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21 gennaio 1921 – 21 gennaio 2024. La lezione di Gramsci e del PCI

di Alessandro Volponi*

Tre anni fa festeggiavamo il centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia. La scissione di Livorno si colloca nel contesto del dibattito della III Internazionale successivo all’Ottobre russo, e in una crisi profonda del Psi. Durante il regime fascista, il neonato PCdI sarà l’unica forza politica organizzata a non abdicare restando attiva nel paese, divenendo protagonista assoluta della Liberazione.

Il 16 gennaio del 1921 si apre a Livorno il XVII congresso del Partito Socialista Italiano. Grande è l’attenzione in Italia e in Europa per l’evento che segnerà il destino della sinistra italiana per un’intera epoca storica. In effetti, la scissione che lo caratterizzerà non è il risultato di cinque giornate di acceso dibattito, ma è già decisa e le sue cause risalgono indietro nel tempo, basti dire che il 21 gennaio, quando la frazione comunista abbandona la sala al canto dell’Internazionale, lo statuto del nuovo partito, il Partito Comunista d’Italia, è già pronto, e nel fatiscente scenario del teatro Marconi si procede all’elezione del comitato centrale formato da quindici membri rappresentativi di una variegata galassia di gruppi di comunisti, distribuiti in modo tutt’altro che uniforme sul territorio nazionale.

Lo svolgimento del congresso ha piuttosto determinato le modalità della scissione che poteva essere di maggioranza, come a Tours qualche mese prima nel congresso dei socialisti francesi o come avverrà per la federazione giovanile. Poteva ma non fu, per il netto rifiuto della maggioranza assoluta del partito, i massimalisti guidati da Serrati, di procedere all’espulsione dei riformisti poveri di deleghe ma dominanti nel gruppo parlamentare e nella Confederazione Generale del Lavoro.

Nelle elezioni politiche, svoltesi due anni prima e per la prima volta con metodo proporzionale, il Psi aveva riportato un successo notevole: 1. 834.000 voti e 156 deputati eletti. Nel biennio ’19-’20 gli iscritti sono molto cresciuti, così come le cooperative di consumo e di produzione; la Cgl dal ’19 al ’21 moltiplica per otto i suoi iscritti, l’«Avanti!» tira più di trecentomila copie, ma il reale stato di salute del partito non è così buono come appare, perché è profondamente diviso al suo interno per cultura e comportamenti e la scissione in sostanza è una presa d’atto, persino tardiva e formale, di una situazione insostenibile da tempo.

La III Internazionale, fondata a Mosca nel marzo del ’19, dopo aver frenato i compagni italiani per quasi due anni, ha formulato ventuno condizioni per l’adesione dei partiti che prenderanno il nome di comunisti, tra queste, come già detto, l’espulsione dei riformisti. La sinistra internazionale guarda con rispetto al Psi per la sua posizione sulla guerra che l’ha distinto dalle socialdemocrazie europee. La parola d’ordine “né aderire né sabotare” è stata, però, non solo difficile da praticare ma una specie di media tra una destra disposta alla collaborazione, magari sottobanco, e una sinistra affascinata dai bolscevichi e poi galvanizzata dall’Ottobre russo. Non è un caso che l’Internazionale designi due personaggi come Zinov’ev e Bucharin per rappresentarla al congresso italiano: la negazione dei visti li farà sostituire dall’ungherese Rákosi e dal bulgaro Kabakchiev. Il duro intervento di quest’ultimo, nella seconda giornata del congresso, provoca una rumorosa contestazione e alla gazzarra partecipano non pochi delegati massimalisti. Le linee di divisione interna sono in apparenza molto chiare: i riformisti da un lato, la frazione comunista dall’altro, al centro massimalisti, o comunisti unitari, che sottoscrivono tutti i punti della III Internazionale meno uno. A un esame non superficiale appaiono differenze non lievi all’interno di queste correnti e persino in quella di gran lunga più compatta, la destra. La più eterogenea è probabilmente la frazione comunista, come si renderà evidente nei primi anni di esistenza del PCd’I, la breve infanzia coeva del dilagante squadrismo e dell’avvento al potere del fascismo.

