Hegel con Pashukanis. Una lettura marxista-leninista*
di Carlo Di Mascio
La scelta di una filosofia dipende da quello che sei.
J. G. Fichte, Prima introduzione alla Dottrina della Scienza
1. La ricezione russo-sovietica di Hegel tra filosofia e politica
Nel 1931 Evgeni Pashukanis pubblica un saggio dal titolo ‘Hegel. Stato e diritto’1, dedicato al centenario della morte di Hegel. L’occasione era stata fornita dalla possibilità di partecipare, con alcuni scritti di filosofi e giuristi sovietici, allo Hegel-Kongreß tenutosi a Berlino nello stesso anno, partecipazione poi - come ricorderà Pashukanis - «comicamente» negata dagli organizzatori che, nel rifiutare gli scritti di provenienza sovietica, si limitarono solo alla ricezione di semplici comunicazioni «sulla portata e l'organizzazione degli studi hegeliani nelle istituzioni scientifiche russe». A ciò fece seguito, come ancora polemicamente riportato dal giurista sovietico, il commento di Georg Lasson, tra i promotori del congresso berlinese, per il quale sarebbe stato «assurdo scoprire la dottrina hegeliana dello Spirito assoluto nel materialismo inanimato del marxismo»2. Ora, non serve qui soffermarsi sulle ragioni di una tale esclusione. Essa non poteva che dipendere dal ritenuto stato «avanzato» degli studi hegeliani nell’Occidente europeo, in un contesto culturale e storico-politico molto particolare, connotato dall’avvento del nazi-fascismo in Germania e in Italia3, dal «ritorno a Hegel» e ai motivi più reazionari del suo pensiero riassunti in quel «neohegelismo»4 da impiegare come baluardo politico-filosofico allo stato «avanzato» della crisi, sociale ed economica, in una Europa segnata dal timore di una rivoluzione interna sull’esempio di quella sovietica - ma anche da una sostanziale debolezza della tradizione filosofica russa, già vent’anni prima riconosciuta da Lenin, secondo cui «Nelle correnti d’avanguardia del pensiero russo non c’è una grande tradizione filosofica come quella che per i francesi è legata agli enciclopedisti del XVIII secolo, per i tedeschi all’epoca della filosofia classica da Kant a Hegel a Feuerbach.»5.
In effetti, la ricezione di Hegel in Russia6, ma soprattutto i criteri di analisi e di approccio alla complessità della dottrina hegeliana, appaiono costantemente il portato di contingenti necessità storiche e politiche. Basti solo pensare alla nota rilettura di Lenin della Scienza della Logica, che avviene proprio in concomitanza con la dissoluzione della Seconda internazionale (1914) e con il proliferare di posizioni revisionistiche nel marxismo russo, finalizzata al recupero della dialettica come analisi del conflitto di classe in una prospettiva di immediata sovversione rivoluzionaria7. Da queste premesse la filosofia in generale avrebbe dovuto assumere, seguendo il predominante impianto leninista, una connotazione di parte, per così determinare una decisa presa di posizione marxista in difesa del materialismo e del carattere attivo della coscienza proletaria, per cui, in quanto strumento politico nella lotta di classe, essa doveva avere il compito di mettere in crisi i rapporti di forza tra le classi per creare le condizioni soggettive e oggettive per la rivoluzione. Ne è derivato pertanto un carattere tipicamente non accademico degli studi, che ha finito per contrassegnare la filosofia russa, e poi sovietica, solo come un momento di radicalità e di estremismo funzionale alla lotta rivoluzionaria.
Da qui una persistente tensione concettuale, duplice e contraddittoria, che si trascinerà inesorabilmente nei confronti di Hegel a opera del mondo russo-sovietico, consistente nel seguire il suo insegnamento, ma evitando di richiamarsi scolasticamente alla sua dottrina. E ciò a partire da Herzen, secondo cui la dialettica hegeliana è «l’algebra della rivoluzione»8, e che in ogni caso bisognava «andare oltre lui, ma non contro di lui»9, passando per Plechanov per il quale quando Hegel si riferisce alla storia di un popolo «ci seduce al punto da farci quasi dimenticare che si tratta di un idealista, pronti a confessare che, veramente Hegel „die Geschichte nimmt, wie sie ist,” (prende la storia per quello che è)»10, per giungere a Lenin che nei suoi Quaderni filosofici, rendendo la dialettica uno strumento di lettura della storia reale in cui il negativo non è semplice pars destruens, bensì progetto operativo rivoluzionario - si spinge fino al punto di affermare che «il materialismo storico» andrebbe considerato «come una delle applicazioni e uno degli sviluppi delle geniali idee-semi, che si trovano in germe in Hegel»11.
Insomma, se per il marxismo sovietico Hegel appare come un grande idealista, come il filosofo per eccellenza della borghesia, un conservatore, colui che garantisce filosoficamente e giuridicamente le classi dominanti, tuttavia nel contempo è anche colui che aiuta a capire la storicità dei processi, ponendo la filosofia, grazie alla dialettica, in concreta relazione alla società vissuta, riconducendo la riflessione storica sul terreno dell’esperienza concreta, stabilendo che la forma non può venire distinta dal contenuto della conoscenza e che i criteri di verità che gli individui utilizzano dipendono dalla realtà storica nella quale sono immersi. Hegel è colui che permette di comprendere che per la dialettica «non esiste una verità astratta, la verità è sempre concreta»12; che tutto si sviluppa e che nel mondo si svolge un processo continuo di trasformazione e di evoluzione, sicché, come scrive Lenin nel saggio dal titolo Friedrich Engels, «Se tutto si sviluppa, se alcune istituzioni esistenti vengono sostituite da altre istituzioni, perché dovrebbero perpetuarsi in eterno l’autocrazia del re prussiano o dello zar russo, l’arricchimento di un’infima minoranza a spese della stragrande maggioranza, il dominio della borghesia sul popolo?». Hegel è sì «un ammiratore dello Stato autocratico prussiano, al servizio del quale egli si trovava in qualità di professore dell’Università di Berlino», ciononostante «la sua dottrina era rivoluzionaria»13.
