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sinistra

Siamo al dunque

di Algamica*

algamica Siamo al dunque definitivo html 92c9b73eea7a658e.png«Siamo entrati, sembriamo non volerlo comprendere, in una fase della storia inedita e pericolosa» scriveva Walter Veltroni sul Corriere della sera l’8 febbraio di quest’anno. Un giudizio che condividiamo appieno. Ma in che senso è inedito e pericoloso, perché e innanzitutto per chi?

Partiamo, come sempre dai fatti per cercare di capire cosa sta succedendo realmente e di cosa ci dobbiamo aspettare. Due sono le questioni in primo piano: la crisi in Medioriente e quella in Ucraina, con risvolti storici tempestosi.

Diciamo fin da subito che lo spettacolo piuttosto indecoroso che stanno offrendo le cancellerie occidentali sull’Ucraina è degno della “migliore” tradizione del liberalismo occidentale: partire lancia in resta quando la storia gonfiava le sue vele e arretrare vergognosamente senza volerne ammettere l’evidenza.

Cerchiamo di chiarire di cosa parliamo: è acclarato che l’Occidente nel suo insieme, causa la crisi storica del modo di produzione capitalistico che non riesce più a far ripartire l’accumulazione, aveva deciso, scegliendo Kiev come testa d’ariete per provocare la Russia, attirarla in una guerra, batterla, smembrarla e stravincere la Guerra fredda, gestire le sue risorse energetiche e tentare di riprendere il controllo della dominazione imperiale ormai in declino. Detto altrimenti una sorta di una nuova Israele più a est. Si trattava di un passaggio obbligato per cercare di recuperare un rapporto con il resto del mondo, l’Asia in modo particolare che la sta sopravanzando nella concorrenza e in particolare per quanto riguarda la produzione e l’approvvigionamento di quelle materie prime e di quei metalli rari necessari alla nuova industria e alla logistica delle telecomunicazioni, che abbondano appunto in Cina, in America Latina, nel cuore dell’Africa, in Russia e in Ucraina e perfino in Groenlandia e di cui sono sprovvisti le nazioni avanzate dell’Occidente e gli Stati Uniti. Dunque un potere capitalistico in affanno che aveva già alle spalle una serie di sconfitte a cominciare dal Vietnam per finire alla fuga precipitosa dall’Afghanistan oltre all’odio guadagnato in gran parte del resto del mondo per i suoi comportamenti gangsteristici.

Per ben 14, lunghi, anni l’Occidente ha istigato l’Ucraina a commettere azioni di “disturbo”, cioè a bombardare le popolazioni nel Donbass, e rivendicare l’ingresso nella Nato. Fino al punto che la Russia è stata costretta a scatenare una reazione per non fare la fine del topo in trappola. Financo il Papa, di origini argentine, parlò di un abbaiare della Nato ai confini.

Durante l’azione di polizia o guerra che dir si voglia da parte della Russia era emersa una figura, un ebreo che faceva il comico, tal Zelensky, che si proponeva come rappresentante del rinascimento della nazione ucraina. Un personaggio edulcorato posto in primo piano come l’eroe della democrazia e dell’autodeterminazione delle nazioni contro la “guerra di aggressione” della Russia.

Mentre l’Occidente faticava a compiere il colpo gobbo in Ucraina subisce lo smacco in Medio Oriente: il 7 ottobre 2023 le forze della resistenza palestinese guidate da Hamas danno l’assalto al confine con Israele, penetrano in territorio e fanno prigionieri giovani militari, membri della difesa civile e coloni festanti.

Si scrisse da più parti, e a giusta ragione, che l’azione di Hamas era stata una sfida all’insieme dell’Occidente. Perché – e ribadiamo a giusta ragione? Perché lo Stato sionista di Israele fu costituito nel 1948 proprio con l’intento di difendere gli interessi dell’insieme dell’Occidente, ovvero il controllo di una delle più importanti risorse delle materie prime, come il petrolio, quanto quello degli scambi di merci e capitali tra le due aree del mondo che costituiscono i mercati decisivi ed emergenti per l’accumulazione mondiale, l’estremo Oriente e l’Africa, e che pertanto una sfida allo Stato colonialista di Israele significava sfidare l'insieme dell'Occidente. Tanto è ciò vero che tutti insorsero a difesa dello Stato sionista sostenendo il genocidio di un popolo e la distruzione di Gaza, paragonando questa come necessità assoluta simile a quella della distruzione di Dresda, di Hiroshima o Nagasaki a guerra mondiale conclusa.

