Dazi e Iran? Il debito USA fa politica estera (per la gioia dei mercati)
di Fabio Vighi
Nel film Finché c’è guerra c’è speranza (1974) Alberto Sordi interpreta Pietro Chiocca, imprenditore corrotto che vende armi a dittatori africani per garantire alla sua famiglia un tenore di vita lussuoso. Tutto sembra cambiare quando un giornalista del Corriere della Sera lo diffama pubblicamente come “mercante di morte”. A quel punto, davanti allo sdegno (ipocrita) dei familiari (la moglie Silvia, i tre figli Ricky, Giada e Giovannone, la suocera e lo zio), Chiocca si dice disposto, se lo vorranno, a tornare al suo vecchio e onesto lavoro di commerciante di pompe idrauliche; e chiede loro di comunicargli la decisione presa dopo un’ora di riposo. Ma la moglie manda la domestica a svegliarlo con un quarto d’ora d’anticipo, e lui capisce che per la famiglia, evidentemente più affezionata al lusso che alla morale, lo scandalo non è più un problema. Nella scena finale, Chiocca sale su un aereo per andare a piazzare un’altra commessa d’armi.
Dopo 50 anni quel film è ancora molto attuale. La sola differenza è che oggi le guerre, siano epidemiologiche (Covid), commerciali (dazi), o militari (Ucraina, Gaza, Siria, Iran), vengono innescate, a ritmi sempre più serrati, al fine di sostenere quella montagna di debito su cui l’occidente a traino USA ha costruito la propria illusione di benessere (che è lusso reale solo per lo 0.1%). Basti osservare la reazione dell’obbligazionario statunitense all’intervento militare ordinato da Trump contro l’Iran lo scorso fine settimana: con la riapertura di Wall Street (perché gli shock vengono sempre scatenati “a bocce ferme”) il rendimento del Treasury decennale, termometro della febbre di sistema, è crollato di 10 punti base nel giro di 5 ore. Tradotto: flusso d’investimenti verso il “porto sicuro” dei buoni del tesoro statunitensi; risparmio di miliardi di dollari in spese per gli interessi sul debito sovrano USA; conseguente sensibile rialzo a Wall Street (Dow, S&P 500 e Nasdaq).
Allora conviene davvero mettersi in testa che, esattamente come per la famiglia di Pietro Chiocca, il mercato ama le guerre (incluse le “pandemie”).
E le ama ormai di un amore tanto feroce quanto disperato, perché solo una striscia continua di shock geopolitici, o di altra natura, consente di piazzare nuova carta da debito a chi – Stati Uniti in primis – di quella carta vive. Così come il discorso di Joe Biden dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 aveva spedito il rendimento del decennale ben sotto la soglia del 5% cui era arrivato, ora Trump, intervenendo direttamente in Iran a fianco di Israele, prova a convincere il mondo che conviene ancora fidarsi della potenza di fuoco USA, ovvero dei suoi titoli di debito. Bombe in Medio Oriente, dunque, a garanzia del collaterale utilizzato per le puntate al casinò – e un eventuale ritorno dell’Isis cadrebbe in questo senso a fagiolo. Perché più il sistema va in rovina, più necessita di esplosioni che coprano il rumore del proprio tracollo. E il Presidente USA di turno non è che un imbonitore che per vendere debito (oltre alle armi) scatena nuovi teatri di guerra per poi ergersi a loro guardiano, dettando regole, tregue, mediazioni, ed eventuali escalations.
Lo stesso discorso vale per la bislacca guerra dei dazi, il cui fine non è affatto – come ormai si sarà compreso – tornare a riempire fantomatiche fabbriche per rifar grande l’America. Lo scopo sembra essere proprio l’opposto del rilancio del manufatturiero. Il rallentamento economico già in corso negli Stati Uniti non è un doloroso effetto collaterale dei dazi, ma l’obiettivo strategico cui contribuiscono. Esattamente come “il sostegno a Israele” nella rinnovata e sempre più patetica, oltre che criminale, campagna contro “l’asse del Male”, anche l’aggressivo neo-mercantilismo di Trump va interpretato in funzione della tossicodipendenza da credito di cui soffre il sistema “made in USA”.