A questa ambigua predisposizione verso Hegel - che invero proseguirà sino a Stalin in un rapporto sempre più improntato nei suoi confronti a vigile distacco o, quantomeno, a rigorosa riserva - anche Pashukanis e il suo saggio ‘Hegel. Stato e diritto’ non si sottraggono, mostrando di aderire completamente ad un’unica direttrice, quella marx-engelsiana dell’interpretazione leninista di Hegel, e ciò sia quando si tratta in ambito filosofico-teoretico di criticare il carattere idealistico-misticheggiante del suo linguaggio, sia quando in ambito politico-giuridico si assume che la sua Rechtsphilosophie se «da un lato contiene gli inizi della teoria di classe materialistica dello Stato, dall'altra è la fonte di una ideologia reazionaria volta a deificare lo Stato dello sfruttamento di classe»14, sia quando, infine, si tratta di esaltare la dialettica materialistica - da collegare a Hegel dopo averlo depurato del suo substrato reazionario e del suo idealismo, dato che il vero mondo e la verità non si trovano fuori dalle cose di cui facciamo esperienza - come logica e teoria della conoscenza e dell'azione, ma soprattutto come nutrimento continuo della potenza proletaria per la rivoluzione comunista. Ed allora, se questo è lo scenario complessivo rispetto a Hegel, quale interesse può rivestire questo breve saggio scritto dall’intelligenza teorica più raffinata, maturata nella cultura giuridico-politica della Russia sovietica degli anni Venti?
2. Dittatura giuridica, contenimento proletario e nuova razionalità
Va subito pretermesso che a dispetto del titolo assegnato al suo saggio e che pare volersi concentrare solo sulla Rechtsphilosophie, l’obiettivo di Pashukanis sembra muoversi in due direzioni collegate tra loro. Se la filosofia hegeliana può venire utilizzata a opera dell’ideologia borghese per fini di dominio e di controllo sociale, essa resta pur sempre un indispensabile strumento che catturando «il proprio tempo colto in pensieri»15, cioè filtrando nel mondo astratto delle categorie logiche la nuova concretezza dei rapporti sociali, permette di cogliere la struttura oggettiva dello sviluppo della storia, così da individuare, in particolare nel § 185 della Rechtsphilosophie che affronta le contraddizioni interne della società civile, i prodromi della teoria materialista dello Stato, nel quale, seppure i conflitti si ricompongono e ogni elemento costitutivo riesce a trovare la propria adeguata collocazione, si nasconde l’antagonismo che nella società moderna perviene a generare il proletariato, sicché è proprio con Hegel, scrive Pashukanis, che «la teoria di classe dello Stato comincia ad apparire»16.
In una tale ottica, che stringe in un nesso unitario le suddette ambivalenze verso Hegel con la presa d’atto che una filosofia incapace di comprendere la propria storicità non è altro che ideologia, e che la dialettica per definizione mostra il nesso tra politica, intesa come azione pratica, e teoria, emerge così il punctum pruriens del saggio di Pashukanis, il quale si chiede perché mai - in una fase storica cruciale per il capitalismo borghese, in cui cioè perviene a maturazione una crisi che pone nuovi rapporti di forza tra borghesia capitalista e proletariato - si è giunti a una interpretazione fascista di Hegel, racchiusa in quel neohegelismo dietro cui si nasconde solo «il tentativo di uccidere e immobilizzare la sua dottrina filosofica, per esasperare ciò che di essa è debole, ha carattere transitorio, con i suoi schemi astratti, i suoi orpelli scolastici, la sua vaga metafisica, gettando via la dialettica»17. Perché allora questo «ritorno a Hegel», trattato fino a poco tempo prima come «un cane morto»18, e che ora viene utilizzato «per giustificare la politica del saccheggio e della violenza imperialista»?19 A questo livello, proprio il sottofondo teorico derivante in particolare da La Teoria generale del diritto e il marxismo, l’opera principale di Pashukanis pubblicata nel 192420, si rivela preziosissimo nell’analisi delle contraddizioni in atto e delle complessive ragioni che ispirano ‘Hegel. Stato e diritto’, laddove in particolare il giurista sovietico era riuscito brillantemente a mostrare la correlazione esistente fra lo Stato, il moderno diritto formale astratto ed i rapporti sociali capitalistici. Una correlazione destinata a descrivere il dominio diretto del capitale sulla società, in cui è il diritto borghese, elemento strutturale dell’organizzazione capitalistica, a rappresentare la teoria della forma di questo dominio, programmato tuttavia in maniera «falsamente» neutrale per ricoprire tutte quelle fessure di liberazione dallo sfruttamento, lasciate sistematicamente aperte dalla ribellione dei dominati. Pashukanis coglie in particolare che nel capitalismo maturo il diritto compie un eccezionale salto di qualità, non svolgendo più un ruolo semplicemente «ideologico» teso a mistificare lo sfruttamento di classe, ma rendendo quest’ultimo razionalmente concepibile, poiché in esso ontologicamente radicato, elemento strutturale senza il quale tutta la realtà economica e istituzionale della società del capitale, «come risultato ultimo del processo sociale di produzione», non riuscirebbe a darsi.
L’effetto è dunque formidabile, poiché gli stessi rapporti sociali si sono resi indipendenti rispetto ai loro soggetti, quelli reali e in carne e ossa, oramai serenamente espulsi dal mondo reale attraverso la norma giuridica e lo Stato, che vive del diritto ma non è più un diritto, occultando così «l’essenza del potere come violenza di una classe sull’altra»21. Ora, proprio questa necessità della dimensione capitalistico-borghese, inscritta nei rapporti economici, di garantirsi mediante una dittatura giuridica, e che Pashukanis ben individua, consistente cioè nel legare la riflessione non sui fondamenti sociali ed economici, bensì sulle forme più astratte come condizioni funzionali al riconoscimento dell’ordinamento normativo borghese22- raggiunge l’apice in una fase che storicamente è possibile collocare nel periodo che va dagli anni Venti agli anni Trenta del Novecento, e ciò per il rafforzamento di nuove corrispondenze antagonistiche tra le classi, tese per lo più ad accentuare, nel controllo della crisi, la distanza fra capitalisti e proletari. Se nel corso dell’800 la borghesia, per impedire la caduta del saggio del profitto e incentivata da una serie ciclica di crisi economiche, sviluppa su ampio raggio le forze produttive, dall’altra è anche inevitabilmente costretta a dover prendere atto della rilevante crescita del loro carattere collettivo. In altri termini, il capitalismo per funzionare aveva avuto bisogno di riferirsi a milioni di proletari che tuttavia, come indispensabili agenti partecipativi di trasformazione e di sviluppo, cominciano anche a sperimentare le condizioni per una superiore organizzazione, fondata sulla gestione collettiva della produzione sociale e, pertanto, su una transizione che pretende di rompere, di rifiutare ogni forma di partecipazione, poiché mistificatoria23.
