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Nel mondo post-global il «mercatismo» non incanta più

Vittorio Bonanni intervista Christian Marazzi

Christian Marazzi, economista, è professore e direttore di ricerca socio-economica presso la Scuola Universitaria della Svizzera Italiana. Attento osservatore della realtà sociale ha realizzato numerose pubblicazioni sulla trasformazione del lavoro e dell'economia del post-fordismo. A lui abbiamo chiesto di commentare l'allarme lanciato dal Wall Street Journal sul rinnovato intervento statale nell'economia un po' in tutto il mondo. Una sorta di "addio alla globalizzazione", come ha intitolato ieri Repubblica l'articolo di Federico Rampini

Professore, come valuta questo nuovo scenario? E' veramente l'inizio della crisi di una tendenza estrema, quella appunto del neoliberismo, oppure si tratta soltanto di alcuni aggiustamenti necessari?

Direi che siamo arrivati al punto in cui le società sentono di doversi difendere dalla finanza, la quale si è autonomizzata in un modo assolutamente spropositato, del tutto autoreferenziale e sta creando dei seri problemi di governabilità.E' proprio a partire da questa autonomizzazione che la stessa economia reale, che pure non sta attraversando un particolare periodo di crisi, rischia di entrare in una lunga recessione. C'è dunque questa prima consapevolezza e una conseguente alzata di scudi. Resta il fatto che la globalizzazione da questo punto di vista mi sembra che stia dando sicuramente dei segnali di crisi proprio per quanto riguarda il suo tratto originario, ovvero le liberalizzazioni, la deregolamentazione e la crescita transnazionale. E questo porta anche ad un rafforzamento di una configurazione policentrica del globo.


Insomma più potenze economiche...


Ci sarà un'Europa, che ricerca una sua autonomia e una sua identità, l'Asia, anche se al suo interno possono essere presenti poli che si possono contrapporre l'uno con l'altro, e anche l'America latina.

C'è insomma un inizio di deglobalizzazione e allo stesso tempo, con tutti i rischi che questo comporta, di ristatalizzazione. Non a caso ci sono sempre di più delle grosse imprese multinazionali che sono di fatto pubbliche, statali.


Secondo lei questa inversione di tendenza potrò riportare a galla il keynesismo?


Ancora no. Non credo che ci saranno ancora delle forme di riregolamentazione di tipo keynesiano sul piano delle politiche statali. E questo è l'aspetto più complesso della faccenda che riguarda sicuramente una crisi della mercatizzazione che Giulio Tremonti nel suo ultimo libro La paura e la speranza affronta riprendendo le critiche mosse negli ultimi anni dal movimento no-global. Questa degenerazione del neoliberismo evidentemente anche a destra viene vista come qualcosa da cui proteggersi. Io però non riesco a vedere come questa deglobalizzazione, intesa come spinta verso il policentrismo planetario, possa tradursi in un recupero e in un rilancio appunto delle politiche keynesiane sul piano dello stato nazione. Se vogliamo parlare di un rilancio della dimensione pubblica e dell'intervento pubblico penso che posso soltanto immaginarlo sul piano continentale. Parlando dell'Europa potremmo paventare, per esempio, un superamento di quelli che sono i limiti dei parametri di Maastricht, una camicia troppo stretta per l'iniziativa pubblica sul piano locale. Parlare dunque di un keynesismo post-liberista mi sembra comunque pertinente e legittimo come orizzonte verso il quale quasi inevitabilmente si dovrà andare. Non sono sicuro però che questo poi significhi capacità di regolamentare la finanza impazzita. A me sembra che questa crisi è pesantissima. E durerà ancora per un po' di tempo e gli esiti non sono scontati. C'è una grandissima inquietudine all'interno di quel mondo, si è creato veramente il mostro e non c'è nessuno ancora in grado di fermarlo. Però allo stesso tempo per attraversare questa fase si sono inventate quantità veramente astronomiche di liquidità che non potranno non preparare la prossima bolla speculativa che potrebbe riguardare, dopo il mercato immobiliare, le energie alternative.


Professor Marazzi, se il keynesismo può tornare ad essere un orizzonte legittimo, non crede che potrà, nel futuro, stimolare anche i grandi partiti della sinistra europea a ritrovare la strada di una politica più attenta alle questioni sociali?


In teoria sì. E' anche vero però che chi è stato paradossalmente più keynesiano in questi anni è stata la destra che ha lasciato spesso ai governi socialdemocratici il compito di contenere il debito. E la sinistra, o il centro-sinistra, non ha dato certo prova di grande coraggio in questo senso. Per esempio io sono convinto da tempo che un modo per rilanciare questo modello sia finalmente attuare delle politiche di investimento nel settore della formazione e del lavoro cognitivo. Perché ancora oggi, vera eredità dell'epoca fordista, gli investimenti sono una caratteristica che riguarda soprattutto tutto ciò che concerne il genio civile, e cioè gli immobili, le scuole per esempio, e non quello che ci sta dentro. Un rilancio del keynesismo sulla spinta di quella che è la situazione sul piano globale, con le sfide tecnologiche della Cina e dell'India, sta proprio nel considerare la formazione e la ricerca come dei veri e propri investimenti e non delle spese.

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