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Le radici oscure dell’Occidente

di Alessandro Visalli

repubbliche marinare e schiavitù.jpg“La prima [ragione della giustezza di questa guerra e conquista] è questa: essendo gli uomini barbari [gli indios] per natura servili, incolti e inumani, essi si rifiutano di accettare il comando di quelli che sono più prudenti, potenti e perfetti di loro; comando che darebbe loro grandi vantaggi, è infatti, cosa giusta, di diritto naturale, che la materia obbedisca alla forma, il corpo all’anima, l’appetito alla ragione, i bruti all’uomo, la moglie al marito, l’imperfetto al perfetto, il peggiore al migliore, per il bene di tutti”.

Juan Ginés de Sepúlveda, De la Justa causa del la guerra contro los indios, Roma 1550

Il razzialismo occidentale e le sue conseguenze

Cedric J. Robinson, nella sua imponente opera maggiore del 1983[1], ha cercato di individuare una tradizione radicale nera indipendente dalla radice occidentale della tradizione socialista per come si è formata intorno alle opere e all’azione di Marx, Engels e la socialdemocrazia europea. Una tradizione che si forma sulla base dell’esperienza di sradicamento violento e diasporica ed ha carattere egualitario e comunitario, all’inizio esemplificata nel marronaggio[2]. Nel compiere questa impresa, tuttavia, produce una notevole ricostruzione storico-culturale e decostruttiva della natura della civiltà occidentale che a suo parere è caratterizzata da una particolare forza materiale che ha dimensione sia sociale che culturale e viene condivisa in tutto lo sviluppo storico della civiltà occidentale, risultando antecedente al capitalismo: il razzialismo.

Una forma di distinzione e classificazione tra gruppi e individui, parte di una pratica di controllo e sfruttamento, che è interna alla civilizzazione europea e non si esprime solo verso l’Altro esterno, quanto creando costantemente ‘Altri’ interni, nicchie e enclavi, ghetti e periferie.

Come scrive Robinson, il “razzialismo” è “una concezione intrinsecamente gerarchica del genere umano”, le cui origini sono ‘precapitaliste’ in quanto parte organica del dispositivo identitario e di governo che struttura la ‘civiltà occidentale’. Uno dei luoghi storici dove questa attitudine si manifesta è nella trasformazione delle élite tardoimperiali in dinastie feudali, le quali progressivamente costruiscono un’ideologia che pretende di fondare il diritto al dominio nella gerarchia di sangue (certificata da Dio). Struttura d’ordine, non presente in tutte le civiltà che, per Robinson, in quella europea può essere fatta risalire alla centralità della schiavitù nella civiltà romana e greca[3]. Ad esempio, questo sistema di transizione ereditaria del potere, fondato su una differenza ontologica, è alieno alla civiltà cinese nella quale si ascende al rango di ‘mandarino’ con lo studio e gli esami individuali. Per Balazs, ad esempio, “Il mandarinato cinese fu la prima burocrazia al mondo basata non sul sangue o sulla ricchezza, ma sulla padronanza di testi confuciani dimostrata attraverso esami scritti anonimi. Un sistema che, per secoli, garantì mobilità sociale controllata.” [4] Ovviamente non del tutto egualitaria, dato che servivano risorse per studiare per anni, ma tale per cui dopo il 1400 almeno un terzo dei mandarini non venivano da famiglie ‘nobili’[5]. Ciò è rilevante perché, secondo questa interpretazione, il modello razzialistico (o il regime sociale gerarchico-razzializzato) non ha origini coloniali e, tanto meno, capitalistici, ma, se mai, può essere il contrario. Si tratta del prodotto di una costruzione culturale autonoma, forse con antecedenti assiri[6], che ha la funzione sociale di fissare e consolidare le gerarchie, mettendole al sicuro dalla possibile contestazione. Un modello che, formato nella transizione dall’antichità romana che ne era priva[7] al medioevo, viene progressivamente tradotto, dalla forma di vita nobiliare a quella mercantile e, di qui, con il decisivo contributo dello Stato-nazione, è esportato nel mondo come modello di sfruttamento e colonizzazione. Secondo questa lettura, chiaramente di enorme complessità e controversa[8], la logica razziale e quella capitalista, pur intrecciate, hanno radici diverse e la lotta contro entrambe deve essere condotta insieme. Secondo una tesi che fu anche di Fernand Braudel, la transizione decisiva tra il modello aristocratico e quello mercantile venne compiuto per la prima o più completa volta in Italia, nelle repubbliche marinare, il cui perfezionato sistema schiavistico diventò successivamente il modello di ogni colonizzazione atlantica e asiatica[9]. Secondo Braudel, “Le colonie genovesi del Levante, con i loro schiavi tartari e circassi, furono laboratori di un capitalismo proto-globale, dove la rendita schiavile si combinava con il commercio su larga scala, anticipando di secoli le piantagioni americane”[10].

Naturalmente questa ricostruzione, anche ove la si volesse accogliere, rischia di dire più di quel che conviene e di dire in modo troppo netto. La ‘civiltà’ europea è un costrutto analitico, ma anche una retorica di enorme potenza e un performativo[11], un’azione insieme ad una pretesa di costituzione, e in qualche modo Robinson rischia di essere catturato nella magia di questa distinzione, se pure criticando il suo oggetto. Inoltre, nel prediligere le continuità di lungo periodo individuate nella cultura, rischia di sottostimare le differenze, come quella tra medioevo e modernità e quella tra modo di produzione medioevale e colonialista (e quindi tra questo e il capitalismo). Ha, però, un vantaggio: consente di comprendere il capitalismo e la modernità come sistema di dominio e non solo come sistema economico. Soprattutto di gettare una luce sulla tensione dialettica interna tra omologazione e universalizzazione, portata dalla spinta alla “modernizzazione”, e differenziazione e gerarchizzazione, continuamente ricreata dalla dinamica capitalista[12].

Se pure, come ovvio, il razzismo non è una caratteristica esclusiva dei popoli europei, la tesi di Robinson (in effetti suffragata dalle recenti, e scioccanti, esperienze in Ucraina, Palestina, Iran, Siria, e prima Libia, Iraq, Jugoslavia, tutte sotterraneamente giustificate nella loro ovvia diversità, da un senso comune suprematista, che invariabilmente viene applicato dal centro europeo verso il non-europeo, lo slavo e orientale, le mezze-caste, per usare una formula che incontreremo), è che in Occidente assume un profondo e durevole radicamento strutturale (per cui parla di “razzialismo”). È la ‘bianchezza’ a legittimare il dominio come parte della natura. In altre parole, in tutti questi casi, pur nella loro diversità, si manifesta un senso comune selettivo, che naturalizza il dominio, deumanizza o inferiorizza i soggetti non occidentali o non allineati, e giustifica interventi violenti in nome di una presunta civiltà superiore. È questa logica che Robinson, e dopo di lui molti pensatori decoloniali, definiscono suprematismo strutturale.

La ricostruzione storica di Robinson, che avvia il suo lavoro nel contesto del Fernand Braudel Center for the Study of Economies, Historical Systems, and Civilisations presso la Binghamton University, e quindi a contatto con Immanuel Wallerstein, che lo fonda nel 1976, ma scrive la sua opera principale[13] dal 1974 al 1989. Dunque, se pure in parziale polemica con l’opera di Wallerstein, e Braudel, accusate di eurocentrismo, l’ampia ricostruzione storica di Robinson va inserita nella stagione dei World Studies inaugurata dall’opera di Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo[14] del 1979. Come per Braudel l’emergere nel lungo medioevo della borghesia è il prodotto della aggregazione dello Stato-nazione, partendo dalla poliarchia medioevale. Uno Stato nei cui interstizi crescono posizioni tecniche – le pratiche commerciali e le sue tecniche come la partita doppia, la capacità di navigazione e di cartografia, la scienza giuridica – e soggettività le quali, in un certo senso, prendono possesso parassitario dell’organismo, sfruttandone le occasioni. Nella lotta triangolare tra i centri di potere come la nobiltà tradizionale (che pretende di essere giustificata dalla natura stessa), il potere centrale sovrano e i nuovi ceti tecnici “borghesi” (legittimati dal possesso delle tecniche necessarie alla gestione unitaria e di massa delle nuove macchine statuali), si forma lo spazio prima della stagione rivoluzionaria e poi per la centralità del possesso, dell’astrazione e della valorizzazione e quindi del capitalismo. È qui che si forma la cosmotecnica dell’Occidente[15] (termine su cui torneremo in seguito[16]), strettamente connessa con la sua teleologia e visione universalista del mondo.

Enrique Dussel ci aiuta a capire questo passaggio fondativo, tramite i dibattiti cinquecenteschi che seguono alla “conquista” delle indie. In particolare, il Dibattito di Valladolid[17] nel quale quello che chiama il “concetto” di emancipazione razionale (valorizzato anche da Chakrabarty[18]) è affiancato dal “mito” irrazionale dell’eurocentrismo. Nella frase di Sepúlveda che abbiamo messo in esergo[19] spiccano due argomenti, la guerra contro gli indios è “giusta”, in quanto questi sono naturalmente traviati, e questa produce “grandi vantaggi”, e “per il bene di tutti”. Dunque, anche per il conquistato, il vittimizzato, lo sconfitto. La immaturità della cultura dell’Altro è giudicata una “colpa”, e il suo “sacrificio” dunque necessario. Necessario perché il barbaro si “modernizza” in tal modo. Il rovesciamento mitico non potrebbe essere più netto: la vittima è colpevole di essere inadeguata, rozza, barbara. Immatura, mentre il carnefice è innocente. È sempre innocente, comunque, perché ogni “sacrificio” è per il “bene superiore” (cosa superiore alla Salvezza?). Il grande umanista spagnolo Sepúlveda è, in questo dibattito, interamente “moderno”. La vera ragione per la quale i popoli degli Atzechi e Maya, i Mexica, non sono sviluppati e quindi meritano che gli si faccia guerra non è che non sono in grado di avere una tecnica (o una loro ‘cosmotecnica’[20]), le città Atzeche sono di gran lunga più grandi e sotto tanti profili avanzate di quelle europee, Valladolid nel 1500 aveva 15.000 abitanti, Siviglia ne aveva 50.000, aveva strade strette, chiese gotiche e costruzioni in mattoni, Tenochtitlán, aveva tra 200 e 300.000 abitanti, era grande come Pechino, costruita su un lago con canali, acquedotti, piramidi altissime, aveva orti botanici e grandi palazzi, ogni giorno riceveva 60.000 visitatori. La ragione per la quale sono ‘sottosviluppati’ è completamente diversa:

“Tuttavia, d’altro canto hanno costituito una loro ‘cosa pubblica’, dove nessuno possiede individualmente, né una casa, né un campo di cui possa disporre né lasciare in testamento ai propri eredi, perché tutto sta nelle mani dei loro signori, che con nome improprio chiamano re, al cui arbitrio vivono più che al proprio, legati alla loro volontà e capricci, e non alla propria libertà, e il fare tutto questo non oppressi dalla forza delle armi, ma in modo spontaneo e volontario, è un segno certissimo dell’animo avvilito e servile di questi barbari […] Tali sono insomma l’indole e i costumi di questi omuncoli tanto barbari, incolti e disumani, prima dell’arrivo degli spagnoli”[21].

Insomma, chiaramente Sepúlveda giudica essere il fondamento della barbarie, come oggi reputiamo essere quella Russa o Iraniana, o Cinese, non già la superiorità o inferiorità tecnica, quanto il modo non individuale di stabilire le relazioni sociali. Sia con le persone come con le cose. La somma accusa è di non avere proprietà privata (la medesima accusa un secolo dopo sarà avanzata verso i nativi del Nord America), ovvero ut nihil cuiquam suum sit, e quindi libertà soggettiva, suae libertati, capace di opporsi ai signori, se del caso. Per questo la conquista è un atto di emancipazione. Essa permette al barbaro, all’inferiore ed al colpevole, di uscire dalla sua “immaturità” (l’Ausgang di Kant). Ovviamente la strada deve essere quella dello sviluppo, già praticato dall’Occidente, deve finire per adottare le sue stesse istituzioni e le medesime cosmotecniche, in quanto universali e proprie della natura umana. E, altrettanto ovviamente, le vittime sono colpevoli di aver costretto il riluttante liberatore a esercitare la violenza, in quanto avrebbero potuto riconoscere da sole che la verità gli veniva incontro benevola. Sono colpevoli e per questo devono sacrificarsi. Qui, in questo mito, come scrive Dussel, è all’opera un “gigantesco capovolgimento: la vittima innocente è trasformata in colpevole, mentre il colpevole che causa la vittima passa per innocente”[22].

Tornando al percorso storico-evolutivo si può riconoscere come il modello di sfruttamento economico-finanziario veneziano e genovese, se pure in piccola scala, l’ordinamento razzialista legato al “sangue” (e quindi alla trasmissione ereditaria) transita, liberatosi del blocco a Oriente determinato dall’espansione turca, in un enorme salto di scala. Questo produce il dominio e incorporamento dei popoli africani e poi asiatici (e americani), e crea in tal modo l’energia per superare i limiti ecologici[23]. E’ questo percorso a dare il via al capitalismo mercantile (il quale precede cronologicamente quello industriale, come riconosce lo stesso Marx in più luoghi). In questo passaggio storico complesso si insedia quella dialettica del colonialismo per la quale alla schiavitù plantocratica[24] si oppone la resistenza comunitaria ben descritta da Robinson.

La tesi fondamentale è che questo salto di scala attiva, in una direzione specifica, potenziali di senso (come la riduzione dell’uomo a forza-lavoro) e strutture organizzative di dominio che erano connaturate ed all’opera da secoli nella forma di vita e cosmologia europea. Erano, sia chiaro, presenti anche insieme ad altro, a potenziali diversi, a nuclei di critica potenziale. L’intrusione nella storia africana, e l’estrazione da questa di milioni di individui sradicati e trasformati in mera forza-lavoro[25], determina conseguenze psicologiche, intellettuali e culturali nelle quali ancora viviamo. Decide quale potenziale si afferma e quale perde. Attiva meccanismi auto-distruttivi e di annichilimento che erano connaturati al razzialismo autoctono, funzionalizzandoli verso la massimizzazione del potere e della forza totalitaria[26].

Meccanismi che si attivano già nella scena madre, lo sbarco di Colombo (non per caso genovese). Cristoforo Colombo quando incontra gli Arawakos, i Tainos, e poi i suoi eredi gli Atzechi, i Maya, i Quechua, e via dicendo, ha alle spalle tutto il complesso sistema di privilegi feudali e autorità del denaro agita dagli appetiti degli Stati e dell’emergente capitalismo mercantile (fratelli siamesi intrecciati, come se fossero due teste con un solo corpo), insieme alla pulsione missionaria ad esso funzionalizzata. E’ infatti lui stesso un prodotto tipico del capitale genovese, la cui influenza sui regni iberici era ben radicata, ed erede di una tradizione di commercio coloniale che aveva secoli di esperienza. E’ portatore di una pulsione che, tuttavia, come si vede dal caso di Las Casas[27] contiene anche i germi della sua critica.

Meccanismi che poi vengono potenziati a seguito della distruzione quasi totale delle popolazioni autoctone (le quali ammontavano, prima della conquista a circa un quarto dell’umanità di allora), ed in conseguenza all’avvio e potenziamento della Tratta Atlantica degli schiavi neri dall’Africa. La manodopera africana è capitale e per tale viene trattata. Sono i centri di questa tratta, o i suoi terminali, come Bordeaux e Nantes in Francia ad essere i luoghi nei quali si crea una ambiziosa borghesia. Borghesia che, in alleanza con parte del ceto nobiliare che aveva come nemico il Re[28], è una delle fonti sociali dei rivoluzionari[29]. Il medesimo impulso arriva in Inghilterra, che nel corso dell’Ottocento prenderà il sopravvento nella lotta per il dominio europea. Come propone di considerare Du Bois, in Storia della razza nera[30], ed altrove, la schiavitù è l’istituzione che introduce come manodopera decisiva i neri sradicati dalla grande Africa e tramite questa fonda sia la produzione primaria al Sud degli Stati Uniti, sia la manifattura al Nord (in base all’argomento anche di Marx che è la produzione di massa del cotone a rendere possibile e necessaria la manifattura dello stesso, ovviamente con i feedback su cui Pomeranz si sofferma a lungo), e il commercio europeo. Ma lo scandalo della schiavitù, che sollecita i potenziali di liberazione insiti anche essi nella tradizione morale europea, rende necessario attivare e potenziare l’ideologia della supremazia bianca. È il razzismo moderno, dunque, che emerge come risposta difensiva e strutturale alla possibilità della critica, determinata dallo scandalo della sua inevitabile presenza, e non come sua causa originaria.

 

Gli imperi latini. Il suprematismo riluttante

Enrique Dussel, in un ciclo di conferenze tenute a Francoforte[31], pone come abbiamo già visto al centro della sua attenzione il “mito” irrazionale di autonomia e autosufficienza nella dichiarata centralità nel discorso sulla modernità dell’Europa[32], che pure contiene al suo meglio un “concetto” di emancipazione per via di ragione che non può essere completamente rigettato. Questo “mito” si afferma insieme alla scoperta dell’Altro; di chi era impensato e ignoto. Una scoperta che avviene quando il mondo spagnolo, liberatosi del freno dell’occupazione araba e fortemente militarizzato, nel 1400, ‘scopre’ il mondo americano. Allora, ed immediatamente, “l’Altro” viene occultato come “lo Stesso”, proprio nel mentre e perché lo colonizza, lo conquista, lo distrugge[33].

Gruzinski, in un meraviglioso libro[34], racconta questa storia molto da vicino. Scopriamo che l’universo dei mexica venne trascritto[35] in quello dominante per opera delle sue stesse élite, ma assorbendone le categorie di spazio e tempo che ne costituiscono l’essenza[36]. Insieme a queste, e all’uso strategico-militare (e diplomatico) delle stesse nuove storiografie, già con l’abile Cortez, i popoli amerindi furono sospinti a considerare il loro passato pre-ispanico come colpa ed arretratezza. Assorbendo, (naturalmente per il superiore bene delle loro anime immortali), religione, valori, istituzioni, gerarchie, e, forse più di tutto ciò che con esse è portato: forme di organizzazione del lavoro e il concetto dell’umano come strumento.

Il diventare ‘occidentale’ e ‘moderno’ del mondo è passato, insomma, per armi e cacciatori di schiavi, come per navi e porti, piantagioni come prime fabbriche e miniere grandi come metropoli, persino batteri e malattie, ma anche per la pretesa di ‘essere’ e necessariamente di designare come ‘non essere’ l’altro. Per l’imposizione, violenta, della cosmotecnica occidentale che riduce tutti gli spazi a vuoto, tutti i tempi a passato[37]. È passato per la creazione dell’Oriente[38]; la designazione di ogni universo ‘altro’ a spazio tributario, sia periferico sia esotico. Si possono leggere in proposito le indignate pagine di Dussel, su Kant e soprattutto Hegel, in L’occultamento dell’’altro’. Il diventare ‘occidente’ del mondo è proiettare il mito che immagina lo ‘sviluppo’ come modello unico, quello seguito dall’Europa (o meglio, quello fantasticato per l’Europa, dimenticandone le radici). È porre un “movimento necessario dell’Essere” che conduce l’umanità fuori dallo “stato di immaturità che è da imputare a se stesso”[39], e che in Hegel diventa l’automovimento dello Spirito Assoluto nella Storia che si svolge “da Oriente ad Occidente”[40]. Storia che è in sé lo “sviluppo dello spirito pensante”, la ragione (ovvero la saggezza di Dio[41]) all’opera. Ciò che Hegel esprime in modo chiarissimo è che se la “storia è la configurazione dello spirito in forma di avvenimento”, e questo elemento è ricevuto dal popolo germanico, allora “di contro al diritto assoluto che egli possiede per essere il portatore attuale del grado di sviluppo dello Spirito Mondiale, lo spirito degli altri popoli non ha diritto alcuno”[42]. La “modernità” ha, insomma, una lunga storia, profonde radici, ma vede la luce quando la periferica Europa si fa mondo e si confronta da vicino con l’altro da sé[43]. Tuttavia, negandolo come “altro”.

Scrive Dussel:

“la ‘conquista’ è un processo militare, pratico, violento che comprende dialetticamente l’Altro come parte di ‘Se Stesso’. L’Altro nella sua distinzione è negato come Altro ed è costretto, una volta sottomesso ed alienato, a far parte della Totalità dominatrice come cosa, come strumento, come oppresso, come encomendado, come ‘salariato’ nelle future aziende o come africano schiavo negli stabilimenti di zucchero o di altri prodotti tropicali”[44].