Questa è la realtà dei fatti, poi i propagandisti occidentali e occidentalisti, cioè di quelli assoldati per difendere le ragioni della potenza in decadenza, possono raccontarla come vogliono, ma i fatti sono fatti e alla lunga emergono in tutta la loro evidenza.

Poi però la storia fa il suo corso e … lascia dir le genti, ovvero che su entrambi i fronti – in Medio Oriente e in Ucraina – l’Occidente prende calci sui denti mentre già li aveva iniziati a prendere nel Sahel africano. Israele, a corto di quelle risorse umane necessarie per tenere coesa una nazione produttiva e contemporaneamente impegnare quote crescenti di giovani della popolazione attiva nella pulizia etnica degli arabi dalla Palestina, Libano e Siria, piuttosto che riuscire a completare il suo obiettivo esistenziale, annientare la resistenza a Gaza annichilendo il suo popolo, ha dovuto anche confrontarsi con lo sgretolarsi della legittimazione della sua esistenza come Stato e come nazione, come regime democratico fondato sull’apartheid dei palestinesi, in quanto necessaria “rappresentazione nazionale” dell’autodeterminazione di un popolo inventato – ovvero degli ebrei di tutto il mondo a prescindere dalla loro nazionalità. Così la nuova amministrazione Trump è corsa ai ripari per evitare guai peggiori, imponendo a Netanyahu una tregua proprio con Hamas ammettendo così la momentanea sconfitta inflitta dalla resistenza e dalla tenacia del popolo di Gaza, per prender fiato in attesa di trovare dal cilindro una nuova strategia che però ridimensiona le pretese di Israele e dell’Occidente nel suo complesso nell’area mediorientale e per l’esclusivo utile degli Stati Uniti.

Non gli va meglio in Ucraina dove la Russia avanza e fa arretrare gli Usa al punto che il neo eletto presidente Trump è costretto a chiedere la resa da parte dell’Ucraina, si la resa, come diceva il Papa, perché di resa si tratta.

A questo punto succede l’”imprevedibile” quando la coperta si fa terribilmente corta, ovvero che l’Occidente si spacca: da un lato gli Usa che rivendicano di gestire in proprio la ricostruzione e la proprietà di Gaza per il Medio Oriente e la ritirata da parte dell’Ucraina escludendo il miserabile Zelensky e con esso gli europei dalle trattative di “pace”. Cominciano così a volare gli stracci, allo stesso modo di Marcello Mastroianni nel film Matrimonio all’italiana, nei panni di don Domenico Soriano che accortosi di essere stato preso in giro per essere stato indotto a sposare la sua amante, ex prostituta, va in escandescenza e «io v’accire a tutte quante »! In che modo si comportano i vari Trump, Vance, Musk? Sparando ad alzo zero nei confronti degli europei che fino al giorno prima erano ritenuti fedeli alleati, almeno dai Democratici, rivendicando il diritto di occupare mezzo mondo al proprio confine, di cacciare gli immigrati, di cacciare il personaggio Zelensky trattandolo come uno squallido farabutto e sfruttare in proprio le terre ricche di materiali speciali, e così via. Mentre gli europei, sgomenti, non riescono a darsi pace e si trastullano nella loro meraviglia incapaci di capire cosa stia realmente succedendo.

In tutta modestia glielo diciamo noi a lor signori: è in atto una scomposizione rivoluzionaria del modo di produzione capitalistico per come fino a oggi si era caratterizzato. Come scriveva Veltroni che abbiamo in apertura citato.

Che certi personaggi da quattro soldi possano interpretare l’atteggiamento di un Trump e il suo cerchio magico come una volontà pacifista piuttosto che cercare di capire che i tempi sono cambiati e che si sia trattato di un schiaffo preso dalla Russia che stanca di essere minacciata e ricattata si è data un colpo di reni e fatto di necessità virtù fino a rischiare una guerra di ben altre dimensioni. Parliamo di gente alla Giuseppe Conte, Padellaro, ex direttore del L’Unità, onnipresente come il vecchio saggio su La 7, oppure i Travaglio che scoprono i Cinque Stelle di Grillo prima e di Giuseppe Conte come possibile alternativa alla destra-destra e alla destra-sinistra e via di questo passo. Un Giuseppe Conte che non comprendendo il senso della crisi, delle reali difficoltà dell’Occidente e della sconfitta degli Usa che sta obbligando Trump a scendere a più miti consigli con Putin, gli dà del moderno pacifista. Siamo veramente a un livello sempre più basso, come avrebbe detto Pazzaglia, l’intellettuale in Quelli della notte di Renzo Arbore nel 1985.

