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Uscire dalle catacombe, contro l’apocalisse culturale

di Geminello Preterossi

112094229.jpgQuesto sasso nello stagno è una rivendicazione del sapere contro lo scientismo e l’ideologia tecnocratica (che si dissimula come neutrale e oggettiva), delle guglie della bellezza contro il suo appiattimento, della polis come luogo dell’anima contro le caricature impolitiche della soggettività, dell’accettazione consapevole e onerosa delle sfide aspre che ci pone la questione antropologica, tornata al centro del nostro tempo, contro il finto sorriso mostruosamente accomodante del Sistema dell’Iniquità, che produce solo distruzione dell’umano e totalizzazione dell’ostilità. A Gaza abbiamo una rappresentazione paradigmatica della banalizzazione del Male, reso quotidiano e normale dal governo di Netanyahu, che ha portato Israele ormai ben oltre la politica di potenza e la durezza repressiva del passato, quando pure aveva perpetrato orrori, come la strage di Sabra e Shatila, ma nascondendosi dietro la complicità con altri attori, velando le proprie responsabilità, per un residuo di pudore o per calcolo, perché assumerle apertamente avrebbe causato contraccolpi e reazioni in termini di consenso interno e credibilità internazionale. Oggi ogni maschera è caduta, e il Male sistematico (un vero e proprio disegno eliminazionista) viene compiuto direttamente, rivendicandolo.

Eppure, si sente dire, siamo entrati nell’epoca delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Intelligenza Artificiale. Ammesso che lo sia (certo non “creativamente”), quello che manca è l’Intelligenza Collettiva (a dispetto di tutte le elucubrazioni sul General Intellect e sul capitalismo della conoscenza). È il tempo della “scienza” (non del sapere) come riduzione, efficace nel suo perimetro. Efficace esattamente come, dal punto di vista antropologico, lo era la magia nel suo ambito. Ma l’attuale uso della tecnoscienza è efficace anche antropologicamente? Il suo riduzionismo quali implicazioni ha per l’esperienza umana, quali prezzi fa pagare? Siamo sicuri che quella riduzione assicuri una comprensione profonda della complessità della realtà e della nostra stessa soggettività?

Non occorre invece un sapere capace di fare i conti con la complessità dell’umano, oltre che con l’ineludibile dimensione simbolica della nostra esperienza (peraltro in sintonia con le acquisizioni più interessanti e sorprendenti della fisica contemporanea, come quelle legate agli sviluppi della meccanica quantistica)? Ma un sapere siffatto non più essere meramente tecnico-ingegneristico-applicativo, perché produce una torsione dell’umano, che ci allontana dal nostro centro più intimo e distorce la nostra percezione del reale. E quindi ci allontana anche dalla verità, per noi inagguantabile in modo compiuto e definitivo, ma allo stesso tempo avvertibile come risonanza della sua totalità. Nel nostro essere infiniti nel finito, c’è il senso di una integralità irriducibile, non addomesticabile in formule, ma anche di quanto ci sfugge e tuttavia avvertiamo, presentiamo, esperiamo persino, seppur in forme determinate e perciò parziali. Il problema è che nell’arcaico, e ancora nella tradizione (persino in quella moderna, almeno fino a un certo punto, e sicuramente nelle sue sacche “vichiane”), eravamo dentro il sacro e il rito. L’ultra-modernità ci allontana da essi, sviluppa forme compensative, le quali devono riempire un vuoto che non sarà mai colmabile dalla tecnoscienza (sebbene stia diventando una religione sostitutiva che però, non essendo comunitaria, polverizzando l’umano, produce solo feticci fanatizzanti).