Quando, terminata la ‘reconquista’ (che è anche un laboratorio) il mondo spagnolo diviene a sua volta conquistatore e colonizzatore, e porta al continente una nuova coscienza, ricavando flussi immensi di merci, oro, argento e schiavi. La coscienza di aver esteso i confini dell’essere a tutto il mondo. Ci vorranno altri secoli ed altre conquiste (tra le quali, capitale, quella dell’India), ma il gesto è posto e sarà sempre ripetuto. L’io europeo, e quindi Occidentale, viene divinizzato e trasfigurato nell’intera tradizione della cultura e filosofia, in un “Io” incondizionato, indeterminato, infinito ed assoluto[45], mentre l’Altro è ridotto ad essere semplicemente pensato, ridotto a cosa, privato di parola (che, quando buca il silenzio è invariabilmente inudibile, mostruosa, retrograda, illiberale, dispotica, in una parola, “Orientale”). Viene trasfigurato anche nella teologia, quando salvezza e redenzione sono reinterpretati, nel protestantesimo, come esperienza individuale e “spiritualistica, interioristica, disincarnata”[46].

La capacità europea di razzializzare, gerarchizzare e stratificare, se vogliamo ‘terrazzare’ tutti i panorami sociali e culturali con i quali viene in contatto (ovvero di leggerli nella mente in ordine, dal maggiore al minore, dal grande al piccolo, dal giusto al colpevole), è qui esercitata ancora una volta. Nel formarsi del centro si forma la periferia, e nel formarsi del Moderno si forma il pre-moderno, l’oscuro, il resistente, ciò che va trascinato alla luce. La Spagna, il Portogallo, il mondo latino (e poi, quindi anche la Francia, che latina lo è a metà) è, qualunque cosa in merito pensino gli anglosassoni (ed i tedeschi, da Hegel a Habermas), costitutivo della modernità, e quindi lo è anche la sua periferia. Non c’è centro possibile senza la periferia, due poli di una relazione si co-implicano sempre vicendevolmente. L’America latina è dunque teixili (‘l’altra faccia’ in atzeco) della modernità, la sua essenziale alterità.

Un’alterità, che una volta riconosciuta da Amerigo Vespucci come la “Quarta parte” del mondo (dopo Europa, Africa ed Oriente, già conosciuti), doveva essere ‘pacificata’, esercitando quella attitudine militare messa a punto dal mondo spagnolo nella lunga lotta con il mondo arabo. Iniziò Vasco Nunez de Balboa a Panama, ma proseguì con drammatica efficacia Hernan Cortéz, nato nello stesso anno di Lutero, il 1485, ma nella povera Estremadura. Cortez era un uomo colto che studiò lettere a Salamanca e poi smise, si trasferì nelle Indie (ovvero in America) arrivandovi a diciannove anni e per alcuni anni sfruttò a Santo Domingo gli indios come encomendero[47]. Diventato ricco venne nominato comandante delle truppe che dovevano conquistare lo Yucatan. La missione era di sottomettere le culture Maya ed Atzeche per venticinque anni ignote, ma ora ‘scoperte’. Cortez partì con 11 navi e 508 soldati, con 16 cavalli e 10 pezzi di artiglieria e iniziò il confronto tra due culture, entrambe altamente complesse e ritualizzate che, tuttavia, non si erano mai incontrate.

Sul piano formale, con la conquista delle grandi città Atzeche, che contavano milioni di persone, molto più grandi delle coeve città europee, gli indigeni diventarono sudditi del re di Spagna, Carlo V. Quindi, in quanto sudditi, divennero tenuti a pagare le tasse e affidati a governatori che erano responsabili del compito di evangelizzarli. Ovvero di far diventare l’Altro come lo stesso. Qui si manifestò subito un conflitto tra la corona, che non aveva interesse alla distruzione demografica dei nuovi possedimenti (una cosa che avvenne comunque, per effetto delle malattie) e i conquistatori. Questi, avidi di appropriarsi delle ricchezze personalmente, non capivano i vincoli che una legislazione volta a frenare, e talvolta i sacerdoti mandati a fare il lavoro di conversione, producevano. La scoperta, negli anni quaranta del Cinquecento, anche dell’Impero Inca, sulle Ande, inasprì questo conflitto, fino a che Las Casas riuscì a ottenere dal Re la sconfessione della conquista come guerra “giusta”. L’eventuale revoca di queste leggi sarà l’oggetto, come già visto, della Controversia di Valladolid, nella quale si contrapposero gli argomenti di Bartolomè de Las Casas, da una parte, e di Juan Gines de Sepulveda dall’altra. Alla confutazione di Las Casas della possibilità di applicare agli indiani, che nella loro innocenza non conoscono Cristo, l’argomento sulla “guerra giusta” di Tommaso d’Aquino, ciò in favore di una conversione sulla base dell’esempio e la persuasione, Sepulveda oppose infine l’ulteriore argomento circa la necessità, ed il dovere, di estirpare gli immondi peccati di sodomia, antropofogia e sacrificio umano, praticati dagli indiani. A vantaggio concreto delle vittime, in questo caso. Nessuno vinse il dibattito, ma Carlo V e il successore Filippo II, capirono che lo spirito di appropriazione privato andava frenato o avrebbe potuto spopolare interamente i nuovi possedimenti del regno. Nel 1570 venne promossa una politica quindi di ripopolamento nelle aree nelle quali gli spagnoli erano passati, le Antille, il Mesoamerica e le Ande. Gli indiani vennnero forzatamente raccolti in villaggi gestiti da funzionari regi e con una chiesa secolare e sotto la protezione del Re. Ma era necessario anche sfruttare le miniere di argento, scoperte in particolare a Potosì, nelle Ande, a ben 4.000 metri di altezza e la più ricca del mondo[48]. Una parte degli indiani, ma come yanoconas o mitayos, lavoratori ‘liberi’ (dagli impegni comunitari), fu dunque destinata a questa ed altre miniere, o alle opere necessarie per sviluppare le infrastrutture.

La necessità di conservare l’equilibrio di queste politiche, ovvero allo stesso tempo di sfruttare le occasioni determinate dalle miniere e di ripopolare le regioni ai fini di poter ampliare il gettito fiscale, determinò necessariemente nelle regioni controllate dagli Stati nazionali latini (spagnolo e portoghese), l’importazione di schiavi neri. I Portoghesi erano nel Cinquecento i monopolisti di questo commercio e si prestano a fornire il re di Spagna. Progressivamente dunque l’occupazione del continente proseguì, anche al fine di sfruttarne prima il legno (il Brasile, scoperto dai portoghesi prende il nome dal legno rosso brace, brasil) e poi di impiantare piantagioni di zucchero, alimento preziosissimo e raro, di grande lusso, in tutto il mondo (Cina inclusa). A partire dal 1560 in Brasile, dove i portoghesi avevano vinto la competizione con i rivali europei, la produzione e il commercio dello zucchero decollò, e con essa la ricerca sempre più spasmodica di schiavi indios nella grande foresta. Quando il Portogallo venne soggetto alla Spagna (per ragioni dinastiche) anche qui si estese, però, la legge che impediva la schiavitù degli indios e si sostituì la forza lavoro con quella derivante dalla tratta in Africa. Nel 1620, dopo cinquanta anni, l’intera popolazione servile nei mulini da zucchero divenne nera.

Interessante la giustificazione che Francisco de Anuncibay, politico di Popayan (ora Colombia) produsse allora verso il Consiglio del re, responsabile delle indie, per convincerlo dell’opportunità e liceità di imporre la schiavitù ai “negros”:

“Poiché sono ignoranti, non ho alcuno scrupolo nel prelevare dalla Guinea tutti i neri che voglio per cristianizzarli, e quando vedo un negro cristiano mi rallegro con san Paolo; anche se in condizione di schiavitù, questa deve essere considerata come una gioia, perché a ragione non c’è fortuna più grande del trovarsi sulla via della Salvezza, benché il nome di schiavo o di servo offenda le orecchie devote”[49]

Le istituzioni dell’asservimento, necessarie per lo sfruttamento di terre di enorme estensione ma povere di manodopera (anche per le distruzioni operate), entrano, tuttavia, strutturalmente in conflitto con il potenziale di liberazione dell’universalismo cristiano. Sarà Las Casas e i suoi successori, ma Gerònimo de Mendieta, un missionario francescano in Messico, ed anche le sette religiose che si muovono dall’Inghilterra della Gloriosa Rivoluzione nel corso del Seicento (anabattisti, quaccheri, puritani, moravi), a sollecitare un vasto dibattito che poi si riverberò fino alla traduzione nell’impulso illuminista ad una liberazione per effetto della ragione (Brissot de Warville, l’abate Grégoire, Condorcet o Raynal che sviluppano critiche alla schiavitù in nome dei diritti naturali). Si trattò di una dialettica la quale attraversò tutta la storia dell’emisfero occidentale tra XVI e XVIII secolo, e costituì un campo di forze che genera contraddizioni, lotte, deviazioni, e possibilità. Agisce su questa linea di faglia, in qualche modo prendendola sul serio ed in parola, la rivoluzione haitiana di Toussaint Louverture, morto in un carcere francese[50].

Alla logica razzializzata dello sfruttamento e della creazione di gerarchie fondate sulla natura (o, in alcune versioni, sulla cultura), si oppose così l’attivazione di dispositivi ideologici parimenti occidentali (paolini, se vogliamo) che consentivano di ‘prenderla in contropiede’ e determinare reinterpretazioni di liberazione. In un primo momento i protagonisti furono il già citato Bartolomeo de Las Casas, Francisco de Vitoria[51], José de Acosta[52], nel secolo successivo il comunitarismo cristiano radicale si manifestò in alcuni autori chiave come Roger Williams[53], che fondò Rhode Island e difese i diritti degli indigeni, il quacchero William Penn[54] e, nel contesto illuminista, vanno ricordati Jacques-Pierre Brissot, fondatore della Société des Amis des Noirs, Condorcet, dichiarato abolizionista, e Denis Diderot, autore del notevole Supplemento al Viaggio di Bougainville[55]. In questa opera del 1772, del grande filosofo illuminista, contestò a Bougainville, che prese possesso di Tahiti in nome della corona francese, che se nelle isole “tutto è di tutti” il francese, sbarcando e prendendone abusivamente possesso, andava a “portare la funesta distinzione tra il mio e il tuo”. Inoltre, che il solo essere più forte non autorizzava nulla, occorreva quindi lasciare all’indigeno i suoi costumi che erano “più onesti e più saggi dei vostri”. Di più, aggiungeva che “La sua ignoranza vale più di tutti i vostri lumi, non sa che farsene [l’indigeno]”. In questo testo prezioso nella sua brevità Denis Diderot, uno dei filosofi illuministi più eminenti, ma anche più arguti e sensibili, smascherò la violenza logica del possesso e dell’appropriazione e mostrò un piano di lotta ontologica alla logica coloniale. Un piano ripreso da Robinson e da Du Bois, come da altri. Diderot si spinse a portare al limite la critica illuminista, come in alcuni casi fece anche Rousseau, nel momento in cui affermò che l’ignoranza può valere più dei lumi imposti dall’alto e dall’esterno, e fece intravedere una via per rovesciarla che sarà molto praticata nel Novecento e nella letteratura post-coloniale contemporanea. Il testo di Diderot qui dialoga, o risuona, con quelli di Fanon, Said, Spivak, Mbembe, o Viveiros de Castro e i seguaci di Levi-Strauss come Sahlins e molti altri. La modernità si mostra allora non come processo universale di emancipazione, ma come genealogia situata, costitutivamente asimmetrica e fondata sulla rimozione dell’Altro.

 

L’impero britannico. Il suprematismo senza veli

Il politico conservatore Enoch Powell, in un discorso all’autorevole Royal Society il 23 aprile 1961 pronunciò queste parole:

“La vita ininterrotta della nazione inglese nell’arco di mille e più anni è un fenomeno unico nella storia: il prodotto di un insieme specifico di circostanze come quelle che in biologia si suppone diano inizio per caso a una nuova linea evolutiva. […] Da questa vita ininterrotta di un popolo unito nella sua patria insulare scaturisce, come se emergesse dal suolo d’Inghilterra, tutto ciò che appare così straordinario nelle doti e nei successi della nazione inglese. Tutto il suo impatto sul mondo esterno – con le prime colonie, la successiva Pax Britannica, il governo e la legislazione, il commercio e il pensiero – è scaturito da impulsi generati qui. Questa vita ininterrotta dell’Inghilterra è simboleggiata ed espressa da null’altro se non dalla sovranità inglese […] Il pericolo non è sempre la violenza e la forza: a esse abbiamo resistito prima e possiamo resistere ancora. Il pericolo può essere anche l’indifferenza e l’ipocrisia, capaci di dilapidare la grande ricchezza della tradizione e svilire il nostro simbolismo sacro solo per raggiungere qualche compromesso a buon mercato o qualche risultato evanescente”.[56]

Queste parole, che articolano in modo sintetico e mirabile, il ‘razzismo popolare’ così diffuso in Inghilterra è al fondamento del “nazionalismo imperiale” che connette in un unico inestricabile insieme idee sulla razza, senso di appartenenza ed ambizione di dominio. Si tratta di quello che Carline Elkins chiama “imperialismo liberale”, o che Tony Blair chiamò “Nuovo imperialismo liberale”, per giustificare nel 2003 la guerra in Iraq. Quella unione indissolubile, nutrita di ‘bipensiero’ alla Orwell, di ‘totalità disumana’ e ‘promessa di riforme’ che caratterizza l’universalismo liberale nella sua stessa costituzione.

Confrontarsi con questa storia di pratiche e idee, è oggi particolarmente importante, quando la mai scomparsa postura di legittimazione del diritto (ed il fardello) di portare al mondo l’emancipazione e la ‘libertà’ riprende il suo posto centrale alla vigilia della nuova Grande Guerra che si prepara e, per intanto, nelle “guerre locali” che proliferano. In tutte le guerre “locali”, nelle quali lo status di nazione “aggredita” tocca, di volta in volta, alla povera Ucraina (sedotta ed ingannata dall’Occidente collettivo e poi invasa dalla vicina Russia[57]), ad Israele, sia quando distrugge Gaza (uno dei luoghi di insediamento umano più antico della storia, ampiamente citato nella Bibbia[58]) in risposta ad un attacco a sorpresa di Hamas, sia quando aggredisce improvvisamente l’Iran[59] impegnato in negoziati sul nucleare civile, oppure quando prende un pezzo di carne alla Siria[60], aggredita sostanzialmente dalla Turchia. Siamo sempre “noi”, o i nostri amici del momento, ad essere dalla parte giusta della Storia e del progresso, sempre gli altri ad essere oscurantisti, autoritari e portatori di “regimi”, violenti ed arretrati ad un tempo. Come si vede siamo sempre dalle parti degli argomenti teologici di Sepulveda.

La cosa viene da lontano, ma si riproduce sempre. Robert Cooper, consigliere di Blair per la politica estera disse, ad esempio, in occasione dell’aggressione dell’Occidente all’Iraq[61], giustificato contro l’Onu con prove false fabbricate dal MI6[62], che nel mondo “postmoderno” la “vera sfida è abituarsi all’idea di due pesi e due misure”. Con una franchezza meritevole di miglior occasione, Cooper affermò che mentre in patria si trattava di operare in base alle leggi, negli “stati più antiquati, al di fuori del continente postmoderno dell’Europa, dobbiamo tornare ai metodi più rudi di un’epoca precedente”. Cioè “alla forza, all’attacco preventivo, l’inganno”. Specificamente, “tutto ciò che è necessario per affrontare coloro che vivono ancora nel mondo ottocentesco di ogni stato per sé”. In parole ancora più crude: “tra noi rispettiamo la legge, ma quando operiamo nella giungla, dobbiamo usare anche le leggi della giungla”. Per giustificare l’intervento nella ex-colonia, come oggi a ben vedere per giustificare ogni macelleria in grande stile che, di volta in volta, si rende purtroppo “necessaria”, l’onesto Cooper non si fece scrupolo di richiamare il colonialismo. Leggiamo ancora:

“Il modo più logico per affrontare il caos, nonché quello maggiormente utilizzato in passato, è la colonizzazione. Essa è tuttavia inaccettabile per gli stati postmoderni (e, a quanto pare, anche per alcuni stati moderni). È proprio a causa della morte dell’imperialismo che stiamo assistendo all’emergere di un mondo premoderno. Impero e imperialismo sono parole che nel mondo postmoderno evocano una forma di abuso. Oggi non ci sono potenze disposte ad assumersi l’onere di una colonizzazione, anche se le opportunità in tal senso. E forse anche la necessità, sono forti come lo erano nel XIX secolo”[63].

Queste parole non sono pronunciate, come molte che vedremo, nel XVIII secolo, e neppure nel XIX o XX, non sono di Sepulveda, sono nostre contemporanee. Risalgono a venti anni fa. E non sono pronunciate da populisti con la bava alla bocca, bensì dal civilizzato e di “sinistra” governo inglese, alleato strettamente con il neoconservatore governo americano; sono pronunciate davanti alle antichissime porte di Baghdad, fondata nel VIII secolo dal califfo al-Mansur ed in una regione letteralmente centrale nella storia del mondo occidentale[64].

Queste parole crude (che poi si articolano a seconda dei casi nel neoimperialismo soft, o informale, dell’economia globale controllata con il ‘pilota automatico’ dagli organismi finanziari internazionali, o, quando la sfida si fa stringente, nel neoimperialismo hard, in piena aria, delle guerre per procura tramite terzi) incarnano l’imperialismo liberale, che si sforza di “Take Back Control” (lo slogan conservatore di Farange) o “Make America Great Again” (lo slogan di Trump). Parole che si accompagnano, secondo una sistematica di lungo tempo, con le promesse di libertà e universalismo.

Il “Giano bifronte” del liberalismo viene illuminato da queste parole e dalle corrispondenti azioni. Di fatto l’inestricabile groviglio tra liberalismo, violenza, legge e creazione di appropriate tesi storiche ideologiche ha contribuito nel corso della storia a sedimentare in gran parte del mondo contemporaneo una particolare cultura della sopraffazione vestita di abiti civili. Una cultura che è transitata nei volenterosi allievi statunitensi, poi fattisi maestri, e di qui divenuta marchio di fabbrica dell’Occidente verso il resto del mondo.

La centralità della vicenda britannica è pari, nel mondo moderno, a quella dei romani e greci nel mondo antico; chiaramente strutturante e punto di riferimento, sia nella prima fase sei-settecentesca (quando si svolse con mezzi informali e secondo lo svolgimento del “libero mercato”), sia nella seconda otto-novecentesca (quando la crescita della concorrenza obbligò a passare al modello della ‘clausola imperiale’ per continuare a garantire che gli investimenti restassero senza concorrenti, l’importazione di cibo e merci privilegiata e lo spazio finanziario della sterlina al sicuro). Complessivamente i britannici invasero o conquistarono 178 paesi e nel solo XIX secolo promossero 250 conflitti armati e controinsurrezioni. Quelle che Kipling definì “le barbare guerre per la pace”, in una splendida applicazione del “pensiero doppio[65] orwelliano.

Nell’impero britannico, ed apertamente, il colore della pelle divenne il segno della differenza, secondo una ben precisa gerarchia razziale; ma la pelle era in realtà un segno ‘costruito’. Come nota anche Cedric Robinson, di volta in volta potevano essere “neri” gli irlandesi, i palestinesi e gli ebrei, o anche gli afrikaner olandesi; in una classificazione che si sovrappose ed implicò sempre un giudizio unilaterale circa il livello di “modernità” e “maturità” rispetto ad un’implicita scala del progresso, secondo i rigidi parametri della filosofia della storia dell’Occidente. O, in altri termini, secondo la sua idea di “libertà” e di “Stato di Diritto”. Questa è, per la Elkins, la “Sideologia del liberalismo liberale”, che con le sue rigide camicie di nesso intrappola le menti ed i cuori degli attori imperiali e integra le loro rivendicazioni sovrane. Ne derivò per la Gran Bretagna un massiccio impegno a “riformare” i sudditi e accompagnarli, come un gregge talvolta recalcitrante, nel mondo moderno. Si tratta del famoso “fardello dell’uomo bianco[66].