 

Trump è l’effetto e non la causa del caos globale

Ma ecco che scattano le critiche da parte dei democratici europei nei confronti di Trump, del suo vice Vance e dei tanti personaggi che saliti sul ponte di comando da una spinta di disperazione di un establishment in difficoltà e di un ceto medio impoverito, menano randellate su quanti rivendicano il rispetto dei diritti, della democrazia, della libertà e via di questo passo. Attenzione bene: gli europei che si sono macchiati col colonialismo di atrocità inenarrabili, rivendicano il diritto di continuare a essere quello che sono stati: manutengoli protetti dalla Nato e compartecipi allo sfruttamento delle risorse dell’Ucraina, sulla gestione del controllo del Medio Oriente e nello sfruttamento di Gaza. Mentre ovviamente gli Usa dicono: « piecoro è fernuta l’evera, acqua ‘a pippa »! Bannon, un vero maestro del senso realistico. Ovvero è finita l’età dell’oro, e se ce n’è ancora sarà solo per noi. Il braccio teso come «saluto romano»? Signori, ma vi volete rendere conto a cosa vi siete ridotti?

Com’è possibile si chiedono – sgomenti – i commentatori del Corriere della sera? Un Paolo Giordano che dice «nei libri di storia del futuro "Tre anni dopo l’invasione dell’Ucraina, la presidenza americana cambiò bruscamente rotta passando dal supporto all’ostilità. In questo quadro mutato l’Europa ... Nell’ultima non ci sarà spazio per descrivere i dilemmi di opportunità, nemmeno per trattare l’Italia come», ecco la corsa al servilismo, «“un soggetto distinto”».

A questo punto comincia la corsa da parte degli europei ad accreditarsi verso l’”autocrate” Trump e il suo cerchio magico. In che modo? Beh, rincorrendolo sul suo terreno, ovvero su un terreno alla Marcello Mastroianni nei panni di Domenico Soriano «io v’accire a tutte quante », dunque contro gli immigrati, contro gli orpelli legislativi della magistratura, contro i diritti delle minoranze, contro le associazioni lgbtq+, contro l’aborto, contro l’ambientalismo, contro la Corte Costituzionale e le corti di giustizia internazionale (CPI e CGI), contro l’OMS, ecc., insomma tutto quanto costituito nella società reale dal lungo corso del movimento storico dell’accumulazione del capitale e in particolare nel suo apogeo degli ultimi 25 anni caratterizzati dalla cosiddetta globalizzazione. Insomma una nuova piattaforma imposta dalla crisi economica, nel tentativo di essere invitati al banchetto della nuova età dell’oro che Trump e il suo cerchio magico promettono, ovvero nell’azione di combinato-disposto con la Russia «per separarla da una ipotetica alleanza con la Cina e prepararsi così a uno scontro titanico col continente asiatico».

Ai poveri di spirito vorremmo solo ricordare che la Cina ha una storia più che millenaria e arrivò sulle coste della California molti secoli prima di Colombo, con navi ben più grandi e se ne tornarono indietro perché non trovarono a suo tempo niente di utile corrispondente al loro livello di produttività raggiunto. Non solo ma che nell’epoca moderna seppero superare le difficoltà, come nel 1961, quando l’Urss di Chruščëv ritirò i tecnici dal suo territorio, abbandonandola al suo destino, oppure da quando morto Mao seppe riprendersi alla grande col deng-xiao-pinghismo e arrivare ai risultati odierni dove emerge in tutti i settori della produzione e del credito in una agguerrita competizione con le nazioni dell’Occidente e con gli Stati Uniti, ma oggi è in difficoltà per le stesse ragioni che affliggono il liberismo in Occidente: calo demografico, sovrapproduzione di merci e mezzi di produzione e mercati intasati. Dunque gli europei farebbero bene a riflettere piuttosto che parlare per far rumore con la bocca.

Diciamo che sognare non costa niente e noi lasciamo volentieri lor signori a continuare a sognare, mentre cerchiamo invece di ragionare su cosa ci prepara realmente il futuro e a che cosa vanno incontro, perciò, le nuove generazioni.