Con Gramsci e il gruppo de «L’Ordine nuovo» e il superamento del settarismo bordighiano, il Partito Comunista assumerà la durevole fisionomia del partito per la rivoluzione in Occidente, infinitamente più leninista del “fare come in Russia”. D’altra parte, quando il movimento dei consigli torinese, in lotta contro la serrata degli industriali metalmeccanici nella primavera del ’20, fa appello al partito e al sindacato, dovrà prendere atto del suo completo isolamento al di fuori del Piemonte. Non solo la Cgl impedisce la solidarietà, ma tutte le componenti del partito sono sorde e lo stesso Bordiga esprime la sua diffidenza per il pericolo del corporativismo; la costruzione dal basso del nuovo Stato prima della rivoluzione gli sembra distrarre dal vero problema, il partito e la conquista del potere.

Se stiamo alle dichiarazioni di principio, la distanza tra la frazione comunista egemonizzata da Bordiga e i massimalisti o comunisti unitari si riduce a due punti: la rottura con i riformisti e l’astensionismo, ma su quest’ultimo Bordiga transige per disciplina verso l’Internazionale. Per comprendere la reale distanza tra le correnti del Psi sarà utile ascoltare come Turati si rivolge ai massimalisti nel congresso di Bologna (ottobre 1919): “noi allontaniamo dalla rivoluzione le stesse classi proletarie. Perché è chiaro che, mantenendole nella aspettazione messianica del miracolo violento, nel quale non credete e per il quale non lavorate se non a chiacchiere, voi le svogliate dal lavoro assiduo e pensoso di conquista graduale che è la sola rivoluzione.” Se la stoccata coglie in parte nel segno, non credere alla rivoluzione avvicina incredibilmente riformisti e parte dei massimalisti, in barba alla fraseologia. Turati aveva contrapposto l’orda sovietica all’urbe occidentale, aveva parlato dei rivoluzionari russi come di nazionalisti che si aggrappavano ai socialisti del mondo per la loro disperata lotta per la sopravvivenza; come è possibile accettare le condizioni dell’Internazionale, dichiararsi entusiasti sostenitori della rivoluzione russa (lo sciopero di solidarietà nel ’19 con la Russia e l’Ungheria sovietiche fu un successo) e pretendere una deroga all’espulsione dei riformisti?

La risposta arriva nell’ottobre del ’22; nell’imminenza della marcia su Roma, il XVIII congresso del Psi sancisce la scissione, nasce il Partito Socialista Unitario Italiano a opera dei riformisti e non solo, Serrati fa autocritica, convinto “di essersi sbagliato da Livorno in poi”, ma il fascismo è ormai arrivato al governo e quasi nessuno ha compreso la portata storica dell’evento, neppure i comunisti. “I tratti particolari del fascismo, determinati dalla mobilitazione della piccola borghesia contro il proletariato, il partito comunista non li discerneva … Eccettuato Gramsci, il Partito Comunista non ammetteva neppure la possibilità della presa del potere da parte dei fascisti” (Lev Trockij, Scritti 1931). Per la verità, negli anni dello squadrismo, da Bordiga a Turati, si prevede uno sbocco socialdemocratico alla crisi con la suddetta eccezione di Gramsci. Poiché la divisione avviene più o meno a metà, lieve la prevalenza dei comunisti unitari, una parte dei massimalisti ha saltato il fosso unendosi ai riformisti. Proprio a essi si addiceva l’invettiva citata di Turati. Tutti i recriminatori della scissione del ’21, che avrebbe indebolito la sinistra in un momento decisivo per l’affermazione del fascismo, “dimenticano” la scissione socialista alla vigilia della marcia su Roma che dimostrò l’impossibilità della convivenza con i riformisti e soprattutto omettono di confrontare la radicale diversità dei comportamenti degli schieramenti protagonisti di quelle intricate vicende di fronte al regime fascista.

Dopo l’assassinio di Matteotti il Partito Socialista proporrà al proletariato italiano la resa e i massimi dirigenti della Cgl la resa senza condizioni, fino all’autoscioglimento e all’offerta di collaborazione con il sindacato fascista. Il piccolo Partito Comunista, divenuto così presto maggiorenne, falcidiato dalla repressione fascista, sarà l’unica forza organizzata e attiva nel paese per tutta la durata del regime e come tale si presentò all’esordio della guerra di Liberazione dai nazifascisti nella quale fu protagonista assoluto.

Questa storia e la storia del dopoguerra, fino al compimento del progetto egemonico gramsciano negli anni ’60-’70, hanno le loro radici nella rottura del ’21, quando intransigenti giovani pensosi sognarono la rivoluzione in Italia. La loro creatura, il Partito Comunista d’Italia, ha dimostrato la sua necessità storica; la sua dissoluzione è parte non piccola del disastro politico, sociale e morale che attanaglia il nostro paese ormai da troppo tempo.


* Presidente del Centro Studi Nazionale “Domenico Losurdo”.

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