Questo è il tema, centrale da un certo punto dello svolgimento della storia, dello “sviluppismo” che cominciò a vedere i barbari, con una condiscendenza autopercepita come generosa, come bambini da far maturare. Ne derivò l’assunzione di una “missione civilizzatrice” di cui la violenza fu da sempre sia il mezzo sia il fine. Nel corso del XIX secolo l’intera missione, nel transitare l’Impero nel regno dello Stato di Diritto, si innervò di codici e procedure che non fecero altro che legittimare e giustificare la violenza e proteggere i suoi autori. Ma per questa via, tra “missione” e “legge”, l’imperialismo liberale metteva ai suoi avversari in mano le armi del suo disfacimento. Un bambino prima o poi deve crescere, anche se, nel frattempo è giusto sia esposto alla dura disciplina, alla punizione, visibile ed educativa per il suo bene. L’apice di questo disfacimento si ebbe subito dopo la II WW, nelle condizioni particolari generate dalla crisi economica britannica, che la rendeva contemporaneamente dipendente dall’Impero e non più finanziariamente indipendente nel sostegno della sterlina, dalla complessa relazione con gli Stati Uniti, determinati a porre fine alla centralità britannica, ma bisognosi del controllo imperiale in chiave antisovietica, e il movimento terzomondista che prendeva in parola le parole d’ordine istituite nell’immediato dopoguerra e via via istituzionalizzate in organismi internazionali e solenni “Dichiarazioni”.

Insomma, in base ad una sintetica formulazione della Elkins: “la violenza era connaturata al liberalismo. Risiedeva nello stesso riformismo liberale, nelle sue pretese di modernità e nelle sue concezioni della legge: elementi, di fatto, opposti a quelli normalmente associati alla violenza”[67]. Non si è trattato solo di sfruttamento economico, e non solo di “capitalismo razziale” alla Robinson[68], ma di un legame interno e intimo tra liberalismo e violenza (un legame logico e storico) che è presente anche nelle questioni razziali (e geopolitiche) contemporanee. Anche oggi i popoli “neri” sono allineati sulla linea del progresso, rappresentato dalla maggiore o minore vicinanza ad un modello soprastorico (ne è un esempio la Russia, nerissima, mentre l’Ucraina è, per ora, bianchissima, e via dicendo, ora stanno diventando bianchi anche i ‘ribelli’ siriani e ‘neri’ come sono sempre stati i lealisti, o, sono ovviamente ‘neri’ i civilissimi persiani mentre sono bianchissimi ed immacolati gli ebrei sionisti).

Tornando all’impero inglese, si può notare come di fatto in esso coesistevano per tutta la sua durata, e spesso teorizzati, sistemi duplici di autorità e legittimazione: leggi consuetudinarie in patria e codici coloniali fuori. Monopolio della violenza in entrambi (che non cedette neppure al cosiddetto “governo indiretto”, a volte praticato quando considerato più economico). Era, infatti, questa la “missione civilizzatrice” che implicava, e necessariamente, sia una dimensione progressista sia una dimensione coercitiva. In effetti, “riforme e repressione erano connaturate sia al linguaggio [dell’imperialismo liberale] sia ai suoi sistemi. Il perenne gioco universalista sullo sfondo delle differenze razziali [ovvero di grado di civilizzazione] si riproducevano a catena”[69]. Anche dopo la I WW, il sistema del “mandati” non portò modifiche sostanziali, semplicemente sostituendo una “amministrazione fiduciaria”, nominalmente sorvegliata dalla “Società delle Nazioni”, al vecchio dominio diretto. I popoli “non ancora capaci di reggersi da sé, nelle difficili condizioni del mondo moderno”, secondo la formula giuridica applicata, restarono sottomessi, ovviamente per il loro bene.

Tuttavia, nella II WW, la mobilitazione senza precedenti dei popoli coloniali come soldati e come forza lavoro rese necessario fare promesse che, in seguito, restarono sospese. Ed allora la difficile relazione con gli Stati Uniti e il loro approccio (insieme storico-culturale e di interesse) antimperialista, unita alla dipendenza economica, resero necessario per la Gran Bretagna rivestire la sostanza coloniale di nuove idee, le quali sfidarono in modo crescente il “bipensiero” imperiale. In conseguenza la “amministrazione fiduciaria” diventò “partnership”, verso il “benessere comune” (Commonwealth). Ma nella Carta delle Nazioni restò viva la definizione di “territori la cui popolazione non ha ancora raggiunto la piena autonomia” e per i quali è quindi necessario garantire, con le buone o le cattive, il “progressivo sviluppo”. Ne derivò una tensione strutturale, presa tra le necessità economiche di utilizzare le aree protette coloniali per alimentare la rinascita economica e le belle parole, tra pretesi diritti universali e discriminazione razziale (che è, in realtà, discriminazione rispetto alla conformazione al modello universale).

Di qui il catalogo di atrocità che solerti funzionari e militari britannici compirono in tutte le aree di sollevazione dell’impero, in Africa (dalla guerra boera a quella keniota) in Medio Oriente (con il caso palestina in evidenza), in Oriente (dall’India alla Malesia, e via dicendo), senza dimenticare la palestra irlandese, o la vicenda cipriota. Vicende che giunsero al culmine tra gli anni Cinquanta e Sessanta, ma poi proseguono in Vietnam ad opera degli allievi Americani. L’Impero britannico, insomma, assunse una configurazione sempre più violenta nel tempo, man mano che da una parte esaltava le virtù del liberalismo, per difendere un dominio che appariva sempre più obsoleto, dall’altra era costretto a legittimare internamente ed esternamente gli episodi di estrema coercizione come sfortunate eccezioni al trionfo evolutivo della modernità.

Questa è la forma che prende il “Nazionalismo Imperialista” che, lascito di lungo periodo del colonialismo britannico, permane e continuamente riemerge nell’attuale Gran Bretagna. E non solo.

Una delle cose che occorre comprendere è che spunti progressisti e azione coercitiva sono entrambi espressione della medesima, autoattribuita, “missione civilizzatrice”. L’imperialismo liberale può sempre tollerare contestazioni perché riforme e repressione sono parte del suo linguaggio e dei suoi sistemi operativi.

 

Parte Prima: Una nazione imperiale.

La prima scena è la conquista dell’India, gioiello dell’Impero, da parte della Compagnia delle Indie Orientali[70] che sfrutta un episodio del 1756 (la cattura di alcuni inglesi e la detenzione nel cosiddetto “Buco nero di Calcutta”) per giustificare l’attacco militare al Bengala e la battaglia di Plasey, del 1757, che dà l’avvio alla sistematica presenza inglese, Dai Moghul viene concesso il diritto di riscuotere le tasse che porterà somme enormi al tesoro inglese, ma, a causa di pratiche di selvaggio sovrasfruttamento, anche un’immane carestia nella quale si stima siamo morti circa 10 milioni di persone (un terzo della popolazione). Questo effetto non voluto portò, tuttavia, ad una caduta delle entrate e la Compagnia sull’orlo della bancarotta; a sua volta questo provocò un crollo del credito a livello globale. In questo contesto fu concesso un prestito di 1,4 milioni di sterline, e fu sostituito il Governatore, da Clive ad Hastings. Quest’ultimo fu poi richiamato per subire un processo che è, in effetti, la scena madre di alcune delle strutture discorsive ricorrenti. Il processo in Parlamento vide Edmund Burke impegnato per l’accusa. La linea tenuta mise sotto giudizio la legittimità dell’impero, richiedendo standard superiori. Secondo Burke l’impero si giustifica per il benessere dei sudditi e la creazione di uno Stato di Diritto. La Gran Bretagna aveva la sacra missione di istituire un governo degno e responsabile, che comprendesse anche le tradizioni locali aiutandole a evolvere in direzione della modernità[71]. In uno straordinario passaggio retorico del Discorso di Apertura, il 15 febbraio 1788, Edmund Burke, davanti alla Camera dei Lord, pronunciò la verità che il processo avrebbe dovuto dissolvere:

“Dio non voglia che all’estero si diffonda l’idea che le leggi dell’Inghilterra sono fatte per i ricchi e i potenti invece che per i poveri, i miserabili, gli indifesi che non si possono permettere alcun’altra protezione. Dio non voglia che si dica che in questo regno sappiamo assegnare ai funzionari pubblici poteri estremamente ampi e incontrollabili e abbiamo mezzi scarsi, inefficaci, manchevoli e impotenti per richiamare in giudizio chi ne abusa. Dio non voglia che si dica che al mondo non c’è nazione pari alla Gran Bretagna per concretezza della violenza e irregolarità della giustizia. Non si dovrà mai dire che – per coprire la nostra responsabilità nel saccheggio dell’Oriente – abbiamo inventato un insieme di distinzioni scolastiche contrarie al sentimento di umanità, per mezzo delle quali fingere di non sapere ciò che il resto del mondo sa bene e sente[72].

In un discorso che durò quattro giorni il filosofo e politico inglese accusò Hastings di “moralità geografica”, ovvero che “una volta superata la linea equatoriale, tutte le virtù morissero”. Al contrario, le leggi morali “sono le stesse ovunque”. Questa idea, dell’universalità dei diritti umani, in quanto “naturali” era in effetti una delle grandi idee del secolo, che si sarebbe affermata attraverso le due rivoluzioni “atlantiche” (anzi le tre[73]). L’assoluzione, dopo nove anni e oltre 170 sedute, di Hastings lasciò comunque due eredità: che la Compagnia doveva rispondere alla corona, e che la sacra responsabilità della Gran Bretagna nei confronti dei popoli sottomessi non poteva essere ignorata.

Si rendeva quindi necessaria una più articolata giustificazione del dominio. Altri grandi intellettuali, come James Mill vi si impegnarono. Una linea da perseguire era quella di descrivere l’altro come deficitario e quindi bisognoso di tutela, ovvero come antitesi della civiltà. D’altra parte, come ricorda opportunamente la Elkins il pensiero liberale si è evoluto in Europa intersecandosi sin dall’inizio, ovvero da cinque-seicento, con il lungo processo dell’ascesa degli imperi (prima spagnolo e portoghese, poi francese e inglese, olandese) in un rapporto che qualifica come “reciprocamente costitutivo”.

Anche se questa tesi richiederebbe maggiore esplicazione, di fatto comporta una coevoluzione delle idee stesse di libertà, progresso e governo. L’espansionismo, ideologico e materiale, è, insomma, connaturato nei tratti distintivi del liberalismo, e con esso le nozioni universalistiche di progresso e le rivendicazioni morali, tutte strettamente connesse con l’espansione della proprietà e del capitale come ordinatore centrale della società. Deriva da tale postura, che ha radici profondissime[74], che talvolta nei confronti delle “razze minorenni”, secondo la fortunatissima formula di Jhon Stuart Mill, il dispotismo può essere “necessario”.

L’organizzatore ulteriore della razza venne rafforzato via via dagli episodi che si susseguirono, tra i quali si può ricordare la ribellione dei Sepoy, e la Commissione di inchiesta composta da Mill, Darwin e Herbert Spencer, che vide a difesa della legittimità dell’Impero impegnarsi Dickens, Jhon Ruskin e Thomas Carlyle. In questo scontro di giganti della cultura inglese venne messa a punto l’idea che, contrariamente a quanto sostenuto da Burke, i diversi stati di sviluppo devono comportare l’applicazione di diversi livelli legali. Si tratta di un cambiamento epocale[75]. Intorno all’apprendimento reso dagli eventi giamaicani fu ampliata la possibilità di ricorrere alla violenza, come base stessa del diritto. L’Impero cominciò ad essere concepito come impresa patriottica totalizzante.

Tutti questi momenti ebbero una convergenza nella grande sintesi di Disraeli, che attraverso l’evento simbolico e il grande spettacolo dell’incoronazione della regina Vittoria, determinò un legame duraturo tra l’orgoglio nazionale e la “missione civilizzatrice” autoassunta. In letteratura fu la stagione di Caroll, George Alfred, Kipling, Selley.

Ma non fu solo una questione culturale, o politica. In realtà per mantenere la sua posizione di leader finanziario mondiale, e favorire l’affermazione del capitalismo nel paese, la Gran Bretagna doveva assicurarsi un flusso costante di oro. Ad ostacolare questo processo stavano gli afrikaneers, discendenti dei primi coloni olandesi e insediati nel cruciale sud Africa. Quando si scoprì l’oro nel Transvaal, nel 1806, migliaia di inglesi e imprenditori senza scrupoli, si riversarono regione. Il presidente dei Boeri, Paul Kruger impose allora regole che rendevano difficili gli insediamenti coloniali inglesi, e ciò portò a lunghi decenni di attriti che, alla fine, scaturirono in guerre. La Seconda guerra anglo-boera fu combattuta a partire dal 1899, quando per risolvere la cosa la corona inviò 75.000 uomini in una “missione di civiltà”. Una “missione” che si amplificò costantemente, fino ad arrivare a impegnare 450.000 soldati, di cui 22.000 morirono e 75.000 restarono invalidi. Durante questa guerra prese il via il solito processo di deumanizzazione degli avversari che, per Kipling, erano una “mezza casta” e vennero coerentemente con questa autorizzazione affrontati via via con mezzi sempre più radicali. Sarà infine il generale Kitchener, reso famoso per l’aver sconfitto in Sudan le forze di Al-Mahdi, che proporrà una soluzione drastica per contrastare l’abilissima guerriglia dei boeri: divise il territorio con fortificazioni e filo spinato e realizzò campi di prigionia di massa nei quali anche le donne e i bambini erano dichiarati obiettivi legittimi. Fu in assoluto la prima volta che un intero gruppo etnico era soggetto a deportazione e internamento di massa. I campi di concentramento di Kitchener furono osservati in tutto il mondo con interesse, in particolare in Germania. Oggi hanno trovato l’ennesima applicazione a Gaza.

Dall’altra parte militava Jon Smuts, una personalità realmente straordinaria, a capo dei commando afrikaner e che poi diventerà uno dei principali architetti delle trasformazioni imperiali nelle fasi successive. Durante la guerra furono sperimentate anche armi proibite come le micidiali pallottole dum-dum.

Il prossimo sito di scontro, e luogo di apprendimento, fu l’Irlanda, in cui si misero a punto tattiche e regolamenti che poi saranno esportati in tutto l’Impero. Nel 1916, alla fine della I Guerra Mondiale, Patrick Pearse occupò con un colpo di mano l’Ufficio Postale di Dublino. Per risolvere la crisi Kitchener, ormai Segretario alla Guerra, mandò il generale John Maxwell, nominandolo Governatore militare dell’Irlanda. La repressione fu feroce, in pochi giorni furono uccisi 500 civili, e i leader furono catturati e giustiziati. Invece di sedare la cosa, questo fece cambiare direzione all’opinione pubblica. Il sacrificio di Pearce accese la miccia nella quale emersero nuovi leader militari, forgiati nelle lotte degli afrikaaners; tra questi Michael Collins che portò l’enorme esperienza della guerra di guerriglia ad un nuovo livello. La guerra di indipendenza irlandese portò il governo di Lloyd George alla decisione di far arrivare altri 10.000 uomini sull’isola e a far nascere le famigerate unità dei “Block and Thanks” che alzano enormemente il livello di violenza. Il risultato fu, però, solo che crebbe enormemente anche il reclutamento nell’IRA.

Nel frattempo, Smuts, ormai convinto della necessità per il Sudafrica di rimanere con l’Impero per portare a termine la missione di civiltà, contribuì alla definizione nella Società delle Nazioni del concetto dei “Mandati”. Per cui la colonizzazione poteva continuare, su Mandato della Società, per il tempo necessario a che il paese bambino crescesse. Venivano definiti anche Mandati di diversa classe, secondo il grado di maturità: A o B.

L’India era sottoposta ad uno di questi “mandati”, ma fu subito soggetta a numerose rivolte. Uno dei punti di definizione fu la strage del Parco Bagh, quando l’ufficiale inglese, Reginald Dyer, fece aprire il fuoco su una folla pacifica, uccidendo 400 persone e ferendone 1.200. La rivolta terminò con la condanna di 581 persone e l’esecuzione di altre 108. Chiamato a risponderne Dyer giustificò i suoi provvedimenti come “necessari” e appropriati. La violenza aveva, infatti, un “effetto morale” salutare. Nel processo che seguì i laburisti si mossero all’attacco e Churchill produsse un’abile difesa che lo restringeva ad un “orribile episodio isolato” non tale da compromettere “l’augusta e venerabile struttura dell’Impero Britannico, in cui l’autorità legittima si tramanda di mano in mano e di generazione in generazione” e che “non ha bisogno di ricorrere a cose simili”, in quanto “tali idee sono assolutamente estranee al modo di fare britannico”[76]. In realtà la causa ottenne effetti di legittimazione della violenza, in quanto mostrò un sentimento di appoggio all’ufficiale in tutti i ceti sociali e radicò la violenza “necessaria” dell’Impero nei concetti di dovere, onore, nella difesa dell’Impero e di conseguenza della nazione.

L’insurrezione in Iraq inaugurò nuove tecniche di controinsurrezione, ovvero un nuovo livello di terrorismo. Arthur “bomber” Harris ne fu l’eroe. Dal 1920 fu messa a punto una tecnica di bombardamento areo indiscriminato che colpiva sistematicamente i villaggi isolati, più o meno indicati come “ribelli” dalla nascente intelligence imperiale. Si tratta della tattica della “violenza e terrore” dal cielo, come la chiamò un giovane Wiston Churchill. Attacchi continui, giorno e notte, con dardi aerei, gas, bombe al fosforo, razzi, bombe ritardate, semplici granate, e greggio per contaminare l’acqua.

Più o meno nello stesso anno prese avvio la “questione palestinese”, nella quale furono impiegati membri della ex polizia irlandese. Inizialmente l’Alto Commissario in Egitto promise sostegno ai palestinesi, ma Lloyd George, divenuto premier, cercò subito un accordo con i soli ebrei. Fu allora che Chaim Weizmann riuscì a far sembrare il frammentato mondo sionista come se fosse forza unitaria e decisiva, e quindi “la Palestina come focolare nazionale per il popolo ebraico”. Sarà questo il contesto della “Dichiarazione di Balfour”, che fu resa possibile dalla intermediazione di Wilson verso Lloyd George. La reazione dei nazionalisti arabi fu l’innesco dello scontro sul muro di Gerusalemme, che vide il nuovo ufficiale inglese, Duff, applicare la cultura dei “Black and Tanks”. Una violenza indiscriminata, tuttavia, ampiamente giustificata davanti alle critiche ricevute in patria. Sarà l’affermazione di Ben Gurion e l’assassinio del leader arabo Al-Qassam a portare lo scontro ad un livello insostenibile. Un livello di illegalità generalizzata da tutte le parti in conflitto, e da parte inglese. Vennero importate nuove tattiche di interrogatorio (direttamente dalla famigerata prigione “Cellular Jail” del Bengala. Charles Tagart creò centri di detenzione e tortura distribuiti e fuori vista ed un muro lungo 80 km. Nell’estate del 1938 la rivolta araba aumentò ed arrivò il mitico capitano Orde Wingate, il quale creò subito le “squadre speciali notturne”, che per i critici “puzzavano di Gestapo”.

 

Parte Seconda. L’impero in guerra.

La Seconda Guerra Mondiale fu il punto di svolta di tutte le tendenze. L’avvio fu disastroso, i Giapponesi, con irrisoria facilità, presero la “fortezza Singapore”, catturando 130.000 soldati inglesi e uccidendone 10.000. La necessità di mobilitazione portò i leader politici a fare promesse di liberazione generale che, nel dopoguerra, si ritorsero contro di loro. Chamberlain dichiarò che l’obiettivo della guerra era sconfiggere l’intera mentalità aggressiva e prepotente che cerca di dominare gli altri popoli con la forza. Lui pensava ai tedeschi e giapponesi, altri penseranno agli inglesi.

La guerra venne posta quindi in termini di evangelizzazione, in quanto “cristianesimo, civiltà occidentale, democrazia e stato di diritto” sono tutt’uno. Ancora, c’è chi ascoltate queste parole penserà ingenuamente che democrazia significa autodeterminazione.

La spinta essenziale che determinerà lo sdoganamento del tema dell’autodeterminazione e quindi della decolonizzazione, del resto ormai maturo, arrivò dagli Usa, e fu imperniato nella retorica che la coppia Roosevelt, marito presidente e moglie, promossero per ragioni geopolitiche non meno che ideali. Si trattava delle famose “quattro libertà essenziali”. Quella di parola, di religione, dal bisogno e dalla paura. Venne sbandierato l’ideale della “cooperazione di paesi liberi, che lavorano insieme per una società amichevole e civile, … la libertà significa la supremazia dei diritti umani ovunque”[77].

Tra i due alleati iniziò un fitto e complesso rapporto, che vide da una parte la determinazione americana a indebolire il ruolo della sterlina nel dopoguerra, per sostituirla con il dollaro, e quindi per essa l’impero commerciale e coloniale inglese (per cui, ad esempio, in cambio dell’indispensabile petrolio è pretesa la cessione di basi militari coloniali), mentre dagli inglesi la resistenza a tale ipotesi, per paura che la riduzione del loro impero comportasse l’ascesa di quello americano (come sarà).