A fronte, dunque, di un sociale antagonistico che la classe operaia comincia a imporre su tutti gli aspetti dello sfruttamento, nonché di un capitalismo oramai giunto a occupare tutti gli spazi possibili di espansione - in un mondo entrato nella prima crisi generale per sovrapproduzione assoluta, diviso tra Stati imperialisti, ciascuno in grado di aumentare i propri profitti solo occupando lo spazio di un altro Stato imperialista - la crisi sociale ed economica può trovare una sua risoluzione solo attraverso una complessa ristrutturazione dello Stato capitalistico che, proprio a partire dagli anni Venti del ‘90024, deve riorganizzare la produzione, modificando i propri meccanismi istituzionali per piegarli esclusivamente su di essa, nonché contenere una classe operaia sempre più estesa e politicamente identificata, facendo in modo che gli interessi di questa risultino in sintonia con quelli del capitalismo borghese, e così da massa sfruttata per il solo possesso di una forza lavoro da impiegare e da sfruttare, a carne da macello nelle guerre di rapina capitalistiche.
Si tratta pertanto di plasmare la lotta di classe in un nuovo lubrificante funzionale all’accumulazione capitalistica, la quale non può realizzarsi se non sconvolgendo tutte le condizioni materiali di esistenza dell’intera società, agendo non solo politicamente, con il ricorso al nazi-fascismo, quale nuova forma irrinunciabile di egemonia e di violenza al servizio dell’ordine capitalistico e quale struttura confacente con qualsiasi forma di governo borghese, ma soprattutto intervenendo sulla razionalità25, avanzando in buona sostanza la tesi dell’irrazionalismo per così fondere a proprio vantaggio intere categorie sociali, destinate ad andare incontro a una inevitabile proletarizzazione, ma con l’obiettivo di contrapporle gradualmente al proletariato stesso. Un caratteristico esempio, come ricorda Ernst Bloch in uno scritto del 1935, è quello degli «impiegati», i quali, malgrado il processo di declassamento proletario, continuano a sentirsi parte della classe media borghese, sicché «l’impoverimento dei contadini e del ceto medio urta contro quello del proletariato: il fascismo diventa così necessario per tener giù completamente i proletari e per dividere da essi quelli che proletari sono da poco divenuti»26. Ma sviluppare la razionalità in una direzione esplicitamente reazionaria, significa pure mettere in discussione le stesse leggi oggettive dello sviluppo sociale. La questione rilevante diventa allora quella di sconvolgere la nozione stessa di determinismo sociale che non agisce come un fattore che determina direttamente forme e contenuti, quanto piuttosto come dimostrazione di uno spazio di possibilità di movimento corrispondente soltanto a precisi scopi e interessi di classe. Questo spazio, in altri termini, viene riempito dalla Kultur, ma abilmente evitando di confrontarsi con i nuovi processi reali che investono le forze produttive a loro volta perfettamente plasmate dai rapporti di produzione.
Ciò che, dunque, dev’essere lasciata indenne è la forma del capitale. In effetti, la fase imperialista coincide con una narrazione filosofica in cui a mancare non è l’auspicio che la cultura venga rinnovata, anche in maniera singolarmente profonda (si pensi a Nietzsche in particolare), quanto piuttosto la messa in discussione della inviolabilità della struttura economica del capitalismo. Come sottolinea Lukács, «lo strato sociale che è divenuto depositario della nuova filosofia, conosce sempre meno la struttura economica della società borghese e si rivela anche sempre meno pronta a studiarla come problema filosofico». In questa direzione, il contributo nietzscheano appare oltremodo significativo, dato che se è pur vero che il filosofo di Röcken giungerà a criticare con un certo fervore «i sintomi culturali della divisione capitalista del lavoro», è altrettanto vero che questa sua critica non affronterà mai il problema della «trasformazione dell’organizzazione sociale»27. Ciò a cui si assiste, dunque, è un deliberato abbandono dei grandi problemi sociali ed economici, e questo sulla scorta di una precisa osservanza dei «limiti» imposti dalla dominante borghesia imperialista attraverso la filosofia, la quale, come strumento di comprensione di una data realtà, si limiterà ad adottare le proprie costruzioni ideologicamente adeguate a detti obiettivi. A entrare in crisi è il formalismo della ragione, ovvero quel modello neokantiano, quale utile «espediente» per eludere la realtà sociale, perdurante dalla metà dell’Ottocento sino agli inizi del Novecento, oramai non più attrezzato a fornire categorie adeguate alla piega che si sviluppa tra gli anni Venti e la metà degli anni Trenta del Novecento. Un formalismo il cui sotteso obiettivo, per molti versi funzionale a una certa esuberanza del liberalismo classico, era stato quello di gradualmente dissolvere ogni concezione sintetica della realtà, per cui, rompendo con le grandi narrazioni classiche, imporne una visione contrassegnata dalla più intensa Fragmentarisierung, sostanzialmente egemonizzata dalla rottura del legame uomo-natura, con riflessi eccezionali sul rapporto tra teoria e prassi, non più da intendere come momenti unitari, bensì divisi, destinati a incontrarsi solo sul piano della forma priva di contenuto, e dunque in una prospettiva del tutto unilaterale e arbitraria, laddove invece forma e contenuto vanno intesi in interconnessione organica, in unità dialettica28.
3. Da Kant a Hegel
Ora, tuttavia, questo programma nei termini di separazione tra conoscenza e società (politica, economia, diritto), se appariva idoneo a soddisfare un certo tipo di progetto liberale, non lo è più con riferimento alle esigenze ideologiche della borghesia imperialistica a partire dagli anni Venti29. In questa fase le modificazioni strutturali dell’organizzazione della produzione, legate in particolare all’incremento dei processi di razionalizzazione e di meccanizzazione dell’industria, unitamente a una rivoluzione comunista in movimento, alterano profondamente i precedenti equilibri di potere, oltre che i rapporti e la stessa composizione delle classi. La borghesia, in altri termini, comprende che l’economia non è più liberale, ma è diventata imperialistica, da spiegare non con una semplice trasformazione delle politiche estere dei paesi avanzati, ma perché interviene strutturalmente nella natura dei rapporti di produzione capitalistici.
