisione e cooperazione

L’emergenza pandemica ha imposto la sospensione delle politiche di austerità e un nuovo attivismo dei governi nell’economia, ma non per questo il neoliberismo è alle nostre spalle. Peraltro, anche nelle fasi iniziali della grande crisi del 2008 si pensò che fosse in vista un cambio di rotta, eppure in seguito quelle stesse politiche responsabili della crisi vennero riproposte con maggior convinzione. Assisteremo ancora una volta al trionfo delle idee fallite? Semplificando un tema assai complesso, il neoliberismo è sostenuto da due argomenti che, sebbene siano in contrasto tra loro, si sostengono l’uno con l’altro. Il primo considera il mercato come condizione naturale dell’individuo, che entra in società per produrre, vendere e comprare al fine di migliorare la propria condizione. Leggi, istituzioni e governi dovrebbero pertanto limitarsi a non ostacolare l’iniziativa individuale e lo sviluppo dei mercati. Per il secondo invece, come ogni altra istituzione umana, anche il mercato è una costruzione sociale.

Non si tratta dunque di negare un ruolo allo Stato, ma di indirizzarlo per ottenere dal mercato i massimi benefici. Da questa idea nasce quel filone di pensiero detto ordoliberismo, cioè ordine liberista, che riconosce appunto il ruolo decisivo degli Stati per costruire un quadro giuridico e istituzionale funzionale all’economia di mercato.

L’ordoliberismo ha le sue radici in Germania e ha accompagnato il percorso di costruzione dell’Unione europea, dove troviamo realizzata l’idea che le istituzioni debbano essere funzionali al mercato e alla concorrenza (in particolare alla libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone), che l’emissione di moneta debba essere sottratta al controllo dei governi, come troviamo anche un ruolo limitato del parlamento europeo e quelle rigidità nei criteri di finanza pubblica rafforzate a seguito della crisi finanziaria. Nel contesto europeo, come in quello generato dalla globalizzazione, il rapporto tra Stato e mercato è invertito: non è il primo che regola il secondo, ma sono gli Stati che si trovano in concorrenza tra loro nell’attrarre capitali privati per il finanziamento della spesa pubblica, come anche nella legislazione sul lavoro, nel livello dei salari, nella tassazione delle imprese ecc. I governi però non subiscono passivamente l’ordine di mercato, ma sono parte attiva per autoimporselo. Da qui nasce il paradosso di un’Europa sostanzialmente intergovernativa, costruita con l’intento di limitare la possibilità dei governi di intervenire nell’economia.

La convivenza tra questi due filoni di pensiero consente al neoliberismo di essere rigido nella difesa del mercato, ma adattabile alle circostanze e capace di nutrirsi dei propri fallimenti. La colpa dei propri insuccessi, infatti, può sempre essere attribuita al mancato adeguamento delle politiche pubbliche all’ordine di mercato. L’efficienza del mercato pertanto non potrà mai essere smentita dai fatti, piuttosto ogni crisi è vista come un’occasione per rafforzare l’ordine neoliberista. Lo abbiamo visto negli anni successivi al 2008, quando in tutto il mondo furono attivati massicci interventi pubblici per rimettere in moto quel meccanismo che ha condotto al disastro, scaricando poi i costi di essi su quei ceti già penalizzati dalle politiche neoliberiste. Così, se oggi la pandemia mette a rischio la stabilità sociale, le politiche di austerità possono essere allentate e fondi ingenti mobilitati a sostegno dell’economia, ma non per questo il neoliberismo è abbandonato: decisivo è che il potere politico rimanga in mani sicure e si mantenga funzionale al rafforzamento della concorrenza e del mercato. Di conseguenza un sovranismo temperato, che cioè non metta in discussione l’ordine concorrenziale, è perfettamente compatibile con il neoliberismo, mentre non lo sono forze politiche che volessero restituire vigore a quei diritti e a quelle protezioni sociali attaccate da decenni di rovinose politiche di austerità.

Il quadro sopra delineato può aiutare a leggere i rovesciamenti di fronte a cui abbiamo assistito in questa legislatura. Il naufragio del governo Lega - M5S, cioè dell’alleanza di due forze inizialmente ostili all’Europa, poi la liquidazione del secondo governo Conte, infine l’incarico a Draghi e il recupero della Lega e del M5S in un’ottica tutta interna al progetto neoliberista, costituiscono le tappe di un percorso quasi obbligato nell’Europa di oggi. Invece la prospettiva della costituzione di un’alleanza di forze politiche su una linea spostata a sinistra, con una destra radicalizzata in una demagogica opposizione all’Europa, poteva essere pericolosa. Una volta ristrutturato, grazie a Draghi, il sistema politico, l’alternanza tra destra e sinistra può riprendere ad operare: ci si potrà dividere sullo ius soli – una delle la prima dichiarazioni del nuovo segretario del Pd Letta, priva comunque di iniziative concrete, forse non a caso è stata su questo – sull’immigrazione, sui diritti civili, ma all’interno di limiti ben definiti per le politiche sociali.