Questo è il contesto della scrittura, imposta dagli americani e accettata dagli inglesi pensando in sostanza alla sua applicazione solo all’Europa occupata dai nazisti, della “Carta atlantica”. Venne pronunciata solennemente la promessa di rispettare il diritto di tutti i popoli e i relativi diritti sovrani e di autogoverno. Dunque, mentre l’Inghilterra aveva un disperato bisogno dell’aiuto americano per sopravvivere alla pressione tedesca, e quindi accettò di scambiare basi per petrolio, l’Accordo di Ottawa e la Carta Atlantica, gli americani puntavano, evidentemente, ad aprire i commerci (avendo l’economia più forte), e quindi eliminare la “preferenza imperiale”.

Questa fu la retorica, ormai visibile, che venne sfidata dal basso da una nuova generazione di intellettuali periferici, formati nelle università del centro, e dall’altro da Roosevelt, il quale dichiarò finita “l’età dell’imperialismo”. Simili dichiarazioni ottennero un effetto particolare sui movimenti di liberazione coloniale e i loro attivisti, come Padmore[78]. Da una parte aprirono speranza, dall’altra consigliarono una postura meno radicale e disperata; di attenuare il linguaggio di denuncia ed enfatizzare, piuttosto, il concetto di “autodeterminazione dei popoli” ed il suo nesso con il benessere. In altre parole, di tradurre le rivendicazioni nel linguaggio educato, e ‘civilizzato’, dei “diritti”.

Al momento agli alleati, però, per vincere l’Impero serviva l’India, la quale contribuì con 2.250.000 soldati, ma anche con una crescente industrializzazione di guerra. Per ottenerlo furono aperti negoziati con la Lega Mussulmana, da una parte, e il Congresso Indiano, dall’altra. Proprio in questo momento Gandhi lanciò una campagna di disobbedienza civile che sfuggì di mano ai proponenti e diventò molto rapidamente una rivolta di massa, subito repressa nel sangue dagli Inglesi; lo stesso Mahatma venne arrestato e rilasciato solo nel 1944, per paura che potesse morire in carcere, dove nel frattempo si era ammalato. Dall’altra parte della barricata troviamo in questi anni Bose che creò l’Ina, un esercito di oltre 300.000 combattenti indiani che lottò contro gli inglesi, appoggiato ed armato dai giapponesi.

Mentre il mondo era immerso nella guerra, emersero autori come Nnamdi Azikiwe, autore di un trattato sulla “Rinascita africana[79], Eric Williams “Capitalismo e schiavitù[80], Robert James, che scrisse “Giacobini neri[81], William Du Bois, con “Le anime del popolo nero[82], Aimé Cesaire “Discorso sul colonialismo[83], Franz Fanon “Pelle nera, maschere bianche[84] e “I dannati della terra[85], George Padmore. “The life and struggles of negro toilers[86], “How Britain Rules Africa[87], “Africa and world peace[88]. Insieme avviarono un complessivo ripensamento delle condizioni della loro soggezione, focalizzando “l’empia alleanza tra capitalismo, razzismo e colonialismo”[89]. Ovvero la doppia capacità del liberalismo di emancipare e insieme reprimere, di illuminare e nascondere alla vista. Essenzialmente offuscando e giustificando la violenza con la retorica della missione civilizzatrice. Cioè con la lettura dell’impero paradossalmente come libertà, se non subito almeno in fieri, e secondo la presunta capacità di portare la civiltà alle razze minori del mondo. Il dominio imperiale come azione di emancipazione e libertà che, per i suoi propagandisti, non si era affermato con una vera e propria violenza, in quanto si era semplicemente e naturalmente esteso in aree “vuote”. Questa idea che l’altro sia “vuoto”, e quindi disponibile ad accogliere il “pieno” portato dall’Occidente (casomai con mezzi coercitivi a fin di bene), è una delle più resistenti eredità del colonialismo anglosassone e della sua interpretazione della ‘civiltà occidentale’.

Reginald Coupland, autore di libri come “Zulku battle piece: Isandhalawana[90] e “India a re-statement[91], promosse, ad esempio, l’idea che l’impero manifestava l’equità, se non addirittura l’umiltà con la quale il fardello dell’uomo bianco era portato nel mondo, gratificando le razze minori del dono dell’umanità e civiltà. Insomma, per questa impostazione, l’essenza del dominio imperiale britannico risiedeva nell’espansione della libertà costituzionale, e, insieme, nello spiegamento del potere civilizzatore. Con il suo portato di lavoro libero (ovvero salariato) anziché schiavizzato, al libero scambio ed un sistema di governance e legislazione privo di quelle caratteristiche di dispotismo e barbarie che, invariabilmente, affliggevano da sempre le razze per questo “minori” del mondo.

Anche se talvolta senza questa precisione, questa è l’idea che permane anche oggi e si manifesta invariabilmente ogni qual volta qualche razza “minore”, o “bambina”, si oppone al buon padre che è incarnato nel magnanimo Occidente. Si tratta di quello che Gorge Orwell, da decenni fermo oppositore interno dell’imperialismo inglese, chiamava nel finire della sua vita “doppio pensiero”. Nel 1948 scrisse, quando ormai si arrese alla progressione della tubercolosi che lo ucciderà dopo sette mesi dalla pubblicazione, il suo romanzo più famoso, “1984”[92]. Il testo si può leggere, nel contesto della vita e degli orientamenti dell’autore, come denuncia dell’imperialismo inglese (anziché della dittatura comunista, come spesso è interpretato). Esso, infatti, esplora le conseguenze del totalitarismo e dell’imperialismo liberale, dove, come nella Oceania del libro, “la guerra è pace” e “la libertà è schiavitù”. Oggi l’aggredito è Israele (quando bombarda Gaza come l’Iran) e, contemporaneamente, è l’Ucraina (quando viene bombardata dalla Russia).

È il “Doppio pensiero, che implica la capacità di accogliere simultaneamente nella propria mente due opinioni tra loro contrastanti, accettandole entrambe. L’intellettuale di partito sa in che direzione vanno alterati i ricordi e dunque sa che sta facendo tiri mancini alla realtà, ma grazie al bipensare si persuade anche di non violarla”[93]. Si tratta di “usare l’inganno in modo consapevole”, evitando al contempo un “senso di falsità, dunque di colpa”. Qualcosa che è conscio ed inconscio allo stesso tempo e che richiede un lungo addestramento. Con le parole di Orwell nel romanzo, “dire intenzionalmente delle menzogne mentre ci si crede con sincerità, dimenticare un fatto divenuto ormai scomodo e poi, quando torna a essere necessario, recuperarlo dall’oblio per il tempo dovuto, negare l’esistenza della realtà oggettiva e nel contempo tener conto della realtà che si nega – tutto ciò è indispensabile e necessario”[94].

Il Doppio Pensiero di Orwell, tecnica al contempo appresa e incorporata, si manifesta, ad esempio, quando abbiamo un “aggressore” ed un “aggredito” quando a invadere al termine di dieci anni di scontri feroci sono i russi, ma non lo abbiamo quando sono i turchi o gli israeliani, contro siriani, o contro i libanesi e i sempre “vuoti” palestinesi. Quando i medesimi israeliani aggrediscono nella notte ed all’improvviso l’Iran. Ma, sapremo per certo che ancora li avremo quando qualcuno proverà a rispondere.

Tornando alla nostra storia, mentre in Palestina Begin avviò e combatté con metodi di guerriglia l’occupazione inglese, si realizzò un complesso braccio di ferro tra i ‘mandatari’ e i loro partner di oltre oceano. Nel tentativo di conservare l’equilibrio, infatti, gli Inglesi avrebbero voluto frenare il ritmo dell’immigrazione ebraica, ma gli americani spinsero perché accelerasse.

Questo fu il contesto nel quale si insediò il nuovo governo laburista dell’immediato dopoguerra, Attlee inizialmente sembrava voler rompere con il passato imperialista, ma quasi subito si accorse che le condizioni economiche disastrose della Gran Bretagna richiedevano anzi un inasprimento dell’estrazione di valore dalla periferia. Gli sbalorditivi costi della guerra rendevano necessario accedere costantemente a nuovi prestiti statunitensi che, per l’opinione pubblica d’oltre manica erano sempre più difficili da erogare. Questo fu il contesto drammatico del negoziato di Bretton Woods, nel quale i temi furono il ‘libero scambio’ richiesto dagli americani e il ruolo della sterlina, ancorato strettamente alla cosiddetta ‘preferenza imperiale’[95]. Infatti, alla fine della guerra circa la metà del commercio mondiale era negoziato in sterline, e queste rappresentavano l’80% delle riserve monetarie dei paesi del mondo. Al contempo, però, la potenza produttiva che poteva sostenere questo ruolo era ormai compromessa.

Secondo uno schema della situazione che ricorda molto da vicino quella odierna americana, in sostanza la Gran Bretagna non aveva alcuna alternativa, se voleva sopravvivere, di usare le politiche monetarie, insieme a scambi commerciali privilegiati, per trarre beneficio dall’impero (che, d’altra parte, determinava un enorme costo per tenere in piedi la struttura repressiva).

Quasi subito anche gli americani si accorsero che, nelle mutate condizioni del dopoguerra, in cui la guerra di Corea mostrava il livello della sfida rappresentata dai paesi comunisti, l’impero serviva anche a loro ai fini di contenimento. Quindi alla sterlina venne concesso di sopravvivere.

Nell’immediato dopoguerra si tennero i negoziati per l’emancipazione dell’India, ormai non più rinviabile, anche grazie alla presenza di centinaia di migliaia di ex soldati di ritorno, ma si cercò un accordo per tenerla comunque nel Commonwealth. Si realizzò una drammatica divaricazione tra mussulmani e indiani, che porterà ai due stati reciprocamente ostili sino ad oggi del Pakistan e dell’India. Passaggi chiave furono la morte di Bose in un incidente aereo, quella di Gandhi in un attentato, quasi subito dopo l’indipendenza, ed il processo agli ufficiali dell’Ina che vide una enorme mobilitazione militare indiana, la quale segnalò che il vaso era pieno. Seguì il “Great Calcutta killlig”, scontri etnici che portarono ad almeno 6.000 morti nel paese e diedero il via ad un esodo nelle due direzioni, per la separazione delle comunità religiose. Quel che accadde fu che i complessi metodi di coesistenza negoziati e consuetudinari tra indù e mussulmani, da secoli negli stessi territori, erano stati dissolti dall’occupazione inglese. Come accade in Palestina erano stati sostituiti da uno schermo di repressione che, quando sollevato, lasciò le comunità le une davanti alle altre. Il 15 agosto 1947 avvenne comunque il passaggio dei poteri, accompagnato da un enorme processo di distruzione dei documenti compromettenti.

In Palestina, appunto, nello stesso periodo, la cooperazione anglo-americana portò progressivamente a spostare l’equilibrio in favore ebraica. La potente influenza della lobby sionista sul governo americano, che la Elkins documenta in nomi e circostanze, forzò gli inglesi ad abbandonare gli arabi al loro destino. Si trattava di stare tra due martelli, quello ebraico era, però, più forte: i sionisti disponevano di 45.000 uomini in armi di cui almeno 9.000 ottimamente addestrati. Le forze dell’Yishuv attaccarono tutte le infrastrutture inglesi, ferrovie, installazioni petrolifere, caserme. Il governatore inglese, Bevin, rispose con la guerra. MacMichael avviò una violentissima campagna di coercizione terroristica, alla quale Begin replicò con la bomba che distrusse il King David Hotel di Gerusalemme.

Qui caddero, dopo la vicenda della Exodus, i pogrom a Tel Aviv, le squadre speciali inglesi, l’enorme massa di denaro che la Palestina inghiottì per tenerla sotto controllo, la Risoluzione 181 delle Nazioni Unite, che dichiarò la divisione in due stati indipendenti. Il 14 maggio 1948, mentre Orwell scriveva il suo ultimo libro, la Gran Bretagna uscì dal pantano palestinese. Immediatamente scoppiò la guerra tra arabi ed ebrei sionisti vinta dai secondi, 800.000 persone lasciarono il paese.

Altre tragedie si tennero in quegli anni in Costa d’avorio, dove gli attori furono Kwame Nkrumah e Robin ‘Occhio di stagno’ Stephens, reduce da un processo per le torture ai nazisti processati a Norimberga, e in Malesia.

Le elezioni del 1951 videro la sconfitta labourista e l’incrudirsi della crisi malese, nella quale vennero impiegati 30.000 uomini, proprio mentre la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e le Convenzioni di Ginevra imbarazzavano Colonial Office e Foreign Office. Qui Sir Gerald Templer mise in essere tutte le raffinate e brutali tecniche anti-insurrezione apprese in un secolo di dominio coloniale, ma questa volta furono mostrate in una serie di coraggiosi reportage di denuncia. Allora il Colonial Office decise di cambiare retorica, e inventò un bellissimo esempio di bipensiero: l’azione deve portare a conquistare “cuori e menti” e a “sviluppare la comunità”. A tal fine furono erogati fondi che portarono alla creazione dei “villaggi di Templer”, nei quali la tradizionale vita comunitaria malese, con la sua agricoltura di sussistenza inserita nella natura, venne forzosamente tradotta in più civilizzati grandi villaggi di centinaia o migliaia di persone, accuratamente sorvegliate e recintate. Un altro modo per riclassificare i campi di concentramento e le pratiche messe in essere contro gli afrikaneer alcuni decenni prima. Si tratta di ingegnerizzare uno stile di vita che riduca l’indipendenza di villaggio e faccia cessare il suo appoggio alla guerriglia.

Similmente in Kenia, dopo l’omicidio del leader locale Woruhin, nel 1952, una guerra civile e coloniale al tempo vide l’emersione del movimento dei MauMau (un giuramento) che incendiò il paese. Gli inglesi risposero di nuovo creando campi di prigionia di massa, con una precisa gerarchia basata sulla maggiore o minore affidabilità dei prigionieri e usando una forza legalizzata (ma illegale e coperta dall’amnistia di Churchill) contro quelli più radicali. Si trattava della “tecnica della diluizione”[96].

In questo modo, tra la difesa della grande missione civilizzatrice del mondo intero, la nuova religione del nazionalismo imperiale, la spinta statunitense alla liberalizzazione dei commerci e la conseguente minaccia alla sterlina, si arrivò alla “Crisi di Suez[97]. L’Inghilterra e la Francia invarono un corpo di spedizione per difendere il loro controllo del cruciale passaggio, ma questo avvenne proprio durante una crisi valutaria che impose di ricorrere, come sempre, a prestiti statunitensi. A questo punto Eisenhower salvò di nuovo alla sterlina, ma, questa volta, impose l’immediato ritiro dall’Egitto. Le conseguenze geopolitiche ed economiche furono enormi: divenne chiaro a tutti che le superpotenze erano ormai solo due, gli Stati Uniti e l’Urss, la centralità monetaria della sterlina e delle colonie non poteva più essere mantenuta. Questa fu la scena finale dell’Impero inglese, di qui si arrivò al discorso di Powell.

La staffetta passava in mani americane.

 

L’impero americano, il coronamento

Per raccontare sinteticamente la storia dell’impero americano, nel suo farsi, occorre prendere le mosse dai viaggi di Colombo, soprattutto del secondo viaggio la cui complessa organizzazione e l’alto costo (ben 17 navi) rese necessario garantire l’immediato profitto. Ovvero, chiaramente, aprire un canale di approvvigionamento di schiavi ed oro. Colombo tentò di adempiere al mandato, in un paese ricchissimo di risorse naturali ma non sviluppato in senso occidentale, soprattutto garantendo i primi. E quindi occupando militarmente Haiti, che venne selvaggiamente sfruttata e nella quale si attuò in poco meno di un secolo un vero e proprio assoluto sterminio. Una popolazione locale stimabile in 250.000 abitanti venne ridotta praticamente a zero, grazie ad uno spietato ipersfruttamento in piantagioni intensive. Su questa esperienza si formò la militanza antirazzista del più importante autore militante spagnolo del tempo, Bartolomé de Las Casas[98].

Ma il Nordamerica fu invaso specialmente dagli inglesi e nel secolo successivo. Inoltre, le popolazioni native, i first peoples, erano frammentate in centinaia di clan e alleanze federative, e potevano opporre una resistenza, se pure ostinata, tuttavia frammentata e discontinua. A fronte di questa debolezza, che faceva sembrare agli europei abituati a densità sociali e organizzative diverse il paese come vuoto e immenso, gli inglesi (ma anche i francesi) esercitarono quella che Howard Zinn chiama una specifica “perfidia e brutalità”, causata in ultima analisi da un impulso interno. Precisamente da “quell’impulso speciale e potente che sorge all’interno delle civiltà basate sulla proprietà privata”[99]. Una spinta che è fatta di bisogno di spazio e terra, che lo concepisce come libero e da possedere in modo esclusivo. Di qui la necessità, in una logica per i contemporanei evidente, di sottrarlo agli usi comunitari non riconoscibili come legittimi. E dunque scacciare ed uccidere chi pretendesse di affermarli.

Al momento della conquista e colonizzazione vivevano nelle Americhe 75 milioni di membri dei first peoples, di cui 25 nel Nord America, ma divisi qui in almeno 2000 lingue e dialetti e un centinaio di culture tribali principali (navajo, lakota, chippewa, cheyenne, apache, irochesi, le cinque nazioni mohawk, oneida, onodaga, cayouga e seneca del 1722, e via dicendo). Un’enorme varietà, dunque, alcuni costruivano villaggi e coltivavano il mais, con forme straordinariamente evolute e adattate di aridocultura e tecniche ingegneristiche di irrigazione perfettamente adatte allo scopo, altri avevano artigianati raffinati ed estesissime reti di scambio, oppure culture basate sull’abbondate pesca o caccia e in genere con sistemi sociali perfettamente egualitari, stabili e spesso con elevato livello di parità sessuale. Ma anche straordinarie capacità culturali, di argomentazione logica e retorica, raffinate capacità diplomatiche, come quelle messe in evidenza da David Graeber e David Wengrow nel loro L’alba di tutto.[100] Ad esempio, è descritta la straordinaria vicenda di Kondiaronk, stratega dei Wendat, una confederazione di quattro popoli irochesi che cercò all’inizio del Settecento di evitare che inglesi, francesi e la coalizione hanfenosaunee si unissero contro la sua. In prospettiva l’obiettivo del leader nativo era di organizzare una grande coalizione contro gli invasori[101]. Presumibilmente inviato come ambasciatore del suo popolo in Francia, si fece critico sia del cristianesimo sia della logica della trasposizione del potere sulle cose (la proprietà) in potere sugli uomini. I suoi arguti argomenti, secondo Graeber, influenzarono profondamente lo stesso dibattito europeo contemporaneo sulla ineguaglianza. Uno dei più specifici argomenti portati da Kondiaronk, e riportati in Dialogues curieux: entre l’auteur et un sauvage de bon sense qui a voyagé, del 1703, dell’aristocratico francese Louis-Armand de Lom d’Arce, fu che le leggi punitive di stampo europeo, e la stessa dottrina cristiana della punizione eterna, non sono rese necessarie dalla naturale cattiveria umana, ma da una forma di organizzazione sociale che incoraggia il comportamento egoista e l’avidità. Sono quindi le distinzioni tra “mio e tuo”, per usare le sue parole riportate nel libro, a rendere “disumana” la vita in Francia. Come dice, “affermo che quello che chiamate denaro è il diavolo dei diavoli; il tiranno dei francesi, la causa di tutti i mali; il flagello delle anime e il mattatoio dei vivi”[102]. Insomma, “un uomo motivato dall’interesse non può essere un uomo ragionevole”.

Questa critica indigena, ovvero dei pochi rappresentanti dei first peoples che riuscirono a farsi ascoltare e talvolta viaggiare, a partire dall’inizio del XVIII secolo, influenzò il dibattito sulla eguaglianza e come reazione le teorie evoluzionistiche, che invariabilmente, partono dallo ‘stato di natura’ egualitario. La domanda di come si possa trasformare il possesso, e quindi la ricchezza, in potere è anche al centro della riflessione di un avido lettore di diari di viaggio: Jean-Jacques Rousseau. Anche per lui la proprietà è la causa del problema dei mali della società, ma mentre per i first peoples la libertà presume una condivisione comunitaria dei beni, e quindi della sicurezza sociale, per gli europei resta legata alla proprietà e non può essere concepita alternativa. E quindi è indipendenza.

Mentre per i primi, al contrario, la libertà è figlia della interdipendenza in un contesto di reciproco riconoscimento e sostegno, socialmente indotto, per il nostro ed il pensiero illuminista europeo essa è figlia piuttosto del possesso incontestato e non limitato. E il possesso esclusivo resta connesso, sia pure in modo complesso e contraddittorio, con l’idea del progresso e dell’evoluzione (nel passaggio dallo ‘stato di natura’ dei first peoples, alla società). Si manifesta qui come ogni idea assume un posto e uno specifico significato in relazione ad una rete, ad una cosmologia e la traduzione dall’una all’altra comporta sempre mutazione.