Si imputa a Giorgia Meloni un atteggiamento servile nei confronti di Trump e degli Usa dopo che i grandi commentatori dalle pagine del Corrierone nazionale rivendicano di essere trattati come soggetto distinto. Di grazia, in base a quale criterio si pretende di essere trattati da soggetto distinto imputando alla Meloni servilismo? Forse si tratta di un servilismo maggiore di quello del resistenzialismo italiano che accolse quelli che fino al giorno prima avevano bombardato e raso al suolo l’Italia acclamandoli come alleati e ponendosi sotto il loro comando? La Meloni è una italiana a tutto tondo, che ha capito come spira il vento e si è schierata prima con Biden e poi con Trump. Il resistenzialismo ha fatto ottima scuola con l’unica differenza che oggi è più marcatamente anticomunista e liberista. Cambiano i tempi e ovviamente cambia anche il modo di essere servi. Questo ci obbliga a una riflessione più generale sul piano storico di natura teorica, politica e pratica. E non parliamo, in questo caso ai vecchi militanti del tempo che fu perché ormai ossificati non hanno nessuna possibilità di riprendere in mano certi temi. Parliamo invece alle nuove generazioni per i tempi molto bui che il modo di produzione capitalistico con la sua crisi generale va incontro e la nostalgia per certe espressioni come libertà, democrazia e antifascismo che hanno ormai un significato del tutto anacronistico rispetto alle velleità occidentali e rispetto a tutta una fase di crescita dell’accumulazione a scapito dei paesi più poveri o impoveriti dal colonialismo prima e dall’imperialismo poi. La storia a un certo punto presenta il conto.

Cosa vuol dire parlare alle nuove generazioni? Qui è necessario essere chiari, perché si imputa a una indeterminata sinistra una – reale – incapacità di fare proposte politiche convincenti per sconfiggere la destra arrogante e prepotente che in questo momento è rappresentata dalla Meloni o da Trump o da un Vance.

Ora, se è vero che l’attuale destra al governo (non al potere, quello ce lo hanno gli altri, quelli che non compaiono e che orbitano nelle segrete stanze) non ha rivali e che vive di eredità grazie al fatto che non c’è una alternativa credibile, è altrettanto vero che una alternativa si dà solo sulla base di una forza sociale capace di porre attraverso le mobilitazioni delle rivendicazioni che poi si sintetizzano in una politica di opposizione o di governo.

La sinistra d’oggi è l’ultimo sbrindellato sfilaccio di una tradizione che viene da lontano e che ha origine – è inutile nasconderselo – nel Manifesto di Marx del 1848 dove si teorizzava la possibilità che una classe – il proletariato – potesse disarcionare la classe borghese dal potere e instaurare la propria dittatura. Siamo cresciuti da allora con quella convinzione senza mai metterla realmente in discussione, senza cioè capire che si trattava di una tesi idealistica e volontaristica. Dunque non un modo di produzione che accorpava e compattava in una doppia schiavitù varie componenti della società tenendole insieme per tutto un percorso storico fino al suo esaurirsi come tempo storico. Una classe, quella operaia, che in Occidente, tanto per essere chiari fino in fondo ha condiviso, certamente a cascata il benessere che cresceva grazie allo sfruttamento di aree povere per le materie prime a basso costo dal colonialismo prima e dall’imperialismo poi e che in virtù proprio di ciò ha potuto sviluppare un proprio punto di vista come movimento storico organizzato nel ciclo ascendente della accumulazione della produzione del valore, della merce e del saccheggio colonialista razzista, mentre si discioglie come classe ideale nello sbriciolarsi dei fattori fondamentali che non consentono più lo sviluppo dell’accumulazione.

Pertanto chi oggi si attarda ancora su quella tesi vedrà passarsi la storia sotto il naso.

Questa amara verità fa fatica a essere compresa e ci si è arenati al punto da non saper cosa dire in modo particolare di fronte a spettacoli come quelli che vedono larghi strati di operai inneggiare e votare Trump o la AFD, la Le Pen, la Lega, i Vannacci in funzione anti immigrati. Se per taluni, ipocritamente, fa scandalo, per noi si tratta, senza sconfortarci, di spiegarne le cause.

E le cause risiedono in quello che dice la Meloni nel suo intervento al Cpac (Conservative Political Action Conference) dei conservatori liberali degli Stati Uniti: «una comunità patriota nazionale si deve unire e non dividersi in classi, in generi, e così via»!