La ricerca costante dei fondamenti non riesce più a nascondere la reale fenomenologia in cui versa la crisi del capitale nelle sue varie determinazioni, in particolare tra ciò che scatena l’antagonismo capitale/lavoro e, sul piano sociale, il conflitto borghesia/proletariato, per cui sopravvivere alla crisi significa prima di tutto iniziare urgentemente a modificare il proprio statuto «filosofico», vale a dire l’apparato giustificativo delle proprie logiche di comando, il che può darsi solo passando «da Kant a Hegel dopo che il capitalismo è passato dal liberalismo all’imperialismo»30. Come precisa Pashukanis, se anteriormente alla prima guerra mondiale la borghesia aveva avuto in Kant la sua principale guida filosofica, ora invece decide di rivolgersi a Hegel. Kant, «è troppo liberale, predica l’etica universale e l’internazionalismo umano, ma ciò serve solo a seminare illusioni tra i lavoratori. Pertanto, il neokantismo è lasciato ai socialdemocratici che agiscono come l’ala sinistra della borghesia. L’ala destra, invece, rappresentata dai fascisti, preferisce adesso concentrarsi su Hegel, da cui ricava le giustificazioni per il nazionalismo estremo e lo sciovinismo, nonché per una politica imperialista fatta di violenza e di confische»31.
In effetti, se Kant aveva rappresentato il prezioso arsenale ideologico di un capitalismo in embrione, in grado di perfezionare sul piano teoretico il processo di costituzione formalistica del soggetto, cominciato con Descartes e proseguito con Locke e Hume, segnatamente in direzione di un individuo proprietario di sé e del suo lavoro, il quale agisce in forza di regolarità antropologiche comportamentali della natura umana, a sua volta detentore di una perfetta sovranità politica nella società civile liberale, concepibile tuttavia solo estromettendo da essa vaste masse proletarie32, poiché seriamente capaci di porre in crisi la questione del diritto proprietario - è evidente che la filosofia hegeliana non avrebbe mai potuto assecondare le esigenze di una borghesia in ascesa, e ciò perlomeno fino alla metà dell’800. D’altronde, in una fase storica che non ancora si confronta con la drammaticità del conflitto salariale, con la nazionalizzazione imperialistica e razzistica delle masse, con una industrializzazione avanzata tale da radicalizzare la lotta tra borghesia capitalistica e proletariato - la figura di Hegel appariva del tutto inadeguata a fornire a una borghesia in pieno sviluppo, qualsivoglia beneficio funzionale alle proprie aspirazioni di libera iniziativa, e ciò per due ordini di ragioni.
Essa, difatti, recava piuttosto «l'impronta dell'arretratezza delle relazioni economiche e politiche della Germania di quel tempo […] nella sua Rechtsphilosophie - scrive Pashukanis - egli difende la monarchia, il sistema di classe, lo Stato burocratico-poliziesco contro la dottrina del liberalismo, che, a suo avviso, disgrega lo Stato in atomi separati, conducendolo all'impotenza»33. In una Germania «prequarantottesca» ed eccezionalmente disomogenea34, che non aveva conosciuto nessuna rivoluzione borghese, il sistema hegeliano tendeva non solo a giustificare lo Stato assolutista con tutti i suoi apparati di coercizione, come migliore ordinamento possibile per rappresentare il bene e la missione di un popolo, ma anche a considerare l’autonomia individuale, e di conseguenza i diritti soggettivi, come del tutto inscritti nell’ambito della comunità etica, e quindi del diritto oggettivo, derivandone che il diritto non costituisce più una prerogativa dell’individuo in quanto essere naturale - privato, egoista, che mira a certificare il proprio autonomo dominio sulle cose e sui rapporti tra gli uomini35, né tantomeno un’esigenza della ragione - ma piuttosto una realtà effettiva, prodotto di una società.
In questa direzione, l’importanza che Hegel assegna allo Stato nazionale, come ferrea incarnazione della potenza politica e come funzione centralizzata del comando, appare estremamente indicativa di una visione decisamente in contrasto con quella auspicata da una rampante borghesia, desiderosa di esercitare, armoniosamente e senza conflitti, le libertà liberali in un contesto di sovranità individualistica prima della fine del diciannovesimo secolo. Ma la filosofia di Hegel, con la sua propensione dialettica a considerare la realtà in rapporto alla società vissuta, predisposta a concepire l’idea di una soggettività che contiene il significato della storia e la realizza attraverso il movimento rivoluzionario, a fornire gli strumenti per una interpretazione dialettica della lotta di classe, per cui all’interno del sistema capitalistico-borghese è innestato un dispositivo autodistruttivo che ne determina il sovvertimento, non poteva che minacciarne il suo futuro, alimentando nient’altro che un pensiero rivoluzionario destinato inevitabilmente a disintegrare i propri fondamenti, sicché anche in questo caso non vi era nulla per cui riconoscersi in Hegel.
Ora, tuttavia, preso atto che la belle époque liberale, quale versione caricaturale della «pace perpetua» di Kant, si è conclusa, la borghesia si trova costretta a muoversi diversamente, e così abbandonando gli entusiasmi di un avvenire economicamente radioso, racchiuso in una teoria dell’armonia tra produzione e diritto, inizierà a rifugiarsi in modo reazionario nella filosofia, cioè in un pensiero adeguato a reprimere chi intende minare le proprie posizioni, per esprimersi solo in termini morali o di «attività dello spirito». Da Kant a Hegel, dunque, quali preziosi corredi per «salvare il salvabile», e perché la borghesia si accorge che per sopravvivere ha bisogno d’ora in poi solo di soldati, poliziotti, funzionari e magistrati, di soggettività, cioè, ideologicamente asservite e disposte a difenderla36. Se allora la conflittualità prodotta da una classe operaia in espansione può in prospettiva rendere concreto un potere operaio quale evidente negazione del dominio omogeneo e verticistico del capitalismo borghese - ogni sforzo dev’essere teso a impedire che tale processo autoritario e centralistico possa disgregarsi.
A tale scopo occorre dunque intraprendere una gigantesca operazione di controllo della classe operaia, scompaginandone il ruolo e l’unità per mobilitarla irrazionalmente in difesa delle classi dominanti, così cominciando a farle comprendere che lo sfruttamento capitalistico può apparire come ordine naturale proprio attraverso il massimo funzionamento dello Stato, nel cui ambito le forme giuridiche, amministrative e politiche, programmate al rafforzamento dello sviluppo capitalistico, si organizzano solo per l’esercizio dispotico del potere statale ed economico di classe37, laddove l’elemento Nation può presentarsi come momento inseparabile rispetto all’ordine sociale capitalista, con ciò esprimendo il predominio ideologico e culturale del capitale, teso ad amalgamare ogni comunità all'interno di un territorio politico, e pertanto in una comunità nazionale, estromettendo chi, per suolo o per sangue, non ne fa parte.
