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manifesto

Finale di partita

La moneta fittizia che consuma la fiducia

 

Luigi Cavallaro

La crisi che ha colpito il capitalismo non è dovuta a una superfetazione della finanza rispetto l'economia reale. La sua genesi va infatti cercata nel ruolo del credito nel funzionamento stesso del sistema capitalistico. Un sentiero di lettura a partire dal crack delle borse

«Questa contraddizione erompe in quel momento delle crisi di produzione e delle crisi commerciali che si chiama crisi monetaria. Essa avviene soltanto dove si sono sviluppati pienamente il processo a catena continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione. Quando si verificano crisi generali di questo meccanismo, quale che sia l'origine di esse, il denaro si cambia improvvisamente e senza transizioni: da figura solo ideale di moneta di conto, eccolo denaro contante. Non è più sostituibile con merci profane. Il borghese aveva appena finito di dichiarare, con la presunzione illuministica derivata dall'ebbrezza della prosperità, che il denaro è vuota illusione. Solo la merce è denaro. E ora sul mercato mondiale rintrona il grido: "Solo il denaro è merce!". Come il cervo mugghia in cerca d'acqua corrente, così la sua anima invoca denaro, l'unica ricchezza».

Sostituite alla generica «merce» la parola «derivato» (o magari, se siete esterofili, termini come bond o collateralized debt obligation) e in questo passo del Capitale di Karl Marx avrete una rappresentazione fedele della crisi attuale. Una crisi nient'affatto semplice e che, nonostante tutti si sforzino di non accostare al famigerato 1929, rischia preoccupantemente di assomigliargli, soprattutto per il radicale fraintendimento della sua natura.

 

Il dio del dollaro

In questi giorni, molti benpensanti ci hanno spiegato che la colpa dell'accaduto andava ricercata nel fatto che l'economia finanziaria si è sviluppata a scapito dell'economia reale, per cui la speculazione - e non di rado la frode - ha avuto la meglio sull'investimento produttivo. Perfino sul Sole-24 Ore abbiamo letto che il denaro non genera denaro come da Dio Padre si genera Dio Figlio, mentre il Papa, sentendosi logicamente chiamato in causa, ha voluto di ricordarci che l'unica vera ricchezza è la parola di Dio: raccomandazione inutile, visto che da sempre il motto «In God We Trust» campeggia sui dollari americani.
Si tratta di litanie vecchie di secoli. Di almeno due secoli, se è vero che lo stesso Marx se ne prendeva gioco già nei Grundrisse, a proposito della riforma monetaria di cui favoleggiavano i seguaci di Proudhon. Il problema di fondo, infatti, è costituito dal fatto che il modo di produzione capitalistico si fonda su di una strutturale confusione tra moneta e credito, una confusione che a sua volta si deve al fatto che la moneta è interamente originata dal credito.

È un fatto di cui non sempre abbiamo piena comprensione: nella vita di tutti i giorni, infatti, ricorriamo al credito per ottenere moneta e ci serviamo di quest'ultima per pagare i debiti. Ma la moneta che circola in un'economia capitalistica deriva in ultima istanza da un debito della banca centrale, a copertura del quale non c'è alcun attivo che non siano i debiti delle banche commerciali, i quali a loro volta hanno come unica contropartita i debiti delle imprese. Come dire che, non appena proviamo a verificare più dappresso che cosa sia la moneta, anzi cosa usiamo come moneta, scopriamo che usiamo debiti.

Del resto, la moneta emessa dalla banca centrale (ossia le banconote e gli spiccioli di metallo che costituiscono il «contante») non esaurisce affatto i moderni modi di pagare: altri e numerosi ne vengono generati dal sistema delle banche commerciali e delle istituzioni finanziarie proprio attraverso il credito, in un processo che solo marginalmente dà luogo a circolazione fisica di contante e per la maggior parte, invece, costituisce un sistema di creazione e distruzione di moneta attraverso il reciproco riconoscimento di crediti e debiti fra gli agenti della circolazione.

La produzione capitalistica, infatti, è costituita da cicli di produzione, scambio e consumo essenzialmente finanziati da crediti e, fintanto che i pagamenti si compensano l'uno con l'altro, il denaro si sviluppa solo nella sua forma di misura dei valori: da un lato, nel prezzo delle merci scambiate, dall'altro nella grandezza delle obbligazioni reciproche. La ragnatela di rapporti che viene così a costruirsi si regge essenzialmente sulla fiducia generale che ciascun operatore avrà sempre di che pagare i propri debiti. E finché tutto scorre normalmente, tutto può diventare fonte di credito, cioè di moneta: derrate alimentari, prodotti industriali, obbligazioni strutturate. Persino la mera forza-lavoro, come ha insegnato l'esperienza dei mutui subprime.

L'anima nera dell'economia

Non è dunque un caso che Marx, fin dai suoi scritti giovanili, richiami l'attenzione su questa polarità inscindibile di merce e moneta creditizia, in cui l'una rimanda all'altra e viceversa: si tratta di un legame che sorge con il modo di