Questo è un messaggio che la Meloni assume in quanto espressione di quello che proviene dal popolo, e diviene perciò «populismo» e «nazionalismo» ed è tale sia che a reclamarlo sia la destra come Alice Weidel in Germania che la sinistra come ad esempio la tedesca Sahra Wagenknecht, nella stessa patria o qualche imbecille in Italia che propone le stesse tesi della Sahra contro la sinistra liberale. E lo è anche nella stessa misura quando il più grande sindacato dell’industria dell’auto, l’UAW degli Stati Uniti, sostiene e organizza uno storico sciopero generale degli operai che inneggiano lo slogan “salviamo il sogno americano”. Peggio ancora se un certo nazionalismo populista proviene da personaggi come Netanyahu o Zelensky posti a cani da guardia degli interessi occidentali. Anche perché, sia detto senza mezzi termini, gli ebrei con la crisi dell’Occidente e del modo di produzione capitalistico, che li ha usati prima come “popolo vittima” e poi come “popolo carnefice”, saranno chiamati a decidere cosa fare.

Noi ci rifiutiamo di assumere in qualsiasi modo le ragioni del populismo che si sviluppa in Occidente in una fase che lo pone in difficoltà e lo sta avviando al declino. Più che mai quando quelle ragioni si tingono di nuovo antifascismo contro le nazioni meglio attrezzate nella contesa dei brandelli di una coperta che si fa sempre più corta nella razzia imperialista e che costringe l’Europa in quanto tale a decomporsi o l’Italia al proprio canto del cigno. E ci rifiutiamo ancora di più se a provarlo e a sentirlo sono gli operai perché tali, e in quanto tali. Anche perché un movimento storico che si decompone nessuna delle sue parti potrà ricomporsi allo stesso modo della fase precedente in una nuova entità temporale. È questo che non capiscono i metafisici, gli idealisti positivisti e risultano, perciò, assurdamente astratti. Per le stesse ragioni non riteniamo che con la fine dell’Occidente si debba a esso sostituire un altro “modello”, magari russo o cinese, leninista o maoista, preconfezionato da un piano teorico. Proprio perché non riteniamo il capitalismo essere un modello ma un movimento storico del rapporto degli uomini con i mezzi della produzione e la natura sviluppatosi attraverso lo scambio e le sue necessità determinate, dove il movimento nel tempo non consente mai di ripetere le forme del passato.

Ma, si chiederà il malcapitato lettore, ci dobbiamo rassegnare al peggio, senza poter fare nulla? No, diciamo che ci sono due modi di predicare la rassegnazione: a) uno di “sinistra” dove si salvaguardano i meccanismi del modo di produzione capitalistici ipotizzando di poterli modificare se a dirigerli siano quelli di sinistra ispirati da valori democratici; b) l’altro di destra dove si predica la legge naturale del modo di produzione capitalistico, dello scambio, della sua ineluttabilità e della sua nobiltà incentrata su più produzione, più sviluppo, più ricchezza, più benessere, e pazienza se a beneficiarne è destinata a essere una minoranza perché più dotata, più “audace” o di “razza superiore”. Un ragionamento rispetto al quale ogni critica valoriale è priva di senso perché i grandi teorici liberisti, uno per tutti, un Hayek, potrebbe dire, come ripetutamente diceva: «il fine giustifica i mezzi», come la storia ha poi dimostrato in suo favore a oltre 100 anni di distanza. Un autore che viene molto citato in questo periodo, come nella saggistica di Limes di Lucio Caracciolo.

Poi c’è un terzo modo di predicare la rassegnazione, quello dei Marcello Veneziani e degli Antonio Socci, ultraconservatori di destra, che rimproverano alla Chiesa cattolica di non saper più parlare ai fedeli di Dio, dell’Al di là, della Resurrezione dei morti e così via. Altrimenti detto il «Ceto ecclesiastico» non sa fare più il suo mestiere, non sa più illudere e ammansire le masse «sull’Al di là, sull’anima che continua a vivere anche dopo la morte». Come scrive sul quotidiano Libero di lunedì 24 febbraio il Socci a p. 11. Ovviamente più fine ed eccentrico di un Vittorio Feltri che sul Corriere della sera di qualche tempo fa, alla domanda «cosa c’è dopo la morte» rispose da par suo: «il cimitero».

Per concludere diciamo che a noi certe domande e certe risposte non ci interessano perché siamo legati alla ragione atomistica della materia pertanto siamo grati di essere nati da una composizione e ci sciogliamo in quanto tale secondo il principio «memento homo pulvis est et in pulvere revertetis». Solo che in quanto atomi rivivremo fra mille altre specie della natura e non necessariamente in quella umana in modo particolare – almeno ce lo auguriamo – in quella peggiore. In sostanza alle domande del “che fare”, noi puntiamo sul “che cosa” muove verso la rivoluzione generale di un modo di produzione entrato nel suo stadio temporale finito.