4. Pashukanis tra Hegel e Neohegelismo
Ecco allora il neohegelismo trionfante promuovere un’immagine di Hegel funzionale a questi obiettivi di ristrutturazione e di scientifica disarticolazione proletaria38, ristabilendo, sotto nuove forme, la natura esclusiva, indiscutibile e separata dello Stato39, ma soprattutto mostrando che la storia non è storia della lotta di classe, di una lotta cioè che contrappone classe a classe, padroni a proletari, bensì storia della lotta delle nazioni, lotta di «spiriti nazionali»; che la dialettica si sviluppa solo nello spirito e che la storia è il prodotto della sua libera creazione; che pertanto, non esistendo leggi oggettive cui fare riferimento, è solo il soggetto che, autodeterminandosi, le impone, agendo così attivamente contro le necessità della storia - e dunque facendo emergere proprio i motivi reazionari della sua filosofia, sicché questo suo ritorno, scrive Pashukanis, va solo ed esclusivamente ascritto alla «paura del proletariato». I nazi-fascisti, prosegue il giurista sovietico, «si stanno ora appropriando di queste posizioni di Hegel, in cui non appare come un grande scienziato, come un filosofo che ha sviluppato ideali borghesi per le conseguenze logiche più audaci, ma come Spieβbürger, un borghesuccio che non riesce a innalzarsi al di sopra del misero livello politico della Germania, non come un apostolo di libertà borghese, bensì come un suddito fedele a sua maestà, il re di Prussia»40. Hegel, dinanzi alle criticità dell’accumulazione e alle deflagrazioni della lotta di classe, fornisce a una borghesia in crisi gli strumenti necessari per dissipare il pericolo comunista, mediante una filosofia dello Stato e della storia capace di esprimere la sua reale vocazione, quella della conquista coloniale, dell’aggressione imperialistica.
E così «i moderni neohegeliani non cercano affatto Hegel per rendere razionale la sua dialettica, ma tentano principalmente di armeggiare con i suoi gusci mistici, attingendo da lui tutto ciò che si avvicina al clericalismo, alla riconciliazione con la realtà»41, conferendo alla sua filosofia, mediante il rifiuto gnoseologico di una ontologia materialistica, l’immagine di «una specie di approdo sereno e rassicurante dinanzi alle contraddizioni di un mondo in dissoluzione e agli orrori della lotta di classe»42. Questo utilizzo di Hegel, per armare le coscienze in una direzione imperialistica e, nel contempo, per disarmare la classe operaia in ascesa - è «necessario alla borghesia per poter ancora credere nella salvezza della cultura borghese e di tutta la sua società, oramai irrimediabilmente diretta verso il collasso»43. Pashukanis avverte chiaramente che la borghesia per conservare il potere, dopo aver compreso la gigantesca contraddizione che la scienza formale dell’età liberale non era stata in grado di risolvere, e cioè quella concernente l’inestricabile rapporto tra razionalità giuridica e irrazionalità dell’accumulazione capitalistica, tra universalità sociale e particolarità - non sarà più assillata dal dilemma di assicurare la sfera privata individuale, quanto piuttosto di legittimare la «forza coercitiva delle prescrizioni giuridiche» statuali, con la conseguenza che la stessa teoria giuridica avrà d’ora in poi il compito di identificarsi con l’ordine sociale instaurato autoritariamente, e questo perché «alla libera concorrenza» cominciano a subentrare «i grandi monopoli capitalistici e la politica dell’imperialismo»44. Lo Stato e il diritto - dopo la Rivoluzione d’Ottobre, attraverso una sapiente miscellanea di teologia hegeliana e revisione clerico-fascista del marxismo - vanno solo rigidamente rimodulati quali centri nevralgici per l'esercizio del potere di classe.
Nel garantire il processo di valorizzazione del capitale e di realizzazione del plusvalore, essi devono costituire il meccanismo fondamentale per concentrare la violenza generalizzata del capitale, ponendosi sia come tramite per la realizzazione di alleanze internazionali tra le classi (nazionali) borghesi, sia come macchina impegnata ad incentivare l'espansionismo del capitale sociale di ogni paese, sia, infine, come lo strumento grazie al quale utilmente dirottare la ribellione proletaria, unendo falsamente nel mito della conservazione sociale proletari e padroni, con i primi che come militari, impegnati nella difesa del sistema e nel sacrificio comune della produzione, con il mistificante ricorso al concetto di liberazione nazionale45, devono adesso contribuire in modo rilevante a realizzare gli obiettivi dei secondi, quelli cioè dell’accumulazione capitalistica. In questi termini, allora, non desta alcuna sorpresa il motivo per cui «i rispettabili neohegeliani, tutti d’accordo nel presentare Hegel come un ultra-reazionario, non siano affatto interessati al reale significato che Hegel assegna alla storia del mondo, perché, diversamente, dovrebbero ammettere che adesso è il proletariato ad essere l’artefice di ciò che in concreto la muove. Si spiega pure perché la scienza borghese cerchi ora di confinare la filosofia hegeliana all’interno di accademie e università: il fine resta quello di far emergere i suoi aspetti più deboli e reazionari, per così renderla alla portata esclusiva di preti protestanti e di farneticanti nazionalisti, e tutto ciò solo per mettere Hegel al servizio del fascismo internazionale»46.
L’operazione ideologica che il capitalismo borghese vuole intraprendere, nella valutazione di Pashukanis, si fa evidente nella misura in cui la fascistizzazione di Hegel - «il più grande irrazionalista che la storia della filosofia conosca [egli] è irrazionalista perché fa valere l’irrazionale nel pensiero, perché rende irrazionale il pensiero stesso»47 - si dirige verso il fallimento della ragione, mantenendola solo come una predisposizione soggettiva nei confronti della realtà, con la conseguenza che la ragione in definitiva non esiste e la realtà è solo quella irrazionale. L’evoluzione verso questo quadro ha un preciso obiettivo, quello cioè di comprimere ogni margine di libertà, nel senso di sostituire alla circolazione reale dell’idea, i compartimenti stagni delle corporazioni, della burocrazia e della polizia48, con il risultato di concepire una universalità che, tuttavia, non promana mai dalle reali e particolari condizioni di classe, ma che invece viene imposta idealisticamente, dall’alto, costruendo così abilmente due mondi separati: da una parte la ragione, incapace di comprendere ciò che è sociale e conforme alle dinamiche del suo sviluppo, dall’altra che esiste solo una realtà superiore alla quale può accedere l’intuizione, quest’ultima in grado di imprigionare la filosofia nella gabbia della logica formale idonea a sterilizzare la contraddizione delle sue potenzialità creative e distruttive, con l’effetto di riconsegnare solo una pseudo-dialettica, intesa come «un accomodamento tra fatti antitetici»49, di certo molto distante da quella di Hegel.