Nelle società tradizionali non è che non vi fosse il dolore, o non si pagassero prezzi, ma questo era riconosciuto e in qualche modo ritualmente curato (come insegna l’antropologia, ad esempio le indagini di De Martino sul tarantismo). L’ideologia iper-tecnica, azzerando le comunità e il loro ancoraggio al sacro (anche nelle sue forme secolarizzate), non può più farlo. L’anti-rito non può fare di se stesso un rito, se non attraverso simulacri che alimentano lo spaesamento, più che sanarlo. Le società post-neoliberali hanno un disagio nuovo, che non è quello “classico” della civiltà. La mera negazione immediata, nichilista, senza possibilità di mediazione collettiva e interiore, non può prendere in carico le asimmetrie perturbanti dell’immediatezza. Con ciò si perde non solo il collettivo, ma anche l’intimo “agostiniano”. Non a caso, sintomaticamente, anche l’attuale immaginario veicolato da cinema, letteratura, musica, arte in genere, in profonda crisi da omologazione e mercificazione nichilistica, è tutto fintamente intimista e diaristico, ma senza profondità: una pappa del cuore senz’anima, che dà espressione a vere e proprie caricature delle soggettività. Basta pensare a certe serie TV (che sono l’anti-cinema), o a certe pseudo-canzoni pop, che veicolano un’estetica dello sfigato contento, o fintamente disperato e trasgressivo, un minimalismo superficiale e ripetitivo da bimbi-minchia. Cioè uno spleen senza psyché, perfetto per fare da tappeto sonoro dei “non luoghi” commerciali. Una volgarità violenta e infima, una paccottiglia esistenziale da “maledetti” innocui, vocati a una redenzione fittizia nell’adesione acritica al mainstream. La caricatura della trasgressione a fini di mercato, laddove ormai è l’umano in quanto tale a essere svilito e commercializzato. Nessun reale abisso, solo cinica pochezza. Dal Rolex coatto a Maria De Filippi (cioè ancora il Rolex, ma ripulito, levigato in superficie grazie al buonismo e all’amichismo giovanilista, senza disdegnare la stasis per finta dei più âgées). Manierismo collusivo, che ammicca e cerca complicità mimetiche, costruendo un mondo separato, virtuale e totalmente chiuso all’esterno, al reale, all’insegna del trash sdoganato ed estetizzato e di una disinibizione controllata dall’alto delle pulsioni, che consente sfoghi e identificazioni regressive sul divano (tipico in questo senso l’immaginario veicolato dalla serie Gomorra, che purtroppo ha fatto scuola). Una bella compagnia di giro, non c’è che dire: da Achille Lauro a Saviano, da Fazio a Veltroni, da Geolier agli improbabili premi Strega degli ultimi anni (solo per fare qualche esempio trasversale).

Ridateci Elsa Morante, immenso “scrittore”, come voleva essere chiamata, che con coraggio e sapienza ha saputo raccontare per tutti la Storia con gli occhi di Useppe, nuovo Bambinello dallo sguardo puro che assorbe tutto il male del mondo, così come la poesia assoluta degli animali e dei bambini (caso unico, quel successo de La Storia, perché come diceva Gramsci gli scrittori italiani non scrivono per il popolo; mentre Elsa volle e riuscì a farlo, imponendolo anche al suo editore). Non a caso La Storia fu un successo di pubblico clamoroso, suscitò grandi dibattiti, ma non fu capita, anzi fu rifiutata, dall’establishment “di sinistra” (con alcune, rare eccezioni). I cattolici capirono (Carlo Bo, ad esempio). I rivoluzionari da salotti no. Con in prima fila Rossana Rossanda, la quale scrisse, mostrando di non aver capito nulla (ma forse rivelando così che il messaggio urticante della Morante era arrivato a destinazione), un commento inqualificabile, per ottusità e arroganza: “Vender patate è meglio che vendere disperazione; non solo perché è più utile, oltre che coerente con i semplici valori cari alla Morante, ma perché è più lineare”. Sul Manifesto di allora, pur nella sostanziale ostilità verso il libro, ci fu perlomeno un dibattito, ad esempio con la voce più acuta e riflessiva di Rina Gagliardi (“La Morante non è marxista. E allora?”). A quei tempi, nonostante tutto, era ancora possibile. In ogni caso, Useppe aveva colto nel segno. Evidentemente, c’era una fanghiglia da smuovere, nella cultura “progressista” italiana. Oggi, in assenza di ideologie, anzi al tempo dell’ideologismo politicamente corretto e neoliberale senza ideologia, quella fanghiglia persiste in altra forma, con la stessa presunzione, ma con meno cultura. E ridateci anche Giorgio Gaber, che vide la libertà neoliberale arrivare prima ancora che si manifestasse apertamente, così come l’ambiguità feroce e conformista degli individualisti pseudorivoluzionari, i “cari polli d’allevamento”.