Nel primo trimestre del 2025, il PIL statunitense si è ridotto dello 0,3% su base annua, al netto di una crescita del 2,4% nel trimestre precedente. A questo punto una recessione conclamata, magari condizionata dal tira e molla sui dazi o dall’aumento del prezzo del petrolio, non servirebbe solo a giustificare un’inflazione che di fatto non è mai scesa (se misurata rispetto a salari e risparmi), ma soprattutto fornirebbe alla Federal Reserve il pretesto ideale per comprimere i tassi di interesse (il costo del denaro), che a loro volta abbasserebbero ulteriormente i rendimenti del debito sovrano. Perché, ripetiamolo, la priorità assoluta è rifinanziare la bellezza di circa 9 trilioni (9.000 miliardi) di dollari di debito in scadenza entro la fine del 2025. E si noti che oltre a questo tsunami obbligazionario senza precedenti, il Congressional Budget Office prevede un deficit federale di 1.9 trilioni per l’anno fiscale 2025, portando il fabbisogno totale di emissioni di debito a oltre 10 trilioni (10.000 miliardi) di dollari. Se non fosse che il biglietto verde è ancora valuta di riserva globale, e che del debito USA sono piene le pance di mezzo mondo (banche, istituti finanziari, stati sovrani, fondi pensione, privati cittadini), qualcuno avrebbe già chiesto a Zio Sam di portare i libri in tribunale.
Allo stato attuale, è imperativo, per chi muove il burattino Trump, far scendere il rendimento del decennale (Treasury a 10 anni) ben al di sotto del 4%, esercitando al contempo pressione sul trentennale, recentemente balzato oltre il 5%. Gli interessi su questa enorme massa di pagherò devono scendere whatever it takes, poiché definiscono l’intero contesto finanziario e quindi l’intera costellazione del capitalismo occidentale – e oltre. Per avere un’idea di quanto sia disperata la situazione è istruttivo guardare al Giappone, il maggior creditore degli Stati Uniti con 1.300 miliardi di dollari di debito americano in detenzione. Shigeru Ishiba, primo ministro giapponese, ha recentemente lanciato l’allarme, definendo il suo paese – che ha un rapporto debito/PIL di circa il 250% (il più alto al mondo), e un’economia ormai in piena stagflazione – ‘peggiore della Grecia’ in quanto a situazione fiscale. Questo a conferma del fatto che oggi il capitalismo (se ancora così lo vogliamo chiamare) si è ormai impiccato al cappio della propria insolvenza: un’insostenibile sovraesposizione debitoria che è sintomo di impotenza cronica rispetto alla capacità di creare valore economico per la riproduzione delle società.
Il rendimento del colossale debito statunitense ha acquisito oggi uno status ontologico. È l’epicentro della realtà, il fondamento delle leggi oggettive di sistema, la madre di tutti i traumi geopolitici. In altre parole, è il cuore pulsante di quel domino finanziario che ha preso in gestione l’intera economia, e tutto ciò che le gira attorno (tutto, appunto). I rendimenti aumentano quando le obbligazioni vengono svendute, o quando le aste del Tesoro falliscono perché nessuno vuole comprare i Treasuries – il che si traduce in un sanguinoso aumento dei costi di prestito. Se dunque volete sapere dove oggi si scrive la storia, lasciate perdere i telegiornali e tenete d’occhio il decennale USA. Basta quello: un rapido aumento dei rendimenti significa contrazione del credito, a cui fa regolarmente seguito uno shock globale a regia statunitense (ovviamente suffragato dai cagnolini da salotto europei).