In questa prospettiva, dunque, il programma neohegelista, nel cancellare ogni differenza tra sistemi filosofici diversi e in opposizione50, non può che stabilizzarsi sul duplice rifiuto del materialismo e della dialettica. E difatti, sbarazzarsi del materialismo significa non solo rigettare le interpretazioni di tipo strutturale, sottomettendole ad altri elementi ritenuti imprescindibili, quali quelli di tipo etnico, nazionale e spirituale, ma significa anche porre la questione economica come momento di insostenibile crisi da subordinare immediatamente al politico, il cui perfezionamento esige tuttavia un potere a conduzione elitaria, ideologicamente suffragata da improponibili rilievi circa una asserita disuguaglianza naturale tale da comportare il ripristino di modelli gerarchici, il cui obiettivo resta solo quello di aggrapparsi «a forme del domani per mantenere in vita quelle di ieri»51. Quanto al rifiuto della dialettica, appare ugualmente chiaro che se il reale non è più razionale; se il sistema dei concetti non è più la struttura teorica della storia, né tantomeno lo sviluppo estrinseco di questo sistema; se la ragione umana non mira più a rispecchiare la razionalità dell'universo reale, di cui essa stessa è il risultato, né a progredire dialetticamente all'interno di tale razionalità oggettiva, se in definitiva la dialettica non è altro che «l’irrazionalismo stesso reso metodo, reso razionale, perché il pensiero dialettico è un pensiero razionale-irrazionale»52 - si comprende che il fine ultimo è solo quello di generare un relativismo che tende a fare eterno il proprio limite, di perpetuare cioè nella stagnazione le immagini dialettiche del movimento e della contraddizione, del plurale e del molteplice, immobilizzando il progresso storico, rendendo così la conoscenza di fatto impossibile poiché misticamente sganciata da qualsivoglia rapporto storico-sociale, ovvero stabilendo che l’unica conoscenza possibile è quella a priori, cioè una conoscenza dell’oggetto senza l’oggetto, e purtuttavia ponendosi proprio in modo funzionale alle esigenze del capitalismo, il quale, per definizione irrazionale e contraddittorio poiché senza limite, senza controllo e senza ordine, può così nuovamente riprodurre se stesso.
Ma Hegel non è affatto tutto questo! Se l’obiettivo del neohegelismo è quello di rendere razionale la frantumazione della storicità materiale delle contraddizioni, annullando ogni relazione con la dinamica storica e sociale in cui gli individui sono immersi e da cui sono inesorabilmente condizionati, laddove invece «la dialettica di Hegel è pertanto la generalizzazione della storia del pensiero [poiché] nella logica la storia del pensiero deve in complesso coincidere con le leggi del pensiero»53 - non può che emergere la sua reale vocazione volta a determinare la dispersione di ogni connessione dell’insieme storico-sociale concreto a vantaggio solo di un dover essere astrattamente filosofico, nonché di un altrettanto astratta e insignificante «appropriazione» (della realtà) che, in quanto «frutto della pura riflessione», come ricorda Marx, «non si appropria di nulla»54.
5. Hegel nell’interpretazione marxista-leninista.
Se tale è lo sfondo su cui va proiettato e letto il rapporto tra Hegel e il neohegelismo, che vede quest’ultimo soggettivizzare la storia, dissolvendo un problema dialettico reale in un soggettivismo irrazionalistico, finendo così per cancellare la realtà oggettiva e la ragione da tutti i campi dell’attività sociale dell’uomo - Pashukanis non può che tracciare un sostanziale accostamento del filosofo di Stoccarda al marxismo-leninismo, dal momento che «la fiducia di Hegel nelle forze illimitate della coscienza degli uomini, si combina proprio con un severo e coraggioso riconoscimento della realtà oggettiva. Questa conclusione si avvicina al materialismo, includendo la logica di un approccio concreto nei confronti del mondo reale, consistente in una partecipazione attiva al processo storico»55. Ciò che li accomuna è che il rapporto tra teoria e prassi (cioè la Storia) va concepito in unità dialettica, per cui nessun limite, in quanto storicamente determinato, può ritenersi eterno.
Pashukanis, prima di richiamare l’indispensabile filtro marx-engelsiano-leninista, mette in gioco Hegel stabilendo che la sua filosofia tende a porsi come il contenuto sostanziale di un’epoca, una formazione intellettuale nella sua reale essenza, sicché «per comprendere il significato e il grado di influenza della filosofia hegeliana […] occorre rivolgersi […] al movimento stesso della storia del mondo (Weltgeschichte), che, nei termini idealistici di Hegel, comprende ‘la Realtà spirituale nella propria totale estensione interiore ed esteriore’ [Die geistige Wirklichkeit in ihrem ganzen Umfange von Innerlichkeit und Äußerlichkeit]»56. E difatti, nella storia del mondo, vale a dire in quel «dispiegarsi dello spirito nel tempo, nello stesso modo in cui l’idea si dispiega come natura nello spazio.»57, questo movimento non è dato dallo spirito ma dalla materia reale, dalla concreta corporeità di uomini che vivono in società storicamente determinate da rapporti di produzione e di classe, per cui se a Hegel si deve la nozione di totalità storica concreta, cioè la coincidenza del carattere razionale di questa totalità con quello della totalità umana, intesa come sviluppo razionalmente comprensibile, alla cui base vi è una Vernunft in der Geschichte, o piuttosto, una Verwirklichung (dello spirito) nella storia58, una storia cioè che, nascendo dalla dialettica delle cose e degli eventi, altro non è che il dispiegarsi di questa stessa Ragione - è invece all’elaborazione marxista-leninista che si deve come questa verità, ancora astratta, diventi concreta, consistente nell’appropriazione delle categorie umane nella struttura economico-sociale del nostro tempo.