 

Le prime colonie

Mentre tutti questi dibattiti e influenze erano ancora da venire, nel 1619 in Virginia, dove le prime colonie inglesi sopravvissero a stento alla crisi per fame del 1609-10, prese l’avvio un’economia protocoloniale fondata sulla necessità di coltivare i cereali da una parte ed il tabacco di esportazione, dall’altra. I coloni erano davanti ad un problema: pochi e per lo più di classe media (artigiani, piccoli ex proprietari) e non avevano attitudini e desiderio di coltivare personalmente la terra (attività dura e ingrata con i mezzi dell’epoca); d’altra parte non potevano mettere al lavoro i first peoples, culturalmente inadatti, abili a sottrarsi nei grandi spazi del continente, e anche militarmente forti. I virginiani trovarono la soluzione importando schiavi. Il bacino era relativamente vicino perché ai caraibi nel secolo precedente erano stati importati almeno 1 milione di neri dall’Africa per sostituire le popolazioni autoctone sterminate. Gli africani erano più adatti perché le culture africane erano in fondo simili a quelle europee. Nel continente, oggi tendiamo a non vederlo, influenzati da una storiografia razzista e colonialista sviluppata soprattutto nell’Ottocento, ma in Africa tra il 1500 ed il 1600 erano presenti grandi stati, imperi persino, grandi centri urbani e un consolidato e importante artigianato. Inoltre, vi veniva praticata un’agricoltura avanzata, che faceva uso di utensili di ferro, e impegnava oltre cento milioni di persone. Lo stesso traffico degli schiavi era in parte autoctono, e venne quindi facilmente canalizzato verso i porti di scambio in centro Africa da attori locali. La forma sociale locale si potrebbe descrivere, a grandissime linee, come una sorta di feudalesimo con consolidate gerarchie e strutture complesse, insediato in forme di vita tribali e talvolta comunitarie. Una società dove l’idea di proprietà privata era presente, ma non strutturava completamente il sociale e gli istituti repressivi erano temperati. In questa società, o meglio nell’enorme varietà delle società africane per lo più mancava quindi la febbre del profitto illimitato che un secolo dopo impressionerà Kondiaronk.

Una volta catturati, mischiati tra etnie diverse e separati gli uni dagli altri, gli africani erano quindi particolarmente adatti e, al contempo, particolarmente inermi. Strappati a una cultura consolidata tribale e comunitaria, con legami familiari allargati e costitutivi, venivano a trovarsi tra estranei, la cui lingua talvolta neppure capivano e portati in paesi lontanissimi. Nelle navi negriere erano scientemente separati e divisi, tenuti in condizioni inumane e alla fine venduti uno ad uno[103]. La tratta fu dominata prima dagli olandesi e poi dagli inglesi, nel pieno del fenomeno a Liverpool sostavano normalmente cento navi negriere. In circa due secoli, in questo modo vennero catturati e trasportati nelle Americhe del Nord da 10 a 15 milioni di neri, su 45 milioni che furono sottratti al continente. È impossibile non vedere il nesso tra questa immane sottrazione di persone e distruzione di comunità e l’interruzione dello sviluppo autoctono che il continente subì nell’età del colonialismo europeo. E sottovalutare l’enorme contributo di questo trasferimento di ricchezza e forza lavoro nella costruzione della superiorità economica e quindi militare (o militare e quindi economica) dell’Occidente.

Bisogna aprire una parentesi. La colonizzazione inglese del Nord America è diversa sia da quella spagnola del Sud e Centro America (e di parte del Nord), di cui abbiamo parlato prima, sia da quella francese dell’attuale Canada. Mentre le altre due nacquero da strutture statuali altamente organizzate e centralizzate, e furono sempre dipendenti fortemente dalla madre patria nelle loro strutture amministrative, la colonizzazione inglese nacque per ondate semispontanee di gruppi marginali e religiosi. La colonizzazione spagnola, che cominciò prima, di Nunez Cabeza de Vaca in California nel 1528-36, o Hermando de Soto in Florida nel 1539-41, e nelle aree degli attuali Arizona, Colorado, Nevada, New Mexico, Kansas, Oklahoma, era fondata su una precisa gerarchia sociale al centro della quale troviamo il 1-2% di popolazione spagnola, poi la popolazione “creola” (di sangue spagnolo, ma nata nel nuovo mondo) e in basso gli “indios”, trattati poco più che come schiavi. Nel XVII secolo alimentò questa espansione un’emigrazione di ca 250.000 unità (su 10 milioni di popolazione complessiva).

Invece quella inglese aveva numeri quasi doppi ma stentò a decollare fino a che, verso il 1630, le debolissime colonie virginiane, intorno a nuove compagnie commerciali videro l’attivazione di una robusta immigrazione dall’Inghilterra di gruppi che si sentivano perseguitati. Questo è il contesto della rivoluzione inglese e con essa si intrecciò. Nel 1629 si formò la Compagnia della baia del Massachussetts, che aveva l’obiettivo di favorire l’emigrazione di coloro che si sentivano perseguitati e volevano fondare una comunità all’altezza della propria fede religiosa[104]. Nel 1630 17 navi trasportarono oltre mille coloni, nei tredici anni successivi ne arrivarono 20.000. Per il tempo ed il luogo sono numeri significativi. Vennero fondate colonie come Boston o Charleston, Concord e Hartford.

 

La base sociale della colonizzazione inglese

Ma chi erano quelli che vennero? Ci aiuta un bel libro di Chistopher Hill, Il Mondo alla rovescia[105], il trentennio tra il 1620 ed il 1650 in Inghilterra fu caratterizzata da una tremenda crisi economica che esacerbò l’odio di classe e venne imputato al governo, all’istituzione di monopoli pubblici e alla pressione fiscale. Nelle elezioni dei due Parlamenti tenute nel 1640 molti ‘scamiciati’, organizzati in quello che all’epoca si identificava genericamente come il ‘Partito Popolare’ riuscirono ad eleggere molti candidati, contro le élite. Sull’orlo della guerra civile che scoppiò subito dopo tra il Re ed il Parlamento e prima della formazione della New Model Army di Cromwell, proliferarono continue eresie religiose, si formarono gruppi radicali, in alcuni casi (come i membri della “Famiglia dell’Amore”) in continuità con i fermenti cinquecesteschi. In tutti i primi anni del Seicento la rivolta contro la religione istituzionalizzata, i suoi simboli ed esponenti, fu crescente ad opera di sette come i “Puritani” ed altre. Quel che avvenne fu un processo di disgregazione dell’unità feudale tra l’uomo e i suoi ruoli e quindi i ‘padroni’. Nel 1569 un’inchiesta del governo calcolò in 13.000 gli “uomini senza padrone” e nel 1602 nella sola Londra in 30.000. Si trattava di vagabondi (la “canaglia”), ma anche membri delle sette protestanti, popolate di piccoli artigiani che non potevano inserirsi nelle Corporazioni ufficiali; apprendisti, che si sentivano eletti e, al contempo, liberi nel loro esclusivo rapporto con Dio. Poi abitanti delle campagne ma non ufficiali (una legge del 1589 impediva di costruire case a chi non avesse abbastanza terreno), che praticavano mestieri come fabbri, carbonai, tessitori, etc. ma saltuariamente e nelle fasi di richiesta della nascente struttura produttiva. Quindi commercianti itineranti, che contribuivano enormemente a portare le nuove idee in giro.

Come dice Hill:

“sotto alla superficiale stabilità dell’Inghilterra rurale, quella dei vasti campi aperti che colpiscono la vista, stava la brulicante mobilità degli abitanti della foresta, gli artigiani e gli operai edili itineranti, i disoccupati in cerca di lavoro, i suonatori e i giocolieri girovaghi, gli ambulanti e i ciarlatani, i vagabondi, i barboni; gente che si raggruppava soprattutto a Londra e nelle grandi città, ma che aveva basi ovunque una zona appena colonizzata riusciva a sfuggire al meccanismo delle parrocchie, o nello zone colonizzate da tempo in cui c’era bisogno di manodopera. Era in questo modo che venivano reclutati gli eserciti e gli equipaggi delle navi, era qui che si trovò una parte almeno dei coloni per l’Irlanda e il Nuovo Mondo, uomini disposti a correre qualunque rischio nella speranza di conquistarsi un pezzo di terra (e con essa lo status che ne derivava), speranza che non poteva avverarsi nella sovraffollata Inghilterra”[106].

Con questo materiale umano, il processo di colonizzazione fu in sostanza organizzato dalla Compagnia in un primo momento e poi da istituzioni create dai primi coloni. Un General Court, formato dai capifamiglia, determinava l’autorizzazione a insediarsi. Nel 1647 l’approvazione delle Law and Liberties, creò una prima fusione tra diritto inglese e istanze radicali religiose dei coloni. La crescita demografica fu imponente: da 250.000 abitanti all’inizio del Settecento si passò a 2,5 milioni in soli cinquanta anni. La gerarchia originaria era a tre strati: i diretti successori dei primi fondatori al centro, religiosi, commercianti o proprietari terrieri; in mezzo artigiani e piccoli proprietari; in basso i lavoratori salariati, spesso appena arrivati. Poi c’erano sono gli schiavi.

 

Dividere e gestire

Insomma, in una società in crescita, ma isolata e immersa in enormi spazi e circondata da nemici attuali o potenziali, dipendente da lavoratori sradicati e tenuti in condizioni disumane di sfruttamento e minaccia, era essenziale dividere. Ovvero impedire che i subalterni (fossero essi ‘bianchi’, ‘neri’ o ‘rossi) si potessero percepire come simili e diversi dai dominanti, che erano strutturalmente minoranza. Oltre all’influenza della secolare cultura europea (gerarchica e fondata su un concetto di premio e punizione inscritto nella storia della fusione del cristianesimo paolino con la cultura romana[107]), costituì strumento di questa tecnologia del dominio, la coltivazione della barriera razziale. Specifiche leggi cercarono sempre di frenare la tendenza degli schiavi appena arrivati di sottrarsi e formare villaggi di maroons[108], tanto più quando minacciavano di unirsi a servi bianchi e indiani. Venne messo a punto un sistema di controllo capillare, sottile e crudele, sia a livello fisico (con tremende repressioni e punizioni, individuali e collettive) e psicologico. L’incubo che dominava le élite, e lo farà per tutta la storia americana, era semplicemente che i bianchi poveri si potessero unire ai neri (ed ai first peoples) contro i ricchi.

Nel 1676 in Virginia ci fu un caso di questo genere. La “insurrezione di Bacon”, che venne repressa con grande dispiego di uomini e mezzi, e punita in modo spietato. Bianchi poveri e neri non potevano mai agire insieme. Bacon, che organizzava bande armate per uccidere gli indiani, ai quali sottrarre la terra, venne arrestato dagli inglesi ma liberato dalla folla (nel contesto coloniale erano spesso gli immigrati poveri, affamati di terra di proprietà e disperati, a promuovere autonomamente la spinta per il genocidio dei first peoples. Talvolta il governo coloniale agiva da freno, sulla base di equilibri superiori). Allora scrisse la “Dichiarazione del popolo”, che esprimeva al contempo odio per i first peoples e risentimento per i ricchi. Di qui si mosse una feroce repressione.

Riassumendo, la catena dell’oppressione in Virginia, nella quale all’epoca vivevano 40.000 coloni, era alla metà del Seicento e nel Settecento la seguente: “gli indiani erano depredati dai bianchi della frontiera, che erano tassati dalle élites di Jamestown, e l’intera colonia era sfruttata dall’Inghilterra, la quale comprava il tabacco dei coloni fissandone il prezzo e ricavando centomila sterline l’anno per il Re”[109]. Nacque in questo contesto, sulla base delle protoideologie egualitarie importate dall’Inghilterra (“livellatori”, “diggers”, “seekers”, “ranters”, quaccheri) nel contesto della gloriosa rivoluzione della metà del Seicento[110] quella imponente immigrazione che vide i poveri andare oltremare sulla base di un contratto di servitù che durava da cinque a sette anni (e non era sempre rispettato). Poveri, già sradicati e pericolosi in patria, talvolta ex militari, che ovviamente rappresentavano una minaccia. Dopo la metà del Seicento ne fecero parte anche sbandati della “gloriosa rivoluzione”, talvolta con esperienza nella New Model Army, che vennero trasportati sulle stesse navi negriere, a volte in condizioni quasi analoghe, vennero comprati e venduti e sottoposti ad abusi, ma reagirono in modo individuale. Fuggendo o ribellandosi. Quando potevano andando all’Ovest a caccia di indiani e di terra.

Questa è la scena originaria nella quale si formarono le divisioni di classe, genere, razza e cultura le quali strutturano fino ad oggi la società americana. In Virginia nel 1700 le famiglie abbienti principali erano ormai 50, e vivevano in grandi piantagioni per l’esportazione del lavoro di schiavi neri, servi bianchi e sorveglianti intermedi. Vennero allora scritte costituzioni schiaviste (quella del North e South Carolina da John Locke), che istituirono e consolidarono una nuova aristocrazia di tipo pseudo-feudale, nella quale alla fine 8 famiglie avevano il 40% del terreno e solo un esponente di queste aveva il diritto ad essere nominato Governatore. Non diversamente avvenne a New York ed a Boston, dove nel 1687 50 individui possedevano il 25% della ricchezza, ma nel 1770 ormai ne avevano il 40% e il 30% della popolazione maschile adulta e bianca non aveva nulla.

Nel 1700 gli schiavi erano l’8% della popolazione, nel 1770 diventarono al Sud il 21%, ma gli abitanti generali, nel frattempo, erano esplosi (sia per crescita demografica autoctona, sia per immigrazione).

In questo contesto gli scontri sociali si susseguirono, e resteranno alti in pratica per due secoli.

 

La “rivoluzione americana”

La crisi “rivoluzionaria”[111] utilizzò questa energia, ma essa fu canalizzata e sfruttata dalle élite. Élite che alla fine avevano concluso, sulla base dell’esperienza, che i first peoples non servivano a nulla, i negri erano docili e redditivi e i poveri bianchi invece pericolosi. Dunque, i burocrati coloniali li spingevano verso la frontiera (contro i first peoples) previa assegnazione a imprenditori concessionari. La meccanica era semplice e consolidata: le élite politiche definivano nuove concessioni reali nei terreni “vuoti” della “frontiera”; queste erano acquisite con anticipazioni dal sistema finanziario del Nord ed assegnate a imprenditori che le spezzettavano e rivendevano ai poveri appena arrivati; questi organizzavano carovane verso l’Ovest per prenderne possesso, ovviamente uccidendo i first peoples presenti. Quando andava male arrivava l’esercito.

Come è riassunto in un testo dell’epoca, bisogna “che gli indiani e i neri siano di freno gli uni agli altri, per evitare che dato il loro numero ampiamente superiore, veniamo schiacciati, dai primi o dai secondi”[112]. Anche se talvolta andava male, nell’insieme la cosa funzionava bene; da Bacon all’epoca rivoluzionaria si registrarono 18 sollevazioni, 6 rivolte di neri e 40 altre sommosse minori. Il razzismo fu in questo contesto un potente strumento pratico al fine di rendere possibile questa separazione e controllo. Un altro meccanismo fu la deviazione dell’energia contro un altro nemico esterno: l’Inghilterra.

Nel 1776 alcuni personaggi eminenti crearono quindi una nuova nazione su un’idea geniale nella sua semplicità: un sistema di controllo nazionale capace di unire paternalismo a comando. Venne in tal modo diretta la furia, che nasceva da lotte di classe non completamente consapevoli (a loro volta connesse, come abbiamo visto, con le tradizioni importate dall’Inghilterra seicentesca) contro le élite giuste (e non contro di loro). Peraltro, ci furono sempre molte rivoluzioni dentro la rivoluzione[113], tra questa quella dei “Regolatori” di Ethan Allen che in alcune contee godettero dell’appoggio di 6 persone su 7. La repressione dei “regolatori”, dove avvenne, determinò un sostanziale disinteresse alla lotta contro gli inglesi, che venne condotta soprattutto dalle classi medie (la “umanità di medio rango” di Colden) che furono cooptate al Nord agli interessi del grande commercio e della intermediazione finanziaria e fondiaria. I membri dell’associazione “Sons of Liberty”, ad esempio, oltre ad essere di Boston, erano tutti delle classi medie e superiori; le classi povere faticavano a farsi coinvolgere in quelle che alla fine gli sembrava (e giustamente) una guerra tra ricchi.

Sarà un politico di grande talento, e capacità populista, come Patrick Henry, a trovare le parole giuste grazie ad uno stile intenzionalmente semplice e trascurato, lunghe pause, un tono emotivo al contempo preciso e vago. Grazie all’azione di questa coalizione, alla quale partecipò anche Thomas Paine, con il suo Common sense, del 1776, e la retorica di Thomas Jefferson, alla fine “livellatori” e “zappatori” furono marginalizzati ed estromessi dalla rivoluzione. Durante la guerra i poveri vennero in sostanza incorporati nell’esercito, e nella sua promessa di avanzamento sociale, e le terre espropriate ai “lealisti” furono intelligentemente utilizzate per creare una classe media cuscinetto, politicamente fedele al Congresso Continentale. Emersero figure come George Washington (l’uomo più ricco d’America, grandissimo proprietario terriero e di schiavi), un ricco mercante bostoniano come Hancock, un agiato stampatore come Franklin (quel che più si avvicinava nelle condizioni del tempo ad un intellettuale). Finita la guerra vennero regolati i conti con i first peoples.

Il modello che si affermò, qui non è il caso di ripetere tutta la storia, fu imposto nei dibattiti che seguirono tra le élite (Hamilton, Madison) sulla base di un accordo di fondo per il controllo di classe della situazione. E sulla base di un’alleanza sociale che vedeva favorevoli circa un terzo di piccoli proprietari ed artigiani i quali fondamentalmente volevano essere protetti dalla concorrenza inglese. Questa è la scena che portò in seguito al redde rationem della guerra civile.

 

Guerre di conquista e regolamento di conti

Ma prima ci fu l’affermazione del “destino manifesto” a espandersi che portò alla guerra con il Messico del 1846, provocata con una scusa. Ci fu in tal caso un serrato dibattito, nel quale Lincoln, non ancora deputato, si dichiarò favorevole e Thoureau contrario, come molti lavoratori.

In questo dibattito il senatore Johnson, mettendo a punto una retorica da allora sempre praticata, si trovò a dire:

“verremmo meno alla nostra nobile missione se rifiutassimo di perseguire gli alti fini che ci indirizza la saggia Provvidenza. La guerra è foriera di mali, e in ogni epoca ha dispensato morte e distruzione in grande quantità; eppure, per quanto ciò appaia imperscrutabile, l’Onnisciente Dispensatore degli eventi l’ha resa al tempo stesso lo strumento per realizzare il grande obiettivo dell’elevazione e della felicità dell’uomo. È alla luce di ciò che io aderisco alla dottrina del ‘destino manifesto’”[114].

L’esercito americano, per la metà formato da immigrati recentissimi irlandesi e tedeschi che erano interessati solo al soldo, combatté e vinse alla fine una guerra molto impopolare per entrambe le parti e condotta su grandi spazi. Nel 1848 il Messico, occupata la capitale, capitolò e perse metà del paese.

Nel Sud il sistema era invece imperniato sulla piantagione, e una struttura che potrebbe essere descritta come aristocratica (che esprime nei primi decenni praticamente l’intera classe politica) che continuava a crescere sulla base del lavoro schiavistico, il quale letteralmente macinava vite. In una indagine che ci è rimasta si legge che in una piantagione nel tempo su 32 schiavi, solo 4 raggiungeranno i 60 anni, 4 i cinquanta, 7 moriranno entro i 40 e gli altri prima, ben 9 a 5 anni (evidentemente i bambini di età inferiore neppure venivano registrati, e probabilmente quella era l’età nella quale venivano messi al lavoro). In queste condizioni erano frequenti piani clandestini per ribellarsi ed uccidere i bianchi, o fuggire. Temendo l’unione con i bianchi poveri la risposta fu di assumerli come sorveglianti, in secondo luogo imponendo una religione particolarmente adatta a spostare sull’altro mondo i desideri. Su questa base si affermò il modello di Lincoln, che, inaugurando anche qui una tradizione, si presentava come rivoluzionario ma si appoggiava sul mondo degli affari, vestendo di abiti umanitari un mix di ricchissimi e ceti medi del Nord come propria base sociale ed elettorale.

