Come gli USA chiudono l’era Bush
di Michele Prospero
La nuova strategia di sicurezza nazionale archivia la filosofia neocon, che voleva gli Stati Uniti profeti in armi dell’impero e dell'egemonia liberale. Riconosce legittimità ad alcune pretese russe anche in relazione alla guerra in Ucraina, da terminare il prima possibile nonostante l’opposizione degli europei. La sinistra non lasci alla destra autoritaria la bandiera del negoziato
Ma quale nuovo patto Molotov-Ribbentrop! Non è esagerato rimarcare, su due punti specifici almeno, il carattere assai innovativo delle pagine della National Security Strategy (NSS)firmata da Trump. In primo luogo, il rapporto annuale declassa l’avvelenata inimicizia con Pechino: da sfida sistemica condotta senza esclusione di colpi, quella con il Dragone diviene una competizione certo cruciale per prolungare l’egemonia americana ma gestibile attraverso le vie ordinarie. Inoltre la NSS cancella, ed è la cesura più urticante, il fondamento del pensiero neoconservatore, cioè lo scontro tra culture e modelli inconciliabili come verniciatura ideologica dell’unipolarismo a stelle e strisce.
Dopo George W. Bush gli stessi leader democratici hanno raccolto il nocciolo delle riflessioni di Irving Kristol, imperniate sul mito di un “internazionalismo tipicamente americano” da esibire in alternativa al postulato minimalista di un ordinamento pluralistico retto da organismi per la cooperazione e da norme comuni tra pari. Alla cosiddetta ottica tradizionale di New York, trionfante nel dopoguerra con la mappa della deterrenza, venne contrapposta la prospettiva di Washington, che rielaborava l’intera teoria politica delle relazioni internazionali secondo i paradigmi dell’etica dell’interventismo in nome dei diritti violati.
Mettendo al bando ogni approccio negoziale e incrinando gli equilibri regionali correnti, Kristol (Neo-conservatism, 1995) ricondusse l’inscalfibile supremazia USA a un “impulso imperialista”. Mediante un principio radicale come quello della guerra preventiva, diventava finalmente perseguibile una crociata planetaria contro il terrorismo islamico o le autocrazie. Con l’impiego del concetto provocatorio di “imperialismo benevolo” quale fulcro della politica estera per il post-Guerra fredda, Kristol non esitò ad esortare la Casa Bianca a “impugnare il fucile per l’espansione-esportazione della democrazia”. Le bombe andavano sganciate ovunque senza badare troppo alle implicazioni destabilizzanti di una logica tanto conflittuale quanto giuridicamente sterile.
Ai “Washingtoniani”, per picconare i capisaldi di un sistema internazionale abitato da enti sovrani, non bastava più la sperimentazione della “nuova guerra” come mandato umanitario alla maniera di Clinton. Fu infatti con il presidente dem che, al fine di diffondere la democrazia nel segno di una “aspirazione universale”, vennero escogitate “politiche che avrebbero dovuto concentrarsi pure sulle dinamiche all’interno delle nazioni, sulla forma di governo di un paese, sulla sua struttura economica, sulla tolleranza etnica” (C. Layne, B. A. Thayer, American Empire, London, 2006, p. 57). Nondimeno l’attivismo clintoniano in previsione di una “liberal egemony” veniva denunciato dai neocon come un espediente ancora debole: appariva ai loro occhi privo dello slancio verso quel “confronto profetico” che, attorno alla polarità libertà-tirannia, sempre dovrebbe accompagnare un massimalismo imperiale.
Una dicotomia semplicistica tra bene e male spezzava le cautele della grande potenza, che ad ogni modo rimane vincolata nelle opzioni militari, e ingrossava le ambizioni sfrenate di un impero in grado di farsi giustizia da sé. La nuova pax americana richiedeva una totale discrezionalità d’azione: solamente al di fuori dell’impianto normativo della Carta dell’ONU era immaginabile la polizia statunitense in un mondo senza più regole. La partecipazione di Stati non democratici alle Nazioni Unite ne minava a fondo la credibilità e invitava di riflesso i paesi liberi ad amministrare per conto proprio la giustizia internazionale (“Ci odiano perché odiano la libertà”, scandiva Bush).
Quanto all’ideologia da mettere al servizio di una “potenza imperiale” in movimento, Kristol parlava di un “populismo trascendentalista” (tradizione, culto dell’autorità, fede nella saggezza “naturale” o “divina”, obbedienza alla “luce interiore”, celebrazione quasi mistica del “popolo”). Con il rimando a tonalità teologiche si seppelliva il progetto dell’equilibrio delle forze, e lo Stato belligerante era catalogato in termini religiosi. Quando carenti sembravano i valori supremi, le operazioni di contenimento delle capacità militari convenzionali e le invasioni dell’altrui suolo erano legittimate prosaicamente con la fantasiosa imputazione del possesso di armi di distruzione di massa.
La categoria di preventive war si riteneva di pertinenza soltanto del capofila in materia di diritti e democrazia. Thomas Donnelly e William Kristol (figlio di Irving) hanno sostenuto al riguardo: “Siamo una nazione costruita sull’espansione, non solo territoriale e geopolitica, ma della libertà e della prosperità. Gli USA non esistono unicamente per difendere ciò che è, ma per realizzare ciò che può essere”. Con alle spalle un canone morale che autorizza pratiche unilaterali, i paesi venivano classificati e sanzionati da Washington in base alla loro aderenza agli standard americani in tema di diritti umani e religiosi, droga, terrorismo, proliferazione atomica e missilistica.