È nel movimento della storia e della società che la coscienza teorica deve catturare il proprio contenuto e viceversa, conseguendone che teoria e prassi vanno sempre assieme. Porsi dialetticamente davanti alla storia, afferrare la logica intrinseca di determinati processi storici, riappropriarsi del proprio contenuto storico, cogliendo la razionalità che ciascun individuo sviluppa senza rendersene conto con la propria prassi, riuscire a comprendere le ragioni che producono specifiche contraddizioni nell’evoluzione del capitalismo-borghese - significa prendere atto che tra soggetto e oggetto non ci sono barriere, perché la realtà (sociale, economica e politica) è sempre se stessa, e nella sua concretezza materiale non rimanda mai ad altro fuori di essa, costituendo il prodotto del corso degli eventi e delle sue dinamiche storico-sociali. Da ciò non può che derivarne come l’azione rivoluzionaria, soltanto in forza di tale assetto concettuale è capace di assumere la comparsa della totalità umana, ma solo se in sintonia e in aderenza con la propria struttura. Ecco perché «cancellare l'essenza rivoluzionaria della dialettica come giustificazione per la passività, come mezzo per placare le contraddizioni della vita», non permettere «‘di comprendere il marxismo in modo dialettico, cioè come una scienza impegnata ad analizzare le reali contraddizioni della vita’»59, pretendere quindi l’ingenuità e la purezza della fondazione filosofica, significa solo impedire la trasformazione marxista della dialettica hegeliana. Ma nel laboratorio hegeliano, che in particolare Lenin sottopone ad un minuzioso esame nei suoi Quaderni filosofici, vi è tutto tranne che «una mera contemplazione passiva»60.
Quando Hegel, osserva Pashukanis citando un passo della Scienza della Logica, afferma che «nell’idea teoretica, il concetto soggettivo sta, come l’universale, come l’in sé e per sé privo di determinazione, di contro al mondo oggettivo, da cui prende il contenuto determinato e il riempimento [mentre] nell’idea pratica invece sta come reale di contro al reale [sicché] la certezza di se stesso, che il soggetto ha nel suo esser determinato in sé e per sé, è una certezza della realtà sua e dell’irrealtà del mondo»61 - è al congiungimento produttivo e attivo di soggetto e oggetto che fa riferimento, facendo scoprire la specificità materiale della dialettica come processo conoscitivo che nell’idea pratica rovescia il rapporto, non limitandosi più ad accogliere passivamente il dato esterno, ma divenendo esso stesso fonte della propria oggettività. Questa oggettività, che permette di superare il presupposto dell’estraneità del mondo rispetto al soggetto, un mondo che non è più una immagine alla quale applicare soggettivamente una propria visione unilaterale e arbitraria, bensì una complessità a cui si perviene attraverso tutti i processi connettivi e di mediazione che lo compongono, perché per afferrare il reale occorre riuscire a individuarne i legami e le interconnessioni in tutte le sue sfaccettature - trova nella lettura leninista di Hegel, prosegue Pashukanis, la sua massima espressione, poiché è nella prassi, quale motore e verifica della dialettica, che può rinvenirsi la relazione indissolubile tra attività costitutiva del soggetto e mondo reale.
Come scrive Lenin, «la conoscenza teorica deve dare l’oggetto nella sua necessità, nelle sue relazioni onnilaterali, nel suo contraddittorio movimento an und für sich. Ma il concetto umano afferra, coglie, fa propria definitivamente questa verità oggettiva della conoscenza solo quando diventi «essere per sé» nel senso della prassi. Cioè la prassi dell’uomo e dell’umanità è il mezzo di controllo, il criterio dell’oggettività della conoscenza»62. Nel quadro costituito dalla dialettica, emerge allora la predisposizione del soggetto proletario che, all’interno di un definito assetto di comando e di produzione, inizia a formarsi, a rapportarsi, a trasformarsi, con ciò sovvertendo l’assetto di riferimento. Svilupparsi all’interno di tale processo, significa instaurare il tema urgente della lotta di classe quale propulsore del cambiamento e della necessità dell’organizzazione rivoluzionaria. Se dunque il criterio della pratica nella teoria della conoscenza va direttamente collegato a Hegel, e se, soprattutto, la dialettica, nella interpretazione marxista-leninista, non è più circolare, non tende cioè più a raggiungere il suo termine in quella stessa realtà da cui è partito, ma possiede una continuità insistentemente connotata di momenti specificati dalla prassi, quale prassi proletaria e rivoluzionaria, in cui organizzazione e progetto comunista non possono più essere declinati - appare altrettanto chiaro perché adesso si preferisca «fare il salto nel regno del soggettivismo, nel regno della pura volontà e dell'attualismo [i social-fascisti] fingono adesso di respingere la metafisica hegeliana dello spirito del mondo e del suo sviluppo assoluto, ma solo per opporsi alla rivoluzione proletaria»63.
Dietro questa astratta sintesi di relativismo soggettivistico e di dogmatismo oggettivistico, dietro questo «miscuglio di idealismo soggettivo di Fichte e di elementi della filosofia hegeliana»64, c’è solo la mistificazione tout court dell’identità di forze produttive e di rapporti di produzione, con la reiterazione senza tregua del miraggio borghese dell’unità della produzione capitalistica che con straordinaria disinvoltura giunge a mescolare una propria idea di etica, assertivamente universalistica, con la conservazione del plusvalore, della miseria, dello sfruttamento e del profitto in nome del mercato capitalistico. L’originaria distinzione della società borghese dallo Stato diviene allora una semplice impostura della teoria e della quale ora risolutamente ci si libera, raggiunta la maturità del dominio di classe: d’ora in poi è lo Stato del capitale con i suoi modelli di esistenza e di cultura a generare la società civile, oramai ineluttabilmente catapultata, tra conflitti e lacerazioni sociali, nelle congiunture della (ir)razionalità economica e delle metamorfosi del mercato. Il raccordo del diritto privato e della forma assoluta del diritto pubblico, vale a dire la fondazione giuridica della dittatura del capitale, viene così modellata su una lettura della Rechtsphilosophie idonea a ricomporre nella totalità dello sfruttamento l’illusione della libertà individuale, e a collegare la valorizzazione capitalistica alla efficienza e alla validità del sistema e quest’ultima alla stabilità del regime65.