Nel frattempo, la Federal Reserve continua ad acquistare Treasuries invenduti. Ma la Fed ha bisogno di “buone ragioni” per intervenire apertamente nell’obbligazionario, perché se l’intervento rimanesse ingiustificato si tradurrebbe in ammissione di colpa, e dunque nella totale perdita di fiducia rispetto a un modello economico che per sopravvivere alla propria insolvenza non può far altro che combattere il proprio indebitamento facendo altro debito. Per questo lo spettro di una recessione venduta come sacrificio a breve termine, magari unita a un crollo finanziario innescato da un agnello sacrificale stile Lehman Brothers, potrebbe, di qui a poco, rappresentare l’unica perversa via d’uscita (momentanea e assolutamente inutile, sia chiaro) rispetto all’attuale onere debitorio, e a un deficit che Trump sta espandendo a dispetto della retorica. Se né dazi né Iran fossero sufficienti a sopprimere i rendimenti, allora davvero conviene mettersi l’elmetto e prepararsi a ben altre “emergenze globali”.
L’unico punto su cui Trump è coerente è che vuole abbassare i tassi. Dopo il declassamento del rating creditizio degli Stati Uniti da parte di Moody’s (16 maggio 2025), la maggior parte dei media di regime si è unita al Presidente nel chiedere la stessa politica. Quindi, se da un lato i dazi possono causare inflazione nel breve termine (inflazione che verrà mascherata dalla solita contabilità creativa), dall’altro una contrazione economica sostenuta costringerebbe la Fed a tagliare i tassi per “stimolare”, ponendo fine, tra le altre cose, alla noiosissima pantomima tra Trump e Powell. Dopo tutto, questo è il manuale del capitalismo di bolla degli ultimi anni, a partire dalla farsa Covid vincolata a programmi pandemici e bazooka monetari. Il sistema-zombie si trascina innanzi grazie a un flusso di emergenze manipolate che sostengono il credito finanziario e deprimono ulteriormente lavoratori e intere società.
Il lancio del Quantitative Easing nel 2008 (acquisto su larga scala di titoli di debito e altri asset da parte della Fed) ha inaugurato un’era di distorsioni monetarie talmente acute da tradursi, ora, nella crisi finale della moneta fiat intesa come riserva di valore. Al fine di monetizzare i disavanzi e ripianare i debiti, le banche centrali forniscono quantità sempre crescenti di contante elettronico creato con il mouse del computer. In attesa di futuri sviluppi, un “QE sottobanco” è già operativo da tempo: il criceto corre e la ruota gira. Ma il debito non può essere sterilizzato all’infinito senza generare contraddizioni tanto violente quanto insanabili – contraddizioni che accompagnano l’era del capitalismo post-produttivo verso un’oscura deriva.
Vale la pena evidenziare una questione correlata. Il casinò finanziario ipertrofico – in cui il denaro soffre di sindrome autistica e parla ormai solo con sé stesso, senza cioè passare attraverso il lavoro produttivo di merci – può mantenersi tale solo attraverso la demolizione controllata di ciò che resta dell’economia reale. Il paradosso dei paradossi è che, per sopravvivere, il sistema si auto-cannibalizza. La domanda reale dev’essere costantemente monitorata, contenuta e quando serve compressa, perché consentire anche a una parte dell’oceano di credito iniettato nella sfera finanziaria di scendere a valle significa dover “gestire” imponenti fiammate inflattive. È questo l’impasse cui è giunto il “più razionale” sistema economico che ci sia dato immaginare. Che piaccia o meno, il mondo in cui viviamo è ostaggio di azioni, derivati, e cartolarizzazioni sempre più pirotecniche, a loro volta dipendenti da emissioni di credito a basso costo. E a Donald Trump, o a chi ne fa le veci, è consentito fare politica solo nella misura in cui continua a favorire gli interessi del mondo di sopra.