 

Perciò diciamo che:

La tendenza in atto, di cui le accelerazioni impresse dall’attivismo della nuova amministrazione americana è l’effetto e non la causa, non apre a scenari di una nuova Yalta che ridisegnò l’equilibrio mondiale a la stabilità degli scambi di merci e capitali tra Occidente e Oriente e il controllo delle aree del mondo costrette ad affacciarsi in ritardo nel proscenio nella storia moderna a causa di secoli di rapina coloniale e imperialista. Non abbiamo semplicemente a che fare con un accordo di pace voluto dagli Stati Uniti e imposto su Kiev che suona come una estorsione in termini di presa di possesso dei giacimenti di metalli rari verso un paese moribondo che semplicemente estromette tutti i soci europei dalla cupola mafiosa e quindi lasciati a bocca asciutta e attaccati alla canna del gas. Hanno poco da lamentarsi gli Stati della UE che “la proposta che Zelensky non può rifiutare” penalizza l’Ucraina, perché essi sono parte degli strozzini cui in precedenza e in comune accordo avevano imposto il pizzo da pagare verso un paese che sperava in una possibilità di rinnovato “risorgimento nazionale” nell’unica maniera possibile per un paese privo di capitali e macchinari e decisamente composito sul piano storico e nazionale, ossia vendendosi al miglior offerente quando l’Unione Sovietica ormai impossibilitata a sostenere oltre la competizione con le produzioni di merci e capitali dell’Occidente implosei. E tanto meno apre a possibili scenari di nuovi assetti di mercato “multipolari” appalesati dalle difficoltà degli Stati Uniti di servirsi fino in fondo dei propri servi e cani da guardia in Ucraina e in Medio Oriente e raggiungere attraverso essi i propri vitali obiettivi.

Per essere chiari, gli accordi di “pace” di Kiev e sull’Ucraina rappresenteranno una data simbolo nella storia a indicare il momento emblematico della fine di un tempo storico per l’Europa in relazione al movimento storico di un modo di produzione e del mercato mondiale, che attraverso secoli di colonialismo e imperialismo ha concesso alle nazioni europee di primeggiare sulla pelle dei popoli colorati del mondo e segna l’inizio della sua dissolvenza e disgregazione. Mentre la sinistra democratica sgomenta scende in piazza per difendere l’Ucraina da una pace strozzina facendo proprie le angosce reali che attraversano trasversalmente tutte le classi della pancia sociale (sia dei lavoratori che degli imprenditori) che di fronte al declino guardano ai fasti del passato fatto di democrazia e colonialismo, noi salutiamo la sua dissolvenza come parte di un processo rivoluzionario necessario più generale.