Lo scontro di interesse tra un Sud agricolo e dedito all’esportazione, ed un Nord finanziario e proto-industriale, che attraeva immigrati europei e temeva la concorrenza inglese, determinò infine la guerra civile che mobilitò molte speranze nelle popolazioni marginali, chiamate a sostenere lo sforzo bellico. Speranze puntualmente tradite nel dopoguerra, quando le terre furono restituite ai bianchi ricchi (anche del Nord). Superando quindi la breve stagione di Grant che vide un piccolo insediamento di deputati neri, e apertura delle scuole, che ma terminò negli anni Settanta, durando meno di un decennio. Una nuova coalizione tra industriali del Nord e uomini di affari del Sud inaugurò allora l’era del carbone e dell’energia.

Questo clima di speranze deluse, è quello nel quale prese la parola una nuova intellettualità che si era formata nelle scuole aperte ai neri e trovò in persone come W.E.B. Du Bois[115] i propri leader. Queste sono le condizioni nella quali, dopo la repressione del movimento della valle dell’Hudson, politici “progressisti” come Andrew Jackson padroneggiarono la retorica liberale e gli atteggiamenti populisti sulla base di una ben calibrata politica dell’ambiguità che, in sostanza, però continuava ad appoggiarsi sugli strati intermedi di commercianti ed impiegati (in crescita), verso una classe lavoratrice che fu tenuta costantemente in condizioni di frammentazione ed impotenza. Cominciarono a nascere, insieme ad una società più urbanizzata, nuovi fermenti come le prime forme di organizzazione femminile e il Movimento delle otto ore. Cosa che non impedì, nella crisi del 1873, l’emergere di un nuovo e più aggressivo capitalismo dei Carnegie e Rockfeller: i “Robber barons”.

Quando partì la ripresa che farà ancora più grande e potente gli Stati Uniti, la gestione delle tensioni crescenti avvenne sulla base di quello che Zinn chiama un “terrazzamento sociale”, nel quale la remunerazione e il grado di sfruttamento seguiva il colore (e l’epoca di immigrazione). Seguì la meccanizzazione crescente dell’agricoltura e quindi lo spostamento della forza lavoro sull’industria e la crescita della popolazione. Ma anche l’infrastrutturazione del territorio, soprattutto ad opera delle ferrovie di Carnegie e la rete crescente di interdipendenza finanziaria.

 

Contromovimenti

Theodore Roosevelt venne eletto in un paese nel quale si susseguivano gli scioperi ed il Movimento per i lavoratori di Eugene Debs acquistava sempre più forza. Un paese nel quale si avviò anche l’Alleanza degli agricoltori in Texas, dalla quale nacque il movimento populista. Il Partito del popolo unì, in una breve e piena di energia stagione, repubblicani del Nord, democratici nel Sud, operai urbani e agricoltori neri e bianchi. Si trattava di uno strano partito, radicale e interraziale che venne aggredito dalle retoriche delle élite anche sotto questo profilo per inserire un cuneo tra bianchi e neri, operai ed agricoltori. Fino a che durò cerca, tuttavia, di creare una cultura indipendente; venne creato in Servizio Conferenze che arrivò ad avere 35.000 conferenzieri professionali, un enorme numero di riviste e opuscoli a stampa che si occupavano di economia, teoria politica, legge e governo, etc. una sola rivista, la “National Economist”, aveva 100.000 lettori. Il movimento fallì alla fine perché non riuscì mai di farsi carico di interessi che erano potenzialmente divergenti e dirigerli, non riuscì ad unire stabilmente neri e bianchi, e venne attratto e assorbito dalla politica elettorale. In sostanza progressivamente, candidato dopo candidato e leader dopo leader, venne assorbito e neutralizzato nel Partito Democratico.

Questa è una lezione di lungo periodo, un movimento populista nasce sempre da una divaricazione tra élite e interessi diffusi, può ascendere velocemente se utilizza una calibrata retorica ambigua, volta a tenere insieme il diverso e l’opposto. O, con una formula di Laclau[116], da parte di formule “vuote” e colonizzabili dalle soggettività date. Un termine come “onesto”, ad esempio, può in base alle esperienze di vita, agli interessi e sottofondi culturali di ognuno, assumere diverso significato senza essere per questo tematizzato. O, parimenti, un termine come “libertà”. Si tratta di una tecnica potente, ma dal populismo americano, a movimenti recenti come Podemos e lo stesso Movimento 5 Stelle, è soggetto alla disgregazione per le medesime vie se non riesce a fare del “popolo” che ha aggregato sulla base della “produzione discorsiva del vuoto”[117], un ‘blocco sociale’ politico.

Continuando il suo racconto Howard Zinn ci mostra come ci sia sempre stato un nesso anche tra la chiusura della frontiera (così decisiva per la stabilizzazione sociopolitica della società americana attraversata da tensioni di crescita pericolose) e la proiezione estera. Secondo le sue parole, “il sistema del profitto, con la sua naturale tendenza all’espansione, comincia a volgere lo sguardo all’esterno”[118]. La depressione del 1893 fece nascere l’idea nel sistema industriale e finanziario che la vendita all’estero poteva risolvere il sottoconsumo interno (senza obbligare ad alzare i salari e quindi ridurre i profitti), prevenendo anche il conflitto di classe. In sostanza si spostò all’esterno la tendenza a trovare un nemico e un inferiore al quale rivolgere il proprio risentimento. Come disse sinteticamente Theodore Roosevelt, “questo paese ha bisogno di una guerra”, ovviamente verso le razze “inferiori”.

Ovvero verso paesi che non sanno governarsi da soli e ‘hanno bisogno di aiuto’; in sostanza una riaffermazione, fuori del continente, della dottrina del “destino manifesto”. A farne le spese inizialmente furono le Filippine che in tre anni di guerra aspra e violentissima furono occupate e piegate, passando dal dominio spagnolo a quello americano.

Ma eravamo anche negli anni apicali della sfida socialista, quando autori famosi come Mark Twain, Upton Sinclair, Jack London, Theodore Dreiser, Frank Norris, promossero l’idea e, d’altra parte, si affermò il taylorismo che puntava a disinnescare la forza degli operai nelle fabbriche. I sindacati assumevano sempre maggiore forza, ma anche qui si lavorò per separare lavoratori bianchi e neri. Scriverà Du Bois, “il risultato finale di tutto questo è stato convincere il nero americano che il suo nemico peggiore non è il padrone che lo rapina, ma il lavoratore bianco suo collega”[119]. Si affermarono anche organizzazioni operaie molto radicali ed efficaci, come i IWW (o “Wobblies”), i quali propugnavano un’azione diretta, senza divisioni di sesso o razza, e puntavano allo sciopero generale che espropri gli imprenditori. Un’idea basata su una forma di anarco-sindacalismo, anche se minoritario (forse diecimila militanti al massimo), ma determinato e coraggioso. Ad un certo punto i socialisti di Debs furono spinti dal loro successo a prendere le distanze dai Wobblies, i cui metodi spesso violenti, li rendevano un facile bersaglio. Non servì, perché nelle condizioni della Prima Guerra Mondiale furono repressi insieme.

Nacque in risposta a queste tensioni una sorta di capitalismo politico che attenuava e sopiva, che concedeva, ma per tutelare meglio gli interessi a lungo termine della classe capitalista, operando per i suoi interessi generali e prospettici, più che per quelli della singola fabbrica o industriale. Lo scopo, dice Zinn, era molto semplice e chiaro: tenere a bada il socialismo.

 

Guerre

Ma la lotta al socialismo non fu condotta solo dai politici dell’era progressista, un altro modo fu il solito classico: la guerra. In un momento di necessità arrivò infatti a salvare la situazione la Prima Guerra Mondiale, proprio durante la pericolosa recessione del 1914. Du Bois lo vedrà in modo semplice: il capitalismo aveva bisogno di rivalità internazionale per creare una comunità artificiale tra ricchi e poveri. In realtà è un effetto secondario gradito, la crisi economica inasprì lo scontro tra capitali che si rifugiarono sotto la protezione nazionale, e lo trasformò in scontro tra sistemi di capitali nazionali e quindi nazioni. Scontro per gli “Imperi”, e quindi la proiezione protetta di capitali e aree commerciali, e scontro per regolare i debiti[120].

Fatto sta che la guerra consentì anche di regolare i conti interni. Il Presidente Wilson fece arrestare Debs per tutta la guerra e annientare i IWW, arrestati e processati in massa. Seguiranno le misure contro l’immigrazione dal Sud e dall’esterno, con la parziale incorporazione della forza lavoro nera nelle fabbriche del Nord e dopo il crollo del ’29 la rivolta dei reduci, il New Deal, la TVA e l’inquadramento dei sindacati[121]. Il dopoguerra wilsoniano fu anche l’epoca della retorica anticoloniale (che, in realtà, era rivolta contro le colonie tedesche e solo quelle), promossa da un paese che, ricorda Zinn, tra il solo 1900 e 1933 era intervenuto a Cuba 4 volte, in Nicaragua 2 volte, a Panama 6 volte, Guatemala 1 volta, Honduras ben 7 volte.

La Seconda Guerra venne combattuta contro il nazifascismo, anche se durante l’intero periodo intermedio la preoccupazione di tutte le potenze Occidentali era piuttosto di fermare il comunismo. Lo dimostra l’atteggiamento nella Guerra di Spagna e comunque quello verso le potenze dell’Asse, solo con molta riluttanza designate come nemici. Questo, sia detto tra parentesi, fornisce uno sfondo anche alle esitazioni di Chamberlain, che vedeva il nemico a Mosca, non a Berlino. La guerra si combatté comunque con la solida determinazione, distruzione sistematica delle città inclusa, e risolse anche problemi sociali interni. Alla fine, servì, e quindi venne stabilizzata nella cosiddetta “Guerra fredda” (questa volta contro l’avversario giusto).

 

Rivolte e muri di gomma

Seguiranno la rivoluzione cinese, la guerra di Corea, le lotte per la decolonizzazione fino agli anni Sessanta inoltrati. Sul fronte interno, la mobilitazione connessa con il riarmo, la crociata di Mc Carty e la dottrina del “pericolo evidente ed immediato”, la crescita del budget militare da 12 Mld nel 1950 a 45 nel 1960, fino a 80 nel 1970. Ormai negli anni Cinquanta e Sessanta il paese visse una sorta di economia di guerra permanente e si sentiva ormai sotto saldo controllo da parte delle sue élite. Ma, durante gli anni tra la metà dei Sessanta ed i Sessanta avvenne anche un’inattesa esplosione sociale e politica. Iniziarono i neri, con le rivolte a Montgomery e l’emergere di grandi leader come King e Malcom X, tutti uccisi ovviamente non appena si radicalizzarono (Martin Luther King morì non appena cominciò a parlare contro la guerra del Vietnam e la povertà, Malcom quando iniziò a capire il marxismo). Dopo la Grande marcia del 1963 Kennedy cercò di riassorbire il movimento nella “Coalizione democratica”, come a suo tempo fatto con successo con il Partito Populista. In sostanza riuscì, ma per un poco ci furono movimenti divergenti, come quello di Huey Newton e le Black Panther, i cui leader furono assassinati in modo specifico e mirato. Oppure la League of Revolutionary Black Workers. Emerse quindi il grande movimento pacifista contro la Guerra del Vietnam (una guerra coloniale nella quale gli Stati Uniti avevano preso il posto dei francesi) nella quale furono impiegate sette milioni di tonnellate di bombe (il doppio della Seconda guerra mondiale), e l’azione di grandi personaggi come Muhamad Alì. L’apice della protesta si ebbe nel 1970, prima del ritiro americano nel 1975. Ci saranno anche molte altre mobilitazioni di diversi settori della società americana: le donne, i first peoples[122], le lotte nelle carceri nelle quali troverà la morte George Jackson. Una generale rivolta contro “modi di vivere oppressivi ed artificiosi”, che si espresse in tutto: dall’abbigliamento alla musica (con autori come Bob Dylan e Joan Baez, tra gli altri). Cominciò a declinare la fiducia diffusa nel governo. Ne furono segno giurie popolari sempre più ribelli, che assolsero Angela Davis e altri membri delle Black Panther. Il momento più basso si ebbe con la crisi per le dimissioni di Nixon, che, tuttavia, furono, al contempo una deviazione di attenzione.

 

La controffensiva

Di qui partirà la controffensiva neoliberale. Avremo la Commissione Trilaterale con Huntington, la destabilizzazione del Cile, la controffensiva in America Latina e ovunque possibile, il tentativo di riconquista e riassorbimento attraverso una sorta di “populismo dall’alto”. Per la terza volta, dopo “l’era progressista” e la “nuova frontiera”, si giocò la carta di un membro ricchissimo dell’establishment che si vestì da uomo del popolo come fece l’aristocratico Patrick Henry nel 1700. Toccò allora ad un ricchissimo imprenditore di arachidi del Sud, Jimmy Carter, vestirsi da contadino e costruire un richiamo populista. Secondo Zinn, fu scelto per il ruolo da Rockfeller e Brzezinsky; comunque introdusse un pacchetto sofisticato di apparenti riforme e potenziamento delle spese militari. Seguirà il cambio di cavallo rappresentato da Reagan, che fece crescere ulteriormente il divario nella società americana e assistette all’inizio della disgregazione dell’Urss, cosa che gli consentì maggiore spazio di manovra per avventure come l’interferenza con i Sandinisti in Nicaragua, l’invasione di Grenada, l’uccisione di Oscar Romero in San Salvador, e poi, con il successore ed ex presidente Bush la prima guerra in Iraq (un vecchio e fedele alleato mediorientale, fattosi ingombrante).

Poi verrà Clinton con la sua retorica progressista e sostanza conservatrice, le sue contraddizioni, la sua svolta decisa verso l’internazionalizzazione dei capitali, la “terza via” e la riforma del welfare, l’eliminazione dei sussidi, la lotta neoliberale allo “Stato interventista” e poi, la Somalia, il Nafta, gli attacchi alla Jugoslavia al momento della dissoluzione sovietica. L’avvio della spinta ad Est della Nato, Seattle. Verrà allora Bush Junior, con l’elezione rubata, l’11 settembre e la “Guerra al terrorismo”, le nuove avventure militari e i “Neocon”, l’Afghanistan. Tutti i fallimenti che fanno parte del declino americano di questi tempi[123].

 

Le tecniche, dividere e nascondere

Al di là di ogni valutazione il punto è che il sistema americano riesce sempre a esercitare il più ferreo controllo dividendo e incorporando, distribuendo qualcosa a quanto basta per avere uno scudo e impedire che si sommino troppe forze ostili. Mette sempre gli uni contro gli altri, i piccoli proprietari contro chi non ha nulla, i neri contro i bianchi, i nati in America contro gli immigrati, i vecchi immigrati contro i nuovi, i professionisti contro i non istruiti, le città contro le campagne, il Nord contro il Sud, l’Est contro l’Ovest, i giovani contro gli altri e tutte le minoranze contro tutte (una delle ultime tecniche[124]). L’importante è che non si veda la frattura principale, tra chi ha troppo e chi non ha niente.

Un esempio di questa attitudine dell’establishment anglosassone (e americano in primis) di cogliere ogni opportunità per silenziare e neutralizzare le sfide sistemiche, sostituendole se del caso con meno pericoloso ribellismo individuale, in particolare estetico, è rintracciabile nella trasformazione del Movimento dei diritti civili, che tanta preoccupazione fece prendere negli anni Sessanta all’FBI, in un movimento molto meno solido di risegregazione identitaria. Giovani avvocati come Derrick Bell si convinsero che le lotte contro la segregazione erano state in fondo utili al potere. E che, con le sue parole, “il razzismo è una parte integrante, permanente e indistruttibile di questa società [americana]”[125]. Nel contesto della disillusione post-moderna verso le “grandi narrazioni” e il correlato “universalismo illuminista” (anche, se non soprattutto, della tradizione marxista che era il vero bersaglio[126]), la nuova strategia non era essere tutti eguali, ma tutti diversi. Creare diritti differenziati che favorissero alcuni gruppi svantaggiati, risarcendoli sul piano simbolico e spesso linguistico. Questa idea si contaminò con quella di “intersezionalità”, promossa da Kimberlé Crenshaw, con la sua “Teoria critica della razza”. L’idea, apparentemente plausibile, è che ogni individuo si forma all’incrocio di diversi attributi, secondo un’individuale ed irripetibile costellazione di identità, come proposto da Donna Haraway. Estremizzando e pervertendo questo concetto in chiave individualista una donna nera, o un omosessuale latinoamericano (è ovviamente irrilevante se ricco o povero), non possono essere capiti se non da altre donne nere e omosessuali latinoamericani. Non sfugge che secondo questa strana logica ogni mobilitazione generale è impossibile, e soprattutto lo sono quelle per ragioni economiche. Non per caso queste teorie nascono nelle più ricche università americane, da persone certamente non di classe popolare. Secondo la sintesi di un anziano Edward Said[127], questa idea portante, che la vittimizzazione di gruppi identitari fornisca un qualche accesso privilegiato alla virtù, non garantisce l’umanità, “attestare una storia di oppressione è necessario ma non sufficiente, fino a che quella storia non è ricodificata nel processo intellettuale e universalizzata per includervi tutti i sofferenti”[128]. In altri termini, fino a che non è inserita nel contesto della produzione sociale dell’oppressione che altri vivono, se pure diversamente, e in un progetto di riscatto che li coinvolga. O, per dirlo in altro modo, “nonostante quanto pensano Lyotard e i suoli accoliti, ci troviamo ancora in una periodo di grandi narrazioni, di drammatici scontri culturali e di spaventose guerre”, le cose vanno quindi collocate “nel più ampio contesto” e non solo dipendere “da una professionalità tecnica o dalla stantia ‘giocosità’ della critica postmoderna, con il suo altezzoso spregio per qualsiasi consa che non sia gioco locale o pastiche”[129]. L’autore palestinese, che tanta parte ebbe nella formazione del paradigma, in questi ultimi scritti protesta contro quella particolare “pedagogia dell’apartheid” ed esaltazione del particolarismo, che impedisce in radice che “un maggior numero di persone possa beneficiare dei vantaggi per secoli negati alle vittime delle discriminazioni di razza, classe e genere”.

Grazie a trucchi simili, trovati con istinto sicuro, alla fine l’America riesce sempre ad indicare una bella casa amena su una collina, mentre all’ombra di questa distrugge e tortura, schiavizza e incarcera, bombarda tutti e sempre (ma in modo “intelligente”), dichiarandosi sistematicamente ogni vota aggredita[130]; obbliga tutti a regole che lui stesso non rispetta e cambia ogni volta vuole[131]; fa e disfa alleanze; designa nemici esistenziali e “nuovi Hitler” con i quali fa patti prima, combatte in mezzo e li rifà dopo[132]. Tradisce gli amici, ogni volta possibile. Tradisce soprattutto gli amici, perché li considera inferiori. Si comporta da impero, ma sempre, attentamente, “riluttante”. Obbligato, malgrado la propria modesta inclinazione, da un “destino manifesto” che non ha scelto. Che gli viene da Dio.

 

Conclusione, lo spirito premoderno di un paese di frontiera

Ciò accade, perché si tratta di una nazione imperiale che è nata sulla spinta delle componenti più disperate e radicali della rivolta religiosa seicentesca, innestando sul giano bifronte del liberalismo che abbiamo visto parlando del libro della Elkins sull’eredità di violenza dell’Impero britannico[133]. Una nazione imperiale che ha un tono veterotestamentario. Qualcosa che, leggendo Taubes[134] può essere riconosciuto come radicalmente antipaolino. Riporta l’universalismo, conformemente ad una postura anglosassone implicita, al nomos ed all’ethos, alla Gerusalemme ed al popolo eletto. Paolo intendeva, invece, fondare un popolo e contestando al contempo l’universalismo romano e la comunità etnica ebraica. Nella “teologia politica negativa” paolina l’autorità viene sempre dall’amore per il prossimo: verso l’altro da sé. Ed è un movimento orizzontale che passa per il crocifisso, ovvero passa per l’indigenza (l’imperfezione, la finitezza). Per ciò che è proprio dell’uomo e ha sempre a che fare con l’amore che, esso solo, consente l’attivazione di quel movimento tramite il quale accedere alla perfezione. L’uomo nell’antropologia paolina, e in quella cristiana al suo meglio, non è mai un ‘io’, ma sempre un ‘noi’. All’universale non si arriva per un movimento interno di dispiegamento, come l’espansione di una dote, di un possesso, ma si arriva perché ci si apre. Per l’evento, nel quale ci si contamina[135], si sa perdere sé stessi (così, e solo così, trovandosi).