Il precipitato del riflusso privatistico-globalista, particolarmente insidioso in un Paese come il nostro che ha perso l’anima ripetutamente nell’ultimo mezzo secolo (dall’esaurimento della spinta propulsiva della Repubblica fondata sulla Costituzione fondata sul lavoro fino alla sacralizzazione del vincolo esterno) è un mix indigesto di buonismo, neoliberismo antropologico, mercificazione estetizzante del triviale, individualismo senza libertà, affiliazioni senza comunità. Ma, si dice, tutto ciò esprime la società, è quello che il popolo vuole. Questo è il classico alibi deresponsabilizzante dei collaborazionisti che si pretendono innocenti. Ce ne sono molti esempi, soprattutto nel mondo dell’informazione e della comunicazione, a parte poche eccezioni, sempre più rare: velinari, sbufalatori di regime, maschere grottesche che recitano una parte a soggetto, per conto dei rispettivi padroni, nei talk shows televisivi. Nessuno che si chieda: cosa l’ha conformata tale società? Ma porsi domande “genealogiche” è bandito. In realtà, il popolo vuole quello che gli si dà. Così lo si fa “bue”. Anzi, peggio: passivo, feroce all’occorrenza ma docile al vero potere, di solito fuori scena. Ovvero, il popolo è la sua Bildung. Per questo, ridateci anche Ettore Bernabei e Biagio Agnese (il nazionale-popolare di Gramsci lo aveva realizzato la Dc con la RAI dei tempi d’oro).

La naturalizzazione dei fenomeni sociali è la classica strategia neoliberale per sterilizzare il conflitto. Gli effetti sono devastanti, e a macchia d’olio, perché minano la consapevolezza storica, la cultura politica, la capacità di visione dei saperi esperti, la cognizione della politicità del diritto e dell’economia (“sono cose tecniche, oggettive, noi non possiamo capirle, facciamole fare agli esperti, che sono neutrali; anzi affidiamogli proprie le istituzioni democratiche, così stiamo tranquilli: senso comune medio del piddino educato per decenni alla mitologia dei tecnici di Repubblica & C.). Il sapere specialistico, l’esperienza fondata sulla conoscenza contano, intendiamoci. Ho avuto la fortuna di avere grandi maestri, in Normale. Ma tra le cose che mi hanno insegnato c’è quella di diffidare delle pretese di neutralità, di valorizzare sempre il dubbio e il confronto critico, di guardare sempre cosa c’è dietro le “narrazioni”, di comprendere la complessità della storia e della politica, segnate dal conflitto quale tratto costitutivo dell’umano, e da dinamiche di potere che vanno conosciute e disvelate, non negate e nascoste, perché da esse non ci si immunizza facilmente.  Oltre che a cercare sempre un dialogo reale tra intellettuali e popolo, come ermeneutica e pedagogia reciproche, nonostante in Italia sia particolarmente difficile, per il “cosmopolitismo” antipopolare e antinazionale degli intellettuali medesimi, oltre che per la frammentazione politica e la presenza di una forte vocazione universalistica che eccede i destini del nostro Paese (quella della Chiesa che eredita le insegne dell’Impero romano): tutti elementi che rappresentano  tanto un’enorme ricchezza quanto un fattore problematico di disomogeneità, policentrismo e blocco reciproco.

Per fortuna nell’Italia di oggi non sono del tutto estinti veri poeti, scrittori, musicisti, cantanti, artisti (così come veri pensatori, e non burocrati del conformismo intellettuale), anche se spesso stanno nelle catacombe. Alcuni li trovate tra i collaboratori della Fionda. Il fatto che esistano (e resistano) ancora è per certi aspetti incredibile. E infatti, questo miracolo accade, sovente, al prezzo di una motivata, profonda sofferenza, di una lotta interiore per sottrarsi alla presa della rassegnazione al conforme, dell’assuefazione che narcotizza. Ma dalle catacombe sorse qualcosa di rivoluzionario. È urgente provare a uscirne, di nuovo. La pace verrà da qui. 

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Comments

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Carlo Tarsitani
Saturday, 14 June 2025 11:53
Il problema non è la definizione di tecno-scienza, con la sua ambiguità (non vedo come classificare le ricerche in astrofisica, per esempio). Il problema è la razionalità. La cultura rivoluzionaria (di sinistra, c’è bisogno di dirlo?) è da sempre contraddistinta dalla ricerca razionale della verità. Non la chiamiamo “scienza”? Va bene. Ma l’amore per la razionalità (delle indagini, delle argomentazioni, delle critiche) delle indagini, delle argomentazioni, delle critiche) e per la verità (che sappiamo essere rivoluzionaria) resta il criterio principale di distinzione dalle forme irrazionali della destra conservatrice e dell’estrema destra. E non dimentichiamo che lo stesso capitalismo non è di per sé razionale. È piuttosto il contrario. E spetta a noi svelarlo. Non dimentichiamolo mai.
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