Quell’Europa, che secoli di saccheggio coloniale e imperialista la condussero a un tumultuoso sviluppo, alla vigilia delle due guerre mondiali del secolo scorso aveva una popolazione che era ¼ di quella mondiale. Aveva una industria pesante, esportava macchinari e capitali, aveva carbone in abbondanza per alimentare il motore della produzione e battere la concorrenza. Un’Europa che accumulò in virtù della schiavitù nel continente americano e delle colonie la capacità di primeggiare nei confronti dell’estremo Oriente e sul mondo Arabo e Musulmano. Il suo surplus di popolazione emigrava nelle Americhe andando a forgiare quegli Stati Uniti con cui condivideva il comune dividendo del bottino corsaro. La capacità dell’Occidente – Stati Uniti ed Europa - di primeggiare nella produzione di merci era il cavallo da corsa da rincorrere per i popoli che provavano a liberarsi dal sottosviluppo imposto dal mercato diseguale e combinato dell’ordine imperialista, i quali non potevano fare a meno che rivolgersi ai vecchi e rinnovati padroni imperialisti d’Occidente che offrivano merci e capitali necessari, continuando così a cedere in cambio le ricchezze del proprio suolo in un inesorabile esproprio, finendo di essere strangolati dal debito e continuamente sottoposti dai processi di balcanizzazione e occupazione militare da parte delle potenze straniere che difendevano con altri mezzi i propri traffici di merci e la concentrazione in Occidente delle ricchezze. Ora i paesi dell’EU e Gran Bretagna concorrono solo per l’11% della popolazione mondiale e la crisi di un modo di produzione fornisce come proiezione che questa percentuale si ridurrà fino al 6% nei prossimi 20 anni. La crisi della produzione del valore e la ricerca del plusvalore soprattutto in Europa ha imposto la deindustrializzazione, non vi è più industria pesante su larga scala e rimane solo una capacità limitata per produrre i moderni macchinari. Il carbone di cui il suolo europeo era ricco e fiorente, prima ancora che essere inquinante è divenuto improduttivo da almeno 40 anni per via degli alti costi di estrazione e trasformazione per ricavarne in quantità dagli esausti giacimenti. E se questo vale per l’Europa, è altrettanto vero per gli Stati Uniti d’America, dove il trumpismo di fronte alla crisi non può che prender atto dei processi impersonali di un movimento storico quale il capitalismo, che vede consolidarsi tra Asia Orientale e Africa il cuore della massa decisiva del volume mondiale della domanda di merci e capitali e il Medio Oriente la rinnovata cintura di collegamento della circolazione di merci, capitali e della logistica della circolazione del valore tra i questi due continenti. Nemmeno due anni fa, nel Marzo 2022 Credit Suisse – uno degli istituti bancari e finanziari più importanti nella storia del mercato finanziario mondiale – prima che venisse coinvolta da un eclatante per quanto improvviso crack fallimentare del 2023, pubblicò un paio di report che stupirono perfino gli storici e i cattedratici delle Università anglo americane, nei quali veniva affermato che la crisi inflazionistica avviatasi in seguito alla guerra in Ucraina e alle sanzioni alla Russia fosse decisamente peggiore e più profonda di quelle del periodo precedente 2008/2012. Perché trattasi di una crisi che riguarda le grandezze reali dell’economia, in particolar modo la produzione di tutte le materie prime e non i valori nominali della ricchezza accumulata in denaro. Quindi che riguarda il loro possesso, la possibilità di accumularne in grandi quantità, i fattori limitati della logistica e il controllo della circolazione delle stesse merci attraverso gli spazi geografici. Una crisi che rese palese come le leggi dello scambio a predominio secolare da parte delle nazioni occidentali in generale e dagli Stati Uniti poi, sintetizzato nella metafora coniata da Credi Suisse in «la nostra valuta, il vostro problema», improvvisamente si fosse ribaltata secondo il suo rovescio «le nostre materie prime, il vostro problema». Le materie prime sono risorse reali (cibo, energia, metalli, acqua) e anche gli Stati Uniti non ne posseggono a sufficienza per sé e per presentarsi sui mercati emergenti dell’Asia e dell’Africa senza essere penalizzati per deficit di competitività. Scriveva Credit Suisse il 31 marzo 2022: «puoi stampare denaro, ma non carburante per scaldarti, grano per mangiare ». Ce ne è abbastanza per comprendere il “che cosa” muove la crisi e di cosa è espressione il neo trumpismo, altro che fascismo: una risposta disperata alla crisi indotta dai passaggi terminali di un modo di produzione affidandosi fino in fondo ai principi del liberismo, ovvero al libero mercato spregiudicato dove vince la migliore offerta mentre si è attratti magneticamente dai mercati dei continenti in crescita demografica, che contestualmente abbondano di materie prime. Mentre per le nazioni europee, arrivate al fondo del barile, non rimane che il ricordo narciso e spocchioso del Rinascimento e dell’Illuminismo che fornì la giustificazione filosofica e ideologica a 500 anni di colonialismo, schiavitù e razzismo. E se è questo il “che cosa” muove la crisi, è questo il “che cosa” che muove la rivoluzione, che necessariamente è sospinta dal fatto che i bisogni di sviluppo e di autonomia che emergono dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente e l’impossibilità sopraggiunta che la produzione di merce sempre più in aperto conflitto con la natura offra la risposta, da qui la necessaria ribellione dei paesi del Sahel e del Centro Africa e il 7 ottobre e la resistenza palestinese di cui sono solo la punta dell’iceberg. Non ci sono modalità preconfezionate sul da farsi di fronte alla catastrofe e alla rivoluzione inestricabilmente collaterali tra loro. Ovunque le circostanze temporali storiche e spaziali pongono delle domande – che sono eminentemente pratiche - in maniera differente, mentre sotto gli architravi di una società in decomposizione dove noi ci troviamo si è portati a immaginare quanto da sotto quell’architrave fosse visibile prima che gli stessi iniziassero a scricchiolare mutando radicalmente il panorama. Pertanto il da farsi consiste proprio nel non farsi trascinare con lo sguardo rivolto al passato a puntellare quelle travi che stanno per cedere rimanendoci schiacciati sotto. Questo significa che è di precisa importanza allertare le nuove generazioni, che non hanno nulla da perdere se non la necessità di battersi affinché il mondo della natura non finisca in rovina, a dubitare verso quella marea popolare composita che in nome di un antifascismo europeo – da sinistra o da destra – sicuramente inizierà ad agitarsi isterica con toni bellicisti in accesa competizione col cosiddetto “neo fascismo” trumpiano a difesa della democrazia. Mentre all’opposto va sostenuto il pieno sostegno alla Palestina, per la dissoluzione di Israele e la ribellione che ribolle dal Sahel al Centro Africa contro le nazioni Occidentali e le leggi dello scambio, sapendo bene che non avremo davanti a noi un processo lineare e continuo e che non c’è nulla di più feroce della bestia ferita a morte.