Il carattere veterotestamentario dell’universalismo imperiale americano promana dalla stessa esibizione della violenza nuda, alla quale ci ha abituato dentro e fuori, ogni qual volta si renda necessario. Le analisi di Jan Assmann, in Non avrai altro Dio[136], e nelle altre opere[137] mostrano come la “semantica culturale”[138] americana pratica invece la relazione tra la violenza ‘necessaria’ e levatrice non in relazione al tema della sovranità, quanto della trascendenza. In relazione, cioè, alla missione divina. Diventa allora una questione della verità. La semantica culturale americana pratica, e profondamente tanto più quanto meno se ne avvede (come ogni habitus acquisito alla nascita), la “distinzione mosaica”[139]. Impone alla costruzione americana, figlia di tante diaspore individuali e di gruppo, di distinguere il vero dal falso. Cosa che rende quella americana un’enorme “Cultura di enclave” nel senso dell’antropologa Mary Douglas. Qualcosa che è autoevidente, determina una cornice di vita comune, e anche individuale, la quale si contrappone naturalmente ad altri stili di vita tanto profondamente da poter uccidere per essa in modo assolutamente ovvio.

Ma tutta questa energia, questa determinazione e questa violenza è posta a servizio. Diventa una forma che rende possibile la stabilità dello sfruttamento, sentendosene innocenti. In sostanza da un certo punto di vista la costruzione americana è un capolavoro.