Hegel, in questi termini, serve a riconoscere che la dimensione particolare (proletaria), nella propria rivendicazione sociale ed economica suscettibile di capacità egemonica e, quindi, di urgente rilancio rivoluzionario sulla scorta dell’esempio sovietico, va solo violentemente incanalata all’interno delle coordinate generali dello Stato e del diritto, la cui funzione è quella di impedire che le forme nascenti di sovversione, che sistematicamente tendono a costituirsi dentro i rapporti sociali capitalistici, possano assumere la forma matura del soggetto rivoluzionario. Dal suo interno processo di produzione e riproduzione sociale, il capitale non può dunque che estrapolare il proprio contrario, cioè quella massa sfruttata perché in possesso di forza lavoro da mantenere in vita solo per venire nuovamente sfruttata o da mandare in guerra per proteggere la classe dominante o ancora per coadiuvare quest’ultima nella conquista di nuovi mercati66, aprendo così ad una storia di permanente antagonismo tra chi comanda e chi obbedisce, in cui è lo Stato del capitale, con le sue astratte fattispecie normative, a costituire il rimedio ad una società che resta insanabilmente imperfetta, poiché basata sulla differenza di classi. Un rimedio che non si fa carico di considerare che all’inizio di ogni Stato ci sono solo individui reali quali essenze sociali, e che soltanto materialisticamente e dialetticamente è possibile concepire la transizione dalla particolarità degli scopi individuali all’universalità sociale come un capovolgimento qualitativo che si attua nella produzione basata non sulla divisione del lavoro, bensì sulla dipendenza reciproca degli individui che producono e consumano insieme, in una immensa cooperazione produttiva, liberi dallo squallore del comando.
6. Conclusioni
Se lo schema politico propugnato da Hegel nella sua Rechtsphilosophie si presta a essere anche reazionario per lo straordinario potere conferito allo Stato moderno in forza della denuncia delle contraddizioni di classe presenti nella società capitalistica, le quali possono venire recuperate solo mediante il loro riassorbimento nel paradigma delle istituzioni politiche e giuridiche capitalistiche, talvolta in modo più o meno autoritario, talaltra in senso più o meno riformistico - esso, sottolinea Pashukanis, continua in ogni caso a rappresentare un «grande tentativo di ricercare modelli comuni nel processo storico e, ancor di più, di applicare pienamente il concetto di sviluppo»67, teso alla costruzione delle forme di movimento nelle quali la realtà sviluppa la figura concreta del momento storico in un incessante processo di trasformazione e di verifica dialettica, con ciò implicando il rigetto di qualsivoglia orientamento astratto che pretenda di definire idealisticamente un modello di società.
La superiorità accordata alla concezione hegeliana va ricercata nella sua capacità di pensare il riferimento dialettico dei singoli rispetto a una società determinata storicamente dai rapporti di produzione e di classe, ed è questo aspetto della filosofia di Hegel, rielaborato dal marxismo rivoluzionario, che ha permesso di «creare una vera scienza della società»68, insegnando a criticare chi pretende di separare razionalità e storia, ma soprattutto a respingere le istituzioni della repressione di classe che dominano l’esistenza degli sfruttati ovvero ad appropriarsene per riorganizzarle dal basso, quali esiti di processi storici, sicché essere fuori di essi, fuori da ogni storia, significa essere privi di realtà e alle dipendenze di qualsivoglia immediatezza e irrazionalità. Da Hegel il marxismo-leninismo ricava che la dialettica, accogliendo il negativo, l’opposto, la contraddizione, il conflitto, è incompatibile con il pensiero dogmatico che invece per definizione non riconosce «l’altro da sé», e che la condizione e il condizionato costituiscono un unico principio di intellegibilità, per cui la conoscenza della contraddittorietà del processo produttivo di un dato sistema economico e della direzione del suo dinamismo, cioè della realtà sociale, economica e politica esistente in concreto, è la piattaforma programmatica fondamentale perché possa darsi e concepirsi la rivoluzione proletaria.
‘Hegel. Stato e diritto’ di Pashukanis costituisce di certo una piccola goccia nella lezione generale del marxismo rivoluzionario, che invita non solo ad assumere una precisa posizione in una società fondata sulla lotta di classe, ma anche a considerare che il comando capitalistico, quando si sente minacciato, si difende ricorrendo a ogni accorgimento, sapendo che tutto deve in ogni caso svolgersi all’interno dell’organizzazione del capitale che non è altro che organizzazione della società, sicché il suo sistema ideologico, filosofico e burocratico-giudiziario rappresenta solo la condizione essenziale della dialettica dello sviluppo capitalistico-borghese, la quale si dispiega prepotentemente tra imposizione al lavoro e riproduzione sociale del rapporto di sfruttamento. Ma a suo modo questo saggio esorta anche a non dimenticare mai che se si perde di vista l’indicazione che il marxismo ha ricevuto da Hegel, e cioè che ogni processo conoscitivo non è mai riducibile a una mera produzione di un isolato soggetto-coscienza, ma è solo conseguenza del suo dinamismo logico come prassi collettiva, in cui ogni elemento è dialetticamente collegato all’altro in perfetta aderenza con la realtà materiale - si finisce inesorabilmente per smarrire ogni capacità di critica dell’esistente fuori di sé.
D’altronde, un soggetto abilmente costruito come pura formalità, dotato di «onnipotenza astratta e di concreta impotenza», per dirla con Lukács, che non è sostanza, ma illusoria certezza di sé, divenuto pura funzione nella produzione, e quindi nello sfruttamento, come può criticare il capitalismo? Come può rendersi conto di venire ogni volta scaraventato tra squallida miseria, violenza disciplinare adeguata a reprimere la propria insubordinazione e ipocrisia della democrazia capitalistica che spudoratamente mette assieme disuguaglianza e dichiarazione formale dei diritti eguali? A questo soggetto e a molto altro ancora - come emerge da questo breve ma preziosissimo saggio di Pashukanis - dovrebbero servire Hegel e il materialismo dialettico.
Comments
Salvato questo lavoro per quando tutto questo sarà finito, come dicono i russi, "в запасах", nelle scorte. E me lo tengo lì, di scorta stavolta anche nel senso solo italico della parola, ovvero che mi scorta, mi sta vicino e, alla bisogna, consulterò leggendolo, studiandolo e, probabilmente come faccio in quei casi, masticandolo e digerendolo alla grande!
Come "sputnik", direbbero i russi, equivalente dell'anglofono "companion".
Grazie ancora!
un abbraccio
Paolo