Rimane un nodo teorico da evidenziare. Un argomento a sostegno dell’efficienza del mercato è che la concorrenza genera degli aggiustamenti automatici nell’economia che i governi, non avendo informazioni sufficienti, non potranno mai effettuare. Eppure in un documento del gruppo dei 30, di cui Draghi è stato co-direttore (Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid. Designing Public Policy Intervention, Washington DC, dic. 2020) si afferma che le risorse pubbliche devono sostenere le imprese che hanno realmente sofferto dalla crisi e che hanno un futuro, non quelle destinate a scomparire. Draghi, da presidente del Consiglio, sembra voler seguire questa via. Ora, pur essendo indubbio che vada favorita la riconversione ecologica, la digitalizzazione, e pur essendo ragionevole aiutare le imprese entrate in difficoltà per il Covid e non quelle già sull’orlo del fallimento, fino a che punto un governo può decidere chi deve vivere e chi deve morire? Secondo i modelli di equilibrio che si studiano in tutte le università non può affatto, in quanto la sopravvivenza delle imprese più efficienti è l’esito della concorrenza, ed è proprio questa “distruzione creatrice” che rende il mercato più efficiente dell’intervento dei governi; secondo Draghi e il gruppo dei 30, per la selezione dei più efficienti è importante l’uso delle risorse come deciso dai governi, e infatti il Ministero dell’economia si tra attrezzando per individuare, a livello territoriale e per settore di attività, le imprese meritevoli di sostegno. Il documento sopra citato suggerisce il coinvolgimento, accanto ai tecnici dei governi, di “competenze del settore privato”: sarà la McKinsey – attorno alla quale è già scoppiata una rovente polemica per un incarico nella riscrittura del Recovery Plan – ad essere coivolta, come lo fu Goldman Sachs al tempo delle grandi privatizzazioni degli anni Novanta? Draghi non è nuovo a queste commistioni di interessi: passò dall’essere uno dei principali artefici delle privatizzazioni, ad una posizione apicale in Goldman Sachs, posizione da cui partì la sua fulminante carriera ai vertici della finanza internazionale. Oltre al potenziale conflitto di interessi, ci si deve domandare con quale legittimità delle società private possano essere partecipi di scelte così delicate. Altre difficoltà sorgono sulla distinzione, proposta sempre da Draghi, tra debito buono e debito cattivo. Si apre anche qui un mondo: è buono il debito privato ed è cattivo il debito dei governi, sottoposto in Europa a rigida sorveglianza? È buono il debito contratto per salvare il Monte dei Paschi di Siena dalla sconsiderata acquisizione di Antonveneta, avvenuta sotto il vigile sguardo della Banca d’Italia, di cui al tempo Draghi era governatore, ed è cattivo il debito per la spesa sociale? Draghi ha affermato che il debito buono è quello che sostiene la crescita, e infatti oltre la metà dei fondi del Recovery Found andrà al settore delle costruzioni, che ha alti effetti moltiplicativi sul Pil. Ma non può certo essere questo il principale criterio di scelta: c’è la crescita cattiva, che distrugge l’ambiente e arricchisce i più ricchi, e quella buona, che può essere generata dal rilancio dell’istruzione, della cultura e dal sostegno dei più disagiati. Sono scelte complesse, che richiedono competenze tecniche, il coinvolgimento di tutte le istanze sociali, e una visione sul futuro del paese. Draghi sembra invece voler lasciare pochi margini al Parlamento e ai partiti, avendo messo partiti e parlamento di fronte a un piano concordato con Bruxelles, associato a riforme strutturali neoliberali (in gran parte all’insegna del neoliberismo - cfr. A Somma: https://www.micromega.net/il-recovery-plan-sulle-orme-della-troika/ ) finalizzate a vincolare i governi nei prossimi anni. Intanto tra i suoi consiglieri troviamo Giavazzi, da un editoriale del quale Draghi ha letteralmente copiato ampi passi per il suo discorso di insediamento (C. Clericetti, Si scrive Draghi, si pronuncia Giavazzi, https://clericetti.blogautore.repubblica.it/2021/02/18/si-scrive-draghi-si-pronuncia-giavazzi/ ). Giavazzi è noto per aver sempre sostenuto, contro ogni evidenza, che la crescita non si ottiene con la spesa pubblica, ma con le politiche di austerità (austerità espansiva), tesi opposta a quella che segue oggi Draghi.

Regna insomma una grande confusione intellettuale, con un nodo non risolto su chi, e con quale legittimità democratica, governi un passaggio così decisivo per l’Italia e l’Europa. Questa confusione indica che le vecchie idee non hanno più futuro. La fase attuale, ancora una volta, fa cadere un velo: crollato il mito dell’efficienza del mercato, emerge la centralità dell’intervento pubblico nell’economia, che c’è sempre stato. Il neoliberismo e gli attuali assetti europei lo orientano per diffondere una visione dell’uomo e della società basate sull’egoismo esasperato, l’arricchimento e la competizione in ogni ambito sociale. La riduzione delle protezioni sociali è stata funzionale non solo al profitto, ma anche alla formazione individui che, lasciati in balìa del mercato, hanno maturato la convinzione che i propri successi e i propri fallimenti dipendano interamente dalle proprie scelte e dalle capacità personali. È necessario invece lavorare per una consapevolezza nuova: il gruppo, il sistema sociale di cui si fa parte, le protezioni pubbliche sono essenziali per il buon funzionamento dell’economia e per le sorti dei singoli. L’alternativa non è tra Stato e mercato, ma nell’idea di società che vi è a monte, cioè tra sistema basato sulla rivalità e la concorrenza, e uno basato sulla condivisione e la cooperazione. Per affrontare i drammi del paese, come anche le sfide globali, è necessaria l’affermazione di una nuova socialità che riconosca il valore della cooperazione tra individui liberi e uguali.


* Pubblicato su left n. 18, 7 maggio 2021

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