Note
[i] I processi materiali della storia presentano il conto attraverso la forma apparente della legge del contrappasso: l’Ucraina in quanto nazione che determinava un coeso popolo ucraino non è mai esistita, se non come entità composita disomogenea. Appare per la prima volta nella storia come entità nazionale autonoma imposta come condizione dalla Germania negli accordi di pace di Brest Litovsk del 1918, che i bolscevichi accettarono senza condizioni con il nemico e a un costo salatissimo per le masse lavoratrici delle città e delle campagne per porre fine al macello della guerra imperialista. Una imposizione che fu contro il moto rivoluzionario che divampava nella “Grande Russia” così come nella “Piccola Russia” (o Russia del Sud, Meridionale o Ucraina) in nome appunto della autodeterminazione dei popoli, sfruttando a vantaggio delle Germania e dell’Austria – e successivamente da tutte le potenti nazioni Occidentali - quel solco di lunga lena che determinò il nazionalismo della Volinia e della Galizia che si era sviluppato nel rapporto di influenza economica durante la dominazione prima Polacca e Lituana, successivamente verso quella dipendenza economica con i traffici di capitali tedeschi, britannici e francesi per tutto il XVIII e XIX secolo, per cui in quella regione che oggi prende il nome di Ucraina, ma prima era denominata Rus’, già dal XVI secolo si produceva grano principalmente per l’esportazione. E poi si affacciò come entità nazionale e come parte di una federazione “panslava”, ereditando di fatto la fitta storia di cooperazione nell’agricoltura e nei commerci degli slavi orientali verso il mondo Bizantino e verso l’area transcaucasica e l’Oriente del composito non omogeneo della Rus’ medievale, che riemergeva dalle campagne povere ogni qualvolta che il peso della dominazione della Polonia, Lituania e della Prussia diventava insopportabile per le masse dei contadini e servi della gleba delle regioni orientali lungo le sponde del Dnepr, portandoli a riconoscersi come parti spaiate dalla storia di popoli diversamente russi [vedi Kostomarov “Due popoli russi” – 1861]. Un processo quest’ultimo che confluì all’interno del processo più generale della rivoluzione bolscevica e nella fondazione dell’Ucraina come parte della federazione dell’URSS. Quando poi questa deflagrò a causa del suo deficit di produttività nella concorrenza con le merci prodotte dal mercato occidentale e sotto il peso di un insostenibile debito finanziario accumulato, l’Ucraina voltò le spalle al processo di autodeterminazione come parte di una federazione più ampia, lasciando l’intero debito finanziario dell’URSS sulle spalle della sola Russia che lo finì di ripagare alle banche private del Club di Parigi nella seconda metà degli anni 2000. Ma dalla sua autonomizzazione l’Ucraina di fronte alle forze del mercato internazionale da sempre apparve come una micro-federazione e priva di una solida identità nazionale coesa. Come sappiamo dalla storia recentissima, il partito Ucraino che governò a lungo il paese ottenendo la maggioranza dei voti popolari e che fu estromesso da un sommovimento popolare liberista e nazionalista filo occidentale durante i famosi moti di piazza Maidan del 2014, si chiamava Partito delle Regioni - Partija Rehioniv, il quale era la continuazione della precedente formazione politica il Partito della Rinascita Regionale d’Ucraina. Un tratto della storia per cui la denominazione di ucraini e ucraini russofoni o filorussi è priva di significato storico scientifico, quanto non lo aveva la precedente semplificazione che classificava i popoli in grande russi e piccolo russi.
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Comments

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Franco Trondoli
Friday, 14 March 2025 12:37
Il fatto che non ci siano commenti, garantisce che l'articolo, come un dardo, coglie nel segno.
Complimenti ad Algamica.
Buona Fortuna
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