Note
[1] - Cedric J. Robinson, Black marxism. Genealogía della tradizione radicale nera, Alegre 2003 (ed. or. 1983).
[2] - Ovvero nella pratica di fuggire, più o meno in massa, dalle piantagioni e creare nell’interno, spesso in luoghi difficili da raggiungere o in mezzo agli indios, delle comunità nere autonome ed autosufficienti, nelle quali con il tempo – alcune sono durate anche un secolo – costruire una nuova cultura di sintesi.
[3] - Per prevenire l’obiezione per la quale la civiltà romanda era fondata su un modo di produzione schiavistico, ma non così la Grecia, si veda Luciano Canfora, Guerra e schiavi in Grecia e Roma. Il modo di produzione bellico, Sellerio editore Palermo, 2023. Tuttavia, come sottolinea ad esempio Stuart Hall, il razzismo europeo moderno ha una base biologica che mancava nelle culture classiche.
[4] - Si veda: Étienne Balazs, La burocrazia celeste: Studi sulla società cinese, Einaudi, 1977 (ed. or. 1968), p.67.
[5] - John K. Fairbank, Storia della Cina, Einaudi 2004 (ed. or. 1996), p. 154.
[6] - L’Impero assiro, il primo della storia, crea o importa dai precedenti imperi accadico e babilonese, molte delle strutture concettuali ed operative che poi, per via della contiguità linguistico-culturale con il mondo semita (fenici ed ebrei, ma anche altri popoli cananei mediorientali) ed egizio, oltre che mesopotamico, si diffondono. Tra queste alcune tecniche di governo assolutista e centralizzato, l’uso sistematico delle deportazioni di massa per rompere le unità culturali, la propaganda imperiale che nominava come “inferiori” gli altri popoli. Come sempre è difficile fissare l’origine delle idee e delle pratiche, le quali viaggiano sulle lance degli eserciti, le barche dei commercianti, le scarpe dei viaggiatori e dei coloni. Cfr. Eckart Frahm, Gli assiri. Ascesa e caduta del primo impero del mondo, Mondadori, 2024 (ed. or. 2023); Martin Bernal, Atena Nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica, Il Saggiatore, 2011 (ed. or. 1987); Jan Assmann, Verso l’unico Dio. Da Ekhnaton a Mosé, Il Mulino 2018 (ed. or. 2016). Si veda anche, Mario Liverani, Antico Oriente: Storia, società, economia (Laterza, 2011). Tuttavia, l’idea di “razza”, o non-assiri (ḫurātu) presente nella retorica politica assira, designava inferiorità, ma era culturale e non biologica. Il tema è comunque dibattuto, Igor Diakonoff (1999) e Stefan Zawadski (2018) sono favorevoli a ipotizzare distinzioni di razza o etniche, mentre Adam Kessler (2020) è contrario.
[7] - Il razzismo moderno nasce solo nel tardo medioevo, fondandosi su distinzioni di stirpe e razza comunque medioevali. Aristotele, ad esempio, giustificava certamente delle gerarchie e anche la schiavitù, ma con ragioni e criteri culturali (la mancanza di logos) e non biologici. Nel mondo romano sia Plinio il Vecchio (Naturalis Historia (VII, 12), sia Seneca (Lettere a Lucilio (47), criticano chi disprezza per nascita e/o per aspetto gli altri (segno che il tema esisteva, come ovvio peraltro). Anche per Tacito i barbari britanni possono diventare romani tramite l’educazione, ed in genere tutto il sistema politico-amministrativo romano era orientato ad assimilare il diverso. Si veda, Benjamin Isaac, The Invention of Racism in Classical Antiquity, Princeton University Press, 2004. Oppure, per una posizione diversa, Rebecca Futo Kennedy, Race and Ethnicity in the Classical World, Hackett Publishing Company, Inc., 2013.
[8] - Ad esempio, Immanuel Wallerstein, a sua volta accusato da Robinson di “eurocentrismo”, replica che il razzismo è un prodotto del capitalismo ed accusa lo studioso afroamericano di “essenzialismo culturale”, le gerarchie medioevali sarebbero basate sulla religione. Della stessa opinione Ellen Meiksins Wood. Alcune critiche vengono anche dagli studi post-coloniali, ad esempio da Barbara Fields (Slavery, Race and Ideology in the USA, 1990) e Geraldine Heng. Oppure specialisti come Benjamin Isaac (The Invention of Racism in Classical Antiquity, 2004) e George M. Fredrickson (Racism: A Short History, 2002), ammettono la presenza del razzismo nel medioevo, ma non la sua sistematicità. La tesi ha avuto una notevole influenza sulla “Black Radical Tradition” (Robin D.G. Kelley, Ruth Wilson Gilmore) e alcuni studi come quelli di Geraldine Heng, David Nirenberg (Anti-Judaism: The Western Tradition, 2013). Il tema viene anche ripreso e trasposto da Silvia Federici in Calibano e la strega.
[9] - Si veda Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Einaudi, 2002, p. 512-20. Si veda anche, Sergio Tognetti, Il commercio degli schiavi a Venezia e in Italia (secc. XV-XVI) (in Schiavitù e servaggio nell'economia europea, Firenze University Press, 2014. Questa tesi viene contestata da chi ritiene i numeri troppo piccoli e l’esperienza mutuata in qualche modo dal mondo arabo. Il punto di Braudel (e di Abulafia, Il grande mare. Storia del Mediterraneo, Mondadori, 2013) è che la pratica viene istituzionalizzata in una vera tecnica, con contratti, con rotte stabilite e stabili, con una burocrazia dedita alla sua gestione.
[10] - Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, op.cit., p. 518.
[11] - Ovvero un enunciato che nel momento in cui viene pronunciato compie l’azione che descrive. Non si limita a dire qualcosa, ma compie un’azione. Una frase performativa non produce affermazioni constatabili, ma neppure un non-senso, non descrive una cosa evidentemente presente, ma, se mai, la rende presente, compie l’azione di costituirla. Anche se l’uso di questo termine carico di teoria in questo contesto è un’estensione della più stretta intenzione dell’autore, la designazione di un insieme di azioni, concetti, pratiche e individui come parte di una “civiltà” specifica, ed “Occidentale”, ha un carattere ‘operativo’ implicito. Distingue e separa, crea gerarchia. J. L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Genova, 1974, pagg. 49-54
[12] - Si veda su questo Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020.
[13] - Immanuel Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna, Il Mulino 1978, 1982, 1995 (ed. or. 1974, 1989)
[14] - Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo, tre volumi (Le strutture del quotidiano; I giochi dello scambio; I tempi del mondo) Einaudi, 1977, 1981, 1982 (ed. or. 1979).
[15] - Ovvero la relazione interna, storica ed evolutiva, tra una particolare conformazione e selezione di specifici sistemi tecnici e dei loro ambienti di senso, le loro applicazioni e le istituzioni che le presumono, e le culture ancorate a visioni specifiche del cosmo, della natura e dell’uomo, o, secondo la definizione di Yuk Hui, “la cosmotecnica esprime l’unificazione tra ordine cosmico e ordine morale attraverso le attività tecniche” (Yuk Huy, Cosmotecnica, Nero 2021, ed. or. 2016, p.29).
[16] - Cfr. Alessandro Visalli, “Circa la tecnica: per una fenomenologia politica della relazione”, Tempofertile, 25 maggio 2025.
[17] - Il Dibattito di Valladolid fu uno scontro intellettuale e teologico svoltosi nella città spagnola di Valladolid tra il 1550 e il 1551, convocato dall’imperatore Carlo V per rispondere a una domanda cruciale: “Gli indigeni americani hanno un’anima razionale? Possono essere governati con giustizia, o la guerra e la schiavitù sono legittime?”. Fu quindi il primo grande dibattito europeo sui diritti umani e l’etica coloniale, anticipando temi che oggi chiameremmo “diritti dei popoli indigeni” e “critica all’imperialismo”. I due principali protagonisti furono, da una parte, Juan Ginés de Sepúlveda (1489-1573), che sosteneva la naturale inferiorità degli indigeni e la giustizia quindi della guerra. Le fonti sono Aristotele (Politica, I,5) e la Bolla papale Inter Caetera del 1493. Dall’altra, Bartolomé de Las Casas (1484-1566), per il quale gli indigeni sono esseri razionali e liberi, dotati di culture complesse e la conquista è quindi immorale ed un crimine. Le sue argomentazioni si basavano sulla teologia tomista e l’esperienza. Le leggi spagnole che proibivano la schiavitù degli indio furono confermate ma la conquista andò avanti.
[18] - Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, 2004 (ed. or. 2000).
[19] - “La prima [ragione della giustezza di questa guerra e conquista] è questa: essendo gli uomini barbari [gli indios] per natura servili, incolti e inumani, essi si rifiutano di accettare il comando di quelli che sono più prudenti, potenti e perfetti di loro; comando che darebbe loro grandi vantaggi, è infatti, cosa giusta, di diritto naturale, che la materia obbedisca alla forma, il corpo all’anima, l’appetito alla ragione, i bruti all’uomo, la moglie al marito, l’imperfetto al perfetto, il peggiore al migliore, per il bene di tutti”. Juan Ginés de Sepúlveda, De la Justa causa del la guerra contro los indios, Roma 1550
[20] - Per la cultura técnica precolombiana, capace di essere perfettamente adattata ai luoghi e generare enormi città, natura e cultura non sono separate, il lago Texcoco non è solo una risorsa idrica, efficientemente sfruttata, quanto una entità sacra con la quale dialogare. La tecnica non è dominio, ma armonia con i cicli cosmici e quelli politico-sociali. Le chinampas sono orti galleggianti nel lago Texcoco, con strati di fango e vegetazione che rigenerano il suolo il mais è un dono di Quetzalcoatl, e l’intera agricoltura un rito di reciprocità con la terra (Tonantzin). Cfr. James Maffie, Aztec Philosophy, University Press of Colorado, 2014. La medicina faceva uso di antibiotici, ma insieme a riti di purificazione spirituali, o i quipu (nodi) come metodo di calcolo anche avanzato usato dai Quechua. Alcune voci contemporanee che invitano a decolonizzare il concetto di “progresso” sono Linda Tuhiwai Smith, Decolonizing Methodologies, Zed Books, 1999; Leanne Betasamosake Simpson, As We Have Always Done, University of Minnesota Press, 2017. 
[21] - Juan Ginés de Sepúlveda, De la Justa causa del la guerra contro los indios, op.cit. p. 109-111, cit in Enrique Dussel, L’occultamento dell’Altro. All’origine del mito della modernità, La piccola editrice, 1991, p.97
[22] - Enrique Dussel, L’occultamento dell’Altro, op. cit., p. 100.
[23] - Qui mi collego alla convincente tesi di Kenneth Pomeranz per il quale la Grande Divergenza tra Europa ed Asia è resa possibile, in ultima analisi, dal superamento della Trappola malthusiana per effetto dell’importazione dei frutti di un immane sfruttamento di terre aggiuntive grazie alla manodopera schiavile. Cfr. Kenneth Pomeranz, La Grande divergenza. La Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, Il Mulino 2004 (ed. or. 2000).
[24] - Ovvero il sistema delle grandi piantagioni schiavistiche, che in Nord e Sud America, come ai Caraibi, prefigura l’organizzazione del lavoro di fabbrica in una scala e con effetti distruttivi che sono di molti ordini di grandezza superiori a quelli denunciati da Engels nel suo La situazione della classe operaia in Inghilterra, del 1845.
[25] - Si veda, tra tanti, Paul E. Lovejoy, Storia della schiavitù in Africa, Bompiani 2019 (ed. or. 2012); Toby Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Einaudi 2021 (ed. or. 2019); Howard W. French, Africa e la nascita del mondo moderno, Rizzoli, 2023 (ed. or. 2021);
[26] - Si tratta di quella che Fanon chiama la esportazione della nevrosi europea.
[27] - Che invito a leggere anche tramite Gustavo Gutierrez, Alla ricerca dei poveri di Gesù Cristo. Il pensiero di Bartolomé de Las Casas, Queriniana1995 (ed. or. 1992), oltre che Enrique Dussel, Storia della chiesa in America Latina (1492-1992), Queriniana, 1992 (ed. or. 1992), oltre che, ovviamente, nel suo stesso testo, Bartolomé de Las Casas, Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie, Marsilio 2012 (ed. or. 1522).
[28] - Si veda la ricostruzione della Rivoluzione francese compiuta in Alessandro Visalli, Classe e partito, Meltemi 2023, e la relativa bibliografia.
[29] - I “Girondini” vengono dai grandi porti Nantes, Bordeaux, Marsiglia, dove i commerci incubarono una sorta di pre-capitalismo, mentre i “Montagnardi” dalla regione di Parigi Si veda Burstin H., Rivoluzionari. Antropologia politica della Rivoluzione francese [2013], Laterza, Roma-Bari 2016.
[30] - William E. B. Du Bois, Black Reconstruction in America, 1860-1880, Free Press: ristampa del 1995 dell'originale del 1935. Si veda anche W.E.B. Du Bois, Sulla linea del colore, Il Mulino 2010 e la prefazione di Sandro Mezzadra.
[31] - Enrique Dussel, L’occultamento dell’’altro’, La piccola editrice, Celleno, 1993.
[32] - Occorre precisare, il termine ‘modernità’ è altamente ambiguo e si configura come oppositivo ad altre epoche del mondo antecedenti. Nella sua accezione normale implica anche una qualche superiorità, nell’ordine della successione, rispetto a queste. Ma è anche ambiguo con riferimento al campo nel quale si definiscono queste epoche, per cui la modernità filosofica si vuole far risalire fino ai greci, tracciando le radici, e poi alla rivoluzione rinascimentale e seicentesca; la modernità politica all’epoca delle rivoluzioni atlantiche, nel Settecento inoltrato; la modernità tecnica e produttiva alla rivoluzione industriale. Qui si intende modernità nel senso geopolitico, l’epoca del mondo che inaugura le altre e che pone al centro l’Occidente, fino a quel momento periferia dei più vitali e ricchi centri storici del mondo (con il baricentro in Asia e le sue propaggini nel mondo persiano e arabo).
[33] - Per una lettura di questo tenore si veda anche Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’Altro, ET Storia,1984 (ed. or. 1982).
[34] - Serge Gruzinski, La macchina del tempo. Quando l’Europa ha iniziato a scrivere la storia del mondo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2018 (ed. or. 2017); Serge Gruzinski, Gli Atzechi. Il tragico destino di un impero, L’università Electa 1994 (ed.or. 1984); Camilla Townsend, Il quinto sole. Una nuova storia degli Atzechi, Einaudi, 2022 (ed. or. 2019).
[35] - Tesi in particolare del suo libro precedente, Serge Gruzinski, La colonizzazione dell’imaginario. Società indigene e occidentalizzazione del Messico spagnolo, Einaudi, Torino, 1997 (ed. or. 1988).
[36] - Qui si dovrebbe parlare della linea che da Galilei porta a Newton, dal matematismo del primo, al cartesianesimo intollerante del secondo.
[37] - E’ la grande mossa terminale di Newton, fondamentalmente teologica. Come noto il grande intellettuale inglese si considerava un teologo e spese molta parte della sua opera in questa direzione. Si legga, ad esempio, Isaac Newton, Trattato sull’apocalisse, Bollati Boringhieri, 1994. Esiste un nesso interno tra le regole ermeneutiche messe a punto dal giovane Newton per l’interpretazione delle scritture, un tema che lo impegnerà a lungo, e quelle euristiche incorporate nelle sue teorie scientifiche. Il problema centrale era, seguendo Cartesio, “come è possibile stabilire qualcosa di certo nella conoscenza?” Per cui, come dirà in una lettera a Hooke, “l’assoluta certezza di una scienza non può oltrepassare la certezza dei suoi principi”. Anche nella interpretazione delle profezie procede ponendo regole generali e definizioni, quindi esplicitare proposizioni e dimostrazioni in base alle regole poste. Nel De gravitatione et aequipondio fluidorum, del 1664 o 68, Newton negò la necessità della materia (e dunque postulò lo spazio vuoto) con argomenti strettamente teologici, perché Dio non ne ha bisogno. Concetto che poi transita in qualche modo, per diretto influsso, anche nell’Essay di Locke, e di qui nella dottrina politologica liberale. Dunque, l’interpretazione della natura e quella della parola di Dio, delle Scritture, è sullo stesso piano, perché la verità è Una e si raggiunge tramite la Ragione. Fuori di questo ci sono le “immaginazioni” private, o le “ipotesi”. Di qui il famosissimo “hypotheses non fingo”, dello scolio dei Principia. E, soprattutto, di qui la rigida intolleranza scientifica del grande intellettuale, che distingue sistematicamente tra “verità” e “interesse di parte”, e rifiuta le opinioni degli altri sulla base di una certezza raggiunta una volta per tutte. Si tratta di un metodo potente, il cui rovescio è, però, che la verità viene oggettivata, ovvero alienata al punto di poterla raggiungere solo a patto di far tacere gli uomini, l’immaginazione e la sensibilità.
[38] - Ovviamente nel senso di Said. Edward Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli, Milano, 1999 (ed.or. 1978), e Edward Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, Feltrinelli, Milano, 2023 (ed.or. 1993).
[39] - Immanuel Kant, Che cosa è l’illuminismo?, Editori Riuniti, Roma 1987 (ed. or., 1784).
[40] - Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Bari, 2003 (ed. or. 1837).
[41] - Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, op.cit., p. 15
[42] - Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Bari, 2003 (ed. or. 1830), p. 524.
[43] - Per una simile prospettiva si può leggere anche il classicissimo libro di Tzvetan Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’”altro”. Einaudi, Torino, 1984 (ed.or. 1982).
[44] - Dussel, L’occultamento dell’Altro. Op.cit., p. 62
[45] - Enrique Dussel, Storia della Chiesa in America Latina (1492-1992), Queriniana, Brescia 1992, (ed. or. 1992), p. 31.
[46] - Dussel, Storia della chiesa in America latina, op.cit., p. 31
[47] - Si tratta di un ordinamento giuridico spagnolo, per il quale degli indios vengono affidati (encomandados) ad uno spagnolo (encomendero) che è responsabile della loro evangelizzazione e, in cambio, ne può esigere il lavoro.
[48] - Qui, nel 1545 fu fondata una città per sfruttare la miniera che dava più o meno la metà della produzione mondiale di argento ed ebbe impatti enormi su tutta l’economia mondiale, fino alla lontana Cina. La produzione dell'argento, nel mondo, che nel periodo 1521-1544 era stata in media di kg. 90.200 annui, balza di colpo, nel periodo 1545-1560, a 311.600 kg., per mantenersi sui 300.000 kg. fino al 1580 e salire oltre i 400.000 kg. sino al 1621: a questa produzione mondiale la regione di Potosí partecipa con ben 183.200 kg. annui (in media) per il periodo 1545-1560, con 151.800 kg. fino al 1580, con 254.000 kg. fino al 1600.
[49] - Cit. in Aurelia Michel, Il Bianco e il negro. Indagine storica sull’ordine razzista, Einaudi, 2021 (ed. or. 2020), p. 67.
[50] - Si veda la ricostruzione in Alessandro Visalli, Classe e partito, op.cit.
[51] - Un domenicano e teologo spagnolo, nato tra il 1483 e il 1493 e morto nel 1546 viene considerato il restauratore della teologia tomistica spagnola e uno dei fondatori del diritto internazionale. Fu allievo a Parigi di fra Pietro da Crochart, nel 1522 ottenne il magistero in teologia, materia che insegnò a Salamanca dal 1526 al 1546. Le sue opere postume sono: Relectiones theologicae (1557); Confessionario (1562); Summa Sacramentorum Ecclesiae (1560). Nel corso all’università di Salamanca dal titolo De Indis individua i titoli giuridici (diritto naturale delle nazioni a comunicare fra loro, diritto della religione di Cristo a estendersi in tutto il mondo ecc.) che giustificano la conquista delle terre d’America contro gli «indi», anche se questi sono i legittimi possessori.
[52] - Gesuita, nato nel 1539 e morto nel 1600, fu missionario in Perù e Massico e prese parte al Concilio di Lima, oltre che collaborare alla pubblicazione di catechismi e confessionarî in lingua quechua, aymará e castigliana. Scrive una notevole descrizione dei costumi e indagine psicologica degli Indî, nell'opera catechistica De promulgando evangelio apud barbaros sive de procuranda Indorum salute (1571).
[53] - Un teologo inglese, che nel 1636 bandito dal Massachussetts, istituisce una colonia libertaria a Rhode Island nella quale è praticata la libertà religiosa e i diritti dei nativi. Morto nel 1683, alla veneranda età di ottanta anni, espresse le sue idee di assoluta distinzione tra Stato e religione, e libertà di pensiero in The bloudy tenent of persecution (1644).
[54] - Nato nel 1644 e morto nel 1718 è un politico e teologo inglese che fonda la colonia della Pennsylvania. Pur essendo di ceto piuttosto alto e non certo un “livellatore”, la colonia ebbe un sistema penale molto umano e relazioni ragionevoli con gli indiani.
[55] - Il libro – di notevole interesse per lo studio dell’immagine europea del mondo non occidentale – è costruito sotto forma di dialogo e presenta alcune delle problematiche più care a Diderot. “L’importanza storica dei viaggi in periodo illuministico, l’interesse scientifico per le nuove scoperte geografiche, il problema già affacciatosi con Montaigne di ‘una molteplicità di culture non scandite nel tempo, ma coesistenti nello spazio’, il ‘mito del buon selvaggio’, la disputa sullo stato di natura e sulle leggi della propagazione, l’ideologia coloniale e l’anticolonialismo, sono temi tutt’altro che obsoleti, e conferiscono al dialogo diderotiano un’innegabile attualità” (dalla prefazione di Antonio Santucci). In Denis Diderot, Opere filosofiche, Romanzi e Racconti, Bompiani, 2019, (ed. or.1772), p.2081.
[56] - Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’impero britannico, Einaudi Torino 2024 (ed. or. 2022), p. 785.
[57] - Si veda, Richard Sakwa, Frontline Ukraine. Crisis in the Borderlands, I.B. Tauris, London, 2015; Serhii Plokhy, The Gates of Europe. A History of Ukraine, Basic Books, New York, 2015; Sara Reginella, La guerra fantasma nel cuore d’Europa, Exorma, 2021; Medea Benjamin – Nicolas J.S. Davies, War in Ukraine. Making Sense of a Senseless Conflict, OR Books, New York, 2022; Giacomo Gabellini, Ucraina. Il Mondo ad un bivio. Origini, responsabilità, prospettive, Arianna Editrice, 2022; Vladimir Putin, Di fronte alla storia. Obiettivi e strategie della Russia, Pgreco, 2022; Gilbert Achcar, The New Cold War. The United States, Russia and China, from Kosovo to Ukraine, Haymarket Books, Chicago, 2023.
[58] - Si veda Sara Roy, The Gaza Strip. The Political Economy of De-Development, Institute for Palestine Studies, Washington D.C., 1995; Tareq Baconi, Hamas Contained. The Rise and Pacification of Palestinian Resistance, Stanford University Press, Stanford, 2018; Rashid Khalidi, The Hundred Years' War on Palestine. A History of Settler Colonialism and Resistance, 1917–2017, Metropolitan Books, New York, 2020; Ilan Pappé, La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, Fazi Editore, 2022 (ed. or. 2017); Ilan Pappè, Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli, Einaudi 2005; Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi, 2023 (ed. or. 2020); Edward Said, La questione palestinese, Il Saggiatore 2011.
[59] - Ervand Abrahamian, Storia dell’Iran. Dall’Islam all’era di Ahmadinejad, Einaudi, 2009 (ed.or. 2008); Hamid Dabashi, Iran. The Rebirth of a Nation, Palgrave Macmillan, New York, 2006; Hamid Dabashi, Iran. Una nazione in rivolta, DeriveApprodi, Roma, 2009 (ed. orig. Iran: A People Interrupted, 2007); Vali Nasr, The Shia Revival. How Conflicts within Islam Will Shape the Future, W.W. Norton & Company, New York, 2006; Trita Parsi, Losing an Enemy. Obama, Iran, and the Triumph of Diplomacy, Yale University Press, New Haven, 2017; Arang Keshavarzian, Bazaar and State in Iran. The Politics of the Tehran Marketplace, Cambridge University Press, Cambridge, 2007; Toby Craig Jones, Desert Kingdom. How Oil and Water Forged Modern Saudi Arabia, Harvard University Press, Cambridge (MA), 2010; Sami Al-Kassir, Being Arab, Verso, London, 2006 (ed. orig. in francese, 2006);
[60] - Patrick Seale, Asad. The Struggle for the Middle East, University of California Press, Berkeley, 1988; Nikolaos van Dam, The Struggle for Power in Syria. Politics and Society under Assad and the Ba'th Party, I.B. Tauris, London, 2011 (1ª ed. 1979); Sami Moubayed, Under the Black Flag. At the Frontier of the New Jihad, I.B. Tauris, London, 2015; Raymond Hinnebusch, Syria. Revolution from Above, Routledge, London-New York, 2001; Ghaith Abdul-Ahad, A Stranger in Your Own City. Travels in the Middle East’s Long War, Knopf, New York, 2023; Adam Baczko – Gilles Dorronsoro – Arthur Quesnay, Syria. Anatomy of a Civil War, Hurst Publishers, London, 2017;
[61] - Si veda, Alberto Negri, Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente, Rosenberg & Sellier, Torino, 2017 (ed. orig. 2017); Piero Orteca – Vittorio Emanuele Parsi, Iraq. La guerra permanente, Guerini e Associati, Milano, 2004; Thomas E. Ricks, Fiasco. L’avventura militare americana in Iraq, Einaudi, Torino, 2007 (ed.or. 2006); Andrew J. Bacevich, La guerra senza fine. Come l’America ha perso il controllo della politica estera, Garzanti, Milano, 2008 (ed.or. 2008); Rashid Khalidi, L’impero e i suoi fantasmi. Il Medio Oriente e la politica estera americana, Einaudi, Torino, 2005 (ed.or. 2004); Noam Chomsky, Il nuovo umanitarismo militare. Lezioni dal Kosovo e dall’Iraq, Marco Tropea Editore, Milano, 2001 (ed.or. 2000); Tariq Ali, Bush nell’Arabia felice. L’occupazione dell’Iraq e il futuro del Medio Oriente, Fazi Editore, Roma, 2003; Lawrence Freedman – Efraim Karsh, The Gulf Conflict 1990–1991. Diplomacy and War in the New World Order, Princeton University Press, Princeton, 1993; Andrew J. Bacevich, The New American Militarism. How Americans Are Seduced by War, Oxford University Press, Oxford, 2005.
[62] - Secondo lo stesso Rapporto Chilcot il SIS non aveva prove sufficienti dell’esistenza di armi di distruzione di massa (poi non trovate) e interpretava “ottimisticamente” i fatti disponibili. Successivamente lo stesso Gordon Brown ha ammesso che gli Usa mentirono, anche sulla base di informazioni inglesi, e che l’MI6 assicurava che le prove fossero consistenti. Cfr. Gordon Brown, My life, our times, The bodley head, 2017.
[63] - In Elkins, op.cit., p. 797.
[64] - Baghdad, in arabo بغداد‎ reca il nome di “città della pace”, è la seconda più grande città dell’Asia occidentale, dopo Teheran, ha quasi otto milioni di abitanti. Fondata nel 762 d.c., ma vicina alla molto più antica Seleucia (Σελεύκεια), fondata nel 300 a.C. e capitale del regno seleucida che fu a lungo rivale dei romani. A sua volta Seleucia era di fronte alla di poco successiva Ctesifonte (تیسفون), fondata nel II secondo a.C. e capitale dell’impero sasanide partico e città più grande del mondo nel VI secolo d C.
[65] - George Orwell, fermo oppositore interno dell’imperialismo inglese e della sua immorale postura, nel 1948 poco prima di morire sviluppò il concetto di “Bipensiero” per il quale si tratta di tenere nella mente contemporaneamente due pensieri opposti, saltando da uno all’altro secondo convenienza, restando di ciò al contempo coscienti e inconsapevoli.
[66] - Secondo la famosa formula della poesia di Kipling.
[67] - Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’impero britannico, op.cit., p. 19.
[68] - Cedric J, Robinson, Black marxism. Genealogia della tradizione radicale nera, Alegre Roma 2023, (ed. or. 1983).
[69] - Elkins, cit., p. 23
[70] - Si veda William Sdalrymple, Anarchia. L’inarrestabile ascesa della Compagnia delle Indie Orientali, Adelphi Milano 2022 (ed. or. 2019)
[71] - Si veda anche Edmund Burke, Scritti sull’Impero. America, India, Irlanda, Utet Torino 2008, p. 353 e seg.
[72] - Burke, op.cit., p. 364
[73] - La dimenticata rivoluzione haitiana.
[74] - Si può vedere, in una diversa prospettiva l’opera di Jurgen Habermas, Una storia della filosofia (2 vol), Feltrinelli, Milano, 2022-24.
[75] - Elkins, op.cit., p. 72
[76] - Elkins, op.cit., p. 165
[77] - Elkins, op.cit., p. 297
[78] - George Padmore, un importante politico trinidadiano, nato Malcom Nurse, iscritto al partito comunista tra il 1927 ed il 1934, animatore del movimento Pan-africano, sostenne la causa della decolonizzazione dell’Africa e fu consigliere di Nkrumah dal 1958, anno in cui si trasferì in Ghana.
[79] - Nnamdi Azikiwe, Renascent Africa, Negro University Pressi, New York, 1937.
[80] - Eric Williams, Capitalismo e schiavitù, Meltemi 2024 (ed. or. 1944)
[81] - Robert James, Cyril Lionel, I Giacobini neri, op.cit.
[82] - William Du Bois, Le anime del popolo nero, Le Lettere 2007 (ed. or. 1903)
[83] - Aimé Casaire, Discorso sul colonialismo, Ombre Corte, 2020 (ed. or. 1950).
[84] - Franz Fanon, Pelle nera, maschere bianche, Edizioni Ets, 2015 (ed. or. 1952)
[85] - Franz Fanon, I dannati della terra, Einaudi Torino 1962 (ed. or. 1961),
[86] - George Padmore. The life and struggles of negro toilers, Tonbridge, London 1931
[87] - George Padmore, How Britain Rules Africa, Wishart Books, London, 1936
[88] - George Padmore. Africa and world peace, Secker & Warburg, London, 1937.
[89] - Elkins, op.cit. p. 346
[90] - Reginald Coupland, Zulku battle piece: Isandhalawana, Tom Donovan, 1991(ed. or. 1948)
[91] - Reginald Coupland, India a re-statement, Legare Street Press, 2023 (ed. or. 1945).
[92] - George Orwell, 1984, Feltrinelli, Milano 2021 (ed. or. 1949).
[93] - Orwell, op.cit., p. 229
[94] - Idem.
[95] - Elkins, op.cit., p. 432
[96] - Elkins, cit. p. 676
[97] - Elkins, cit. p. 702
[98] - Nato nel 1474 e morto nel 1566 è stata una straordinaria figura di teologo e vescovo spagnolo strenuamente impegnato nella difesa dei nativi americani, e successivamente anche dei neri importanti in sostituzione. Fondamentale fu la sua partecipazione al dibattito del 1550 di Valladolid, nel quale il suo avversario fu Juan Ginés de Sepulveda. Il testo principale è Bartolomé de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle indie, Marsilio 2012 (ed. or. 1552).
[99] - Howard Zinn, nato nel 1922 e morto nel 2010, è stato uno scrittore radicale americano newyorkese di inclinazioni socialiste libertarie e provenienza da una famiglia di immigrati ebrei europei (dall’Austria e dalla Siberia). Dagli anni Sessanta prese parte attivamente al movimento per i diritti civili, sia nel ruolo di docente di storia sia in quello successivo di docente di scienze politiche. Prese posizioni coraggiose e personalmente costose contro la discriminazione razziale e la guerra del Vietnam. Howard Zinn, Storia del popolo americano, dal 1492 ad oggi, Il Saggiatore 2017 (ed. or. 1980), p. 25. Il libro è uno straordinario affresco dell’intera storia degli Stati Uniti, fino ai primi anni di Bush junior, descritta sotto il profilo della storia popolare. Ovvero della storia delle lotte e mobilitazioni popolari e delle diverse forme di oppressione che sono state praticate nella storia del paese. È quindi, e soprattutto, una storia dei dispositivi di controllo sociale e di formazione e dominio delle élites e di formazione e sfruttamento di sempre nuove ineguaglianze e colonie interne. Anzi di controllo proprio rendendo funzionali le ineguaglianze interne tramite il sistematico spostamento su altro della natura economica di queste.
[100] - David Graeber, David Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli 2022.
[101] - Graeber, cit., p. 61 e seg.
[102] - Graeber, p. 67
[103] - Si veda, Paul E. Lovejoy, Storia della schiavitù in Africa, op.cit.; Howard French, Africa. E la nascita del mondo moderno, op.cit.; Zeinab Badawi, Storia Africana dell’Africa, Rizzoli, 2024.
[104] - Si veda, Francesca Canale Cama, Amedeo Feniello, Luigi Mascilli Migliorini, Storia del mondo. Dall’anno 1000 ai giorni nostri, Laterza, 2019, pp. 579 e seg.
[105] - Christopher Hilll, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento, PGreco, 2023.
[106] - Hill, op.cit., p. 38.
[107] - Un tema, questo, di enorme complessità per un approccio al quale rimando ad Alessandro Visalli, Classe e Partito. ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, 2023, cap. 3, Mutamenti, p. 103 e seg.
[108] - Su cui insiste molto Cedric Robinson.
[109] - Zinn. p. 52
[110] - Si veda, Christopher Hilll, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento, op.cit.
[111] - Mi permetto di rinviare anche ad Alessandro Visalli, Classe e Partito. ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, 2023, cap. 2, Rivoluzioni, p. 60 e seg
[112] - Zinn, p. 65
[113] - Alan Taylor, Rivoluzioni americane. Una storia continentale, 1750-1804, Einaudi, 2017 (ed. or. 2016).
[114] - Zinn, p. 166.
[115] - Come già visto, grande intellettuale e militante nero, in realtà con sangue africano, olandese, francese e haitiano, nato nel 1868 e morto nel 1963.
[116] - Retorica teorizzata da Ernesto Laclau attraverso il costrutto dei “significanti vuoti”, cfr. E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Towards a Radical Democratic Politics, Verso, Londra 1985; E. Laclau, La ragione populista, Latera, Roma-Bari 2008; E. Laclau, Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano 2017. Inoltre, per una critica il mio Alessandro Visalli, Classe e partito, op.cit., p. 213 e seg.
[117] - Laclau, citato in Visalli, 2023, p.218
[118] - Zinn, p. 313. Per una lettura di questa tendenza si veda, Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020.
[119] - Zinn, p. 347
[120] - Si veda, ad esempio, Niall Ferguson, Il grido dei morti, Oscar, 2014,
[121] - Fasi descritte anche nel mio Dipendenza, op.cit.
[122] - Si veda, Aram Mattioli, Tempi di rivolta. Una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti, Einaudi, 2024.
[123] - Gli altri, Obama, Trump, Biden, ancora Trump sono fuori del libro, perché l’autore è morto nel 2010 e sostanzialmente termina con le immediate conseguenze del 11 settembre 2001, Afghanistan prima dell’Iraq. Non parla della seconda guerra in Iraq e non della crisi del 2008. Non dei due fallimenti di entrambe.
[124] - Si veda Yascha Monk, La trappola identitaria. Una storia di potere e di idee del nostro tempo, Campi del Sapere, 2023.
[125] - In Yascha Monk, La trappola identitaria., cit., p. 59
[126] - Non è difficile riconoscere una linea genealogica precisa tra l’emergere, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, di idee riprese dagli autori della ‘critica della ragione’ formatisi negli anni Trenta tra le due guerre, e il loro consolidarsi e diventare dominanti negli anni Ottanta, quando il marxismo subisce un autentico tracollo. Quando gli autori della svolta postmoderna criticano le “grandi narrazioni” e “l’illuminismo”, in realtà stanno attaccando l’idea di rivoluzione ed il marxismo-socialismo.
[127] - Edward Said, Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, 2008 (ed. or. 2000).
[128] - Said, cit., p. 437
[129] - Idem.
[130] - Si veda, ad esempio, Seymour Melman, Capitalismo militare. Il ruolo del Pentagono nell’economia americana, Feltrinelli,1972 (ed.or. 1970); Seymour Melman, Guerra S.p.a. L’economia militare e il declino degli Stati Uniti, Città Aperta Edizioni 2006;
[131] - William Blum, Con la scusa della libertà, si può parlare di impero americano? Marco Tropea Editore, 2002 (ed. or. 2000); Chalmer Jhonson, Le lacrime dell’impero. L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano, Garzanti 2005 (ed. or. 2004); Chalmer Jhonson, Nemesi. La fine dell’America, Garzanti 2008 (ed.or.2006).
[132] - Daniele Ganser, Breve storia dell’Impero americano. Una potenza senza scrupoli, Fazi Editore, 2021 (ed. or. 2020);
[133] - Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’imparo britannico, Einaudi Torino 2024 (ed. or. 2022).
[134] - Jacob Taubes, La teologia politica di San Paolo, Adelphi 1997 (ed. or. 1993).
[135] - Questa grande parola la uso nel senso di Derrida.
[136] - Jan Assmann, Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, Il Mulino, 2007.
[137] - Jan Assmann, Verso l’unico Dio. Da Ekhnaton a Mosè, Il Mulino 2018 (ed. or. 2014); Jan Assmann, Dio e gli dei. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, Il Mulino, 2009.
[138] - Per come la descrive Assmann “le grandi narrazioni e le differenziazioni principali con cui una società si orienta nello spazio e nel tempo e che rendono impresse nei miti fondatori, nei simboli, nelle immagini e nei testi letterari della propria tradizione”, in Non avrai altro Dio, cit., p. 29.
[139] - Termine centrale della interpretazione di Assmann, per la quale la trasposizione che Mosè pratica dalla esperienza imperiale del suo tempo (Assiria ed Egitto) tra la vera e la falsa religione, tra vecchio e nuovo, che separa e distingue un “popolo che dimora a parte” (Nm 23, 9). Si veda Assmann, Dio e gli dei, cit., p.189.
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Lella
Saturday, 05 July 2025 22:22
I miei complimenti ucdp
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Giancarlo Allegrone
Saturday, 05 July 2025 16:59
Alessandro Visalli, grazie per questo notevole contributo che forse farà comprendere le vere ragioni di quanto sta avvenendo. Quello su cui ti invito a riflettere e che anche nell'antica Grecia si è sviluppato il dominio imperialista. Questo indurrebbe a riflettere, e a domandarsi, se la tendenza imperialistica sia un "percorso obbligato", nello sviluppo di certe civiltà.
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Lella
Saturday, 05 July 2025 15:43
Prezioso materiale politico storico che invita ad andare ancora più a fondo. Ci sono altri secoli da indagare per svelare il vero "peccato originale" della civiltà occidentale che ci può svelare una devianza storica sulla quale è stata edificata una vera e propria cultura. Marx può ancora indicarci tanto da indagare.
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ucdp
Saturday, 05 July 2025 18:11
Marx ha già indicato il peccato originale o almeno ci è andato molto vicino, il problema è che i marxisti saltano quella parte lì, ritenendola "fuffa" filosofica. Del resto persino lui, che lo ha visto, non ne ha preso atto fino in fondo. Rimane comunque un genio. Oggi abbiamo un confronto storico tra oriente ed eccidente che evidenzia, appunto, il peccato originale. Per metterlo a fuoco mi son dovuto studiare la storia della cina più le religioni ed i sistemi di diritto russo ed iraniano. Ma ne è valsa la pena.
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ucdp
Friday, 04 July 2025 16:05
Un modello che, formato nella transizione dall’antichità romana che ne era priva al medioevo ...
Nel tardo impero romano la mentalità suprematista giudaico cristiana riuscì a far penetrare Yahweh nel Panteon romano, grazie alla mediazione di sacerdoti ebrei che rivelarono dove fosse nascosto il tesoro del tempio al futuro imperatore Vespasiano. Questa mentalità prosegui nel papato e prese ala nel Medioevo.

Grazie per l'interessante lavoro
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