Il pretesto aleatorio di una missione armata per la democrazia, combinando volontà di potenza e spirito di profezia, faceva cadere le elementari garanzie di reciproca sicurezza tra gli attori. Sul terreno giuridico, “questa egemonia legalizzata trova parte della sua giustificazione in un ritorno a una sorta di pre-positivismo in cui la liceità delle guerre potrebbe essere distinta a seconda della natura degli avversari” (G. Simpson, Great Powers and Outlaw States, Cambridge, 2004, p. 318). Le medesime coordinate hanno indirizzato l’allargamento della NATO per incenerire le rovine del blocco sovietico imploso.
Mentre accettava le clausole della resa, la leadership russa covava il sentimento del rancore. Segnalava Z. Brzezinski (The Choice, New York, 2004, p. 218): “Il Governo russo, probabilmente con un intimo risentimento ma anche con notevole realismo, ha acconsentito a un ruolo di sicurezza svolto dall’America”. Per Mosca non c’era scampo alla sottomissione congiunturale entro un restringimento del multilateralismo. Come rilevava Brzezinski, la doccia gelata imposta da Putin suscitò da subito “critiche di quegli elementi della élite politica russa che vedevano una eccessiva subalternità del loro governo al volere americano”.
Gli effetti costituenti della dottrina che da Bush arriva a Biden – diritto all’autodifesa preventiva della potenza egemone, qualifica dell’atto illecito di aggressione come intervento umanitario permesso sul piano etico – non hanno però edificato un ordine mondiale dominato da Washington. La crisi in Ucraina evidenzia la riemersione dello scenario hobbesiano, ovvero la realtà del potere quale bene che resta diversamente distribuito tra gli Stati, in una cornice a pluralismo recuperato ma con influenze asimmetriche.
Il report trumpiano sulla sicurezza nazionale legge correttamente la genesi dell’attuale disordine individuandola nel caos scoppiato dopo il 1989, con la perdita di status internazionale della Russia e le politiche unipolari americane che hanno scardinato il precedente quadro. Il Cremlino, non appena ha ripreso vigore, ha lanciato il guanto a un complesso ipertrofico che schivava le domande di sicurezza. Dinanzi alle mire occidentali su Georgia e Ucraina svelate nel vertice di Bucarest del 2008, ai vessilli della NATO che si insediavano a ridosso delle frontiere rigonfiando gli arsenali di Kiev, al rischio che persino la Crimea ospitasse le basi navali nemiche, alle esercitazioni militari congiunte del 2021 che di fatto attestavano per Zelensky la condizione di quasi-componente dell’Alleanza atlantica, è deflagrata la selvaggia anomalia dell’orso siberiano.
Nitidamente la NSS archivia le strategie di sicurezza inseguite in vista del potenziamento di un unico protagonista che tende alla smisurata dilatazione. Con il riconoscimento delle legittime esigenze russe di allentare i simboli di annichilimento ai propri confini, l’amministrazione statunitense avanza l’ipotesi di “porre termine alla percezione, e prevenire la realtà, della NATO come alleanza in perpetua estensione”. Oltre a questa nevralgica interruzione della conquista dell’Est, pare promettente il richiamo alla necessità di sforzi politico-diplomatici “per restaurare la stabilità strategica evitando il pericolo di un urto tra Russia e Stati europei”.
Lo Studio Ovale torna così alla concezione classica della sicurezza come patrimonio condiviso, che non ammette l’affermazione della facoltà di condizionamento di un ranger solitario in un gioco a somma zero. Nell’auspicio di un ritrovato bilanciamento dinamico tra gli schieramenti, si confessa la fondatezza di taluni argomenti di Mosca. Il documento sottolinea, non a caso, “l’interesse fondamentale degli Stati Uniti a concordare una rapida cessazione delle ostilità, per consolidare l’economia europea, impedire una escalation o una espansione indesiderata del conflitto, ripristinare la stabilità strategica con la Russia e consentire la ricostruzione postbellica dell’Ucraina”.
Ottuse paiono le obiezioni dei governi liberali europei, che inveiscono contro la fuga americana dalla trincea della guerra per procura. A ragione il testo ricorre al tono sferzante nel momento in cui accusa i “funzionari europei che nutrono aspettative irrealistiche sulla contesa in Ucraina”. Nonostante l’ingente dispiegamento di risorse, armamenti e tecnologie, l’Occidente arranca sul campo. La coalizione sta incassando una netta sconfitta, “pur godendo di un significativo vantaggio di hard power rispetto alla Russia in quasi tutti gli indicatori, tranne che per il nucleare”. I seguaci di Ursula, che “considerano la Russia una minaccia esistenziale” e annullano il voto eccentrico degli elettori sviati da TikTok, marciano verso l’indicibile.
Non senza verità, la relazione nota l’isolamento delle classi dirigenti nostrane allorché constata che “un’ampia maggioranza di europei vuole la pace, ma un tale desiderio non si traduce in politiche”. La spaccatura tra governi e popolo è palese. La sinistra impazzita, con il sabotaggio della “pace ingiusta”, lascia alla destra autoritaria la bandiera del negoziato dentro un rinnovato assetto globale. Una follia.








































Comments
Se il movimento MAGA dovesse perdurare e Vance succedesse a Trump, assisteremo indubbiamente a un riprodursi della spaccatura all'interno delle classi dirigenti provinciali, di cui i trionfi della Le Pen e di AfD, o le tensioni interne al governo Meloni, ci danno già oggi un assaggio.