Tutto questo conferma che siamo già entrati in un’epoca post-produttiva governata da “capitali senza capitalismo”. Un’epoca in cui il passato non ha alcun futuro: impossibile ricreare le condizioni di produttività di massa del dopoguerra. Varcato il Rubicone della terza e poi quarta rivoluzione industriale (la microelettronica negli anni Settanta e ora l’intelligenza artificiale), ogni nostalgica tensione a ritroso diventa materia per romanzi rosa. Piuttosto, proprio la formidabile pulsione capitalistica ci ha condotto a un collasso da overdose di credito che socialmente, politicamente, e culturalmente non può che essere violento e caotico. Alla sopraggiunta improduttività dei capitali non può che corrispondere la produzione di nuove strategie di controllo sociale.
Nell’enorme schema Ponzi in cui la finanza è da tempo degenerata, il credito si origina dal nulla economico piuttosto che dal gettito fiscale e dalla reale produzione di valore. La verità di fondo è che, con l’inesorabile aumento di debito, deficit, e de-dollarizzazione, il QE (o come diavolo lo vorranno chiamare) rimane l’unico folle sostegno di sistema. Solo spese fiscali da capogiro, innescate da emergenze globali, possono salvare i mercati. E quando anche questi espedienti falliranno, la conseguente distruzione delle valute fiat legittimerà visioni distopiche che persino il più noto lupus in fabula, il Fondo Monetario Internazionale, ha recentemente cominciato a sdoganare. Per il momento, tutto gira ancora attorno alla medesima giostra: con le buone o le cattive, il mercato dei Treasury deve continuare a essere percepito come il rifugio più sicuro.
Uno dei sintomi più morbosi della nostra epoca è l’ostinato attaccamento allo stato liberaldemocratico, mai come oggi moralmente degenere e politicamente nullo. Le divisioni tra tecnocrati e populisti, liberali e conservatori, o globalisti e nazionalisti vengono inscenate per impedirci di guardare dietro le quinte. In termini sistemici, non c’è alcuna differenza tra chi occupa il potere democratico, perché entrambe le parti lavorano per prolungare l’aspettativa di vita di un modo di produzione già fatalmente moribondo. Il vuoto intellettuale e ideologico, l’ignoranza culturale, la totale mancanza di coraggio e immaginazione dei nostri rappresentanti politici vengono ormai dissimulate solo da un flaccido narcisismo, che li trasforma in celebrità-feticcio agli occhi delle masse, riconciliandole così con la loro rovina.
Il potenziale emancipatorio della politica istituzionale si è esaurito da tempo, essendo scomparso con il potenziale produttivo del capitale stesso. Rimane il teatrino politico come gestione cleptocratica della crisi. Come nel caso di Trump, l’iperattivismo politico nasconde la sopraggiunta impotenza storica della macchina capitalista. La riproduzione sociale oggi non si basa più sulla mercificazione del lavoro di massa, che un tempo conferiva alla politica un ruolo almeno parzialmente credibile quale mediatrice del conflitto tra capitale e lavoro salariato. Per quanto la fatica umana venga sfruttata a ritmi sempre più vertiginosi, le società capitalistiche e i loro funerei funzionari sono asserviti ai dettami dispotici di un modello finanziario ormai palesemente manipolato. L’unica buona novella è che la fase in cui siamo entrati, a prescindere da quanto sarà lunga e distruttiva, non può che segnare la fine della forma di vita prostituita al capitale che storicamente ci definisce.
E tutto questo a chi giova? Nemmeno al popolo statunitense.
L'economia è politica, non una legge di natura, e ci sono così pochi problemi che l'uomo arancione non sa nemmeno più cosa sta facendo, ignorante e sovradeterminato da una logica che gli sfugge, attaccando toppe su una camera d'aria che perde dappertutto.
Ci sono così pochi problemi che per mantenere questo imbroglio si fanno guerre perpetue.
Un sistema senile marcio fino all'osso, che diffonde la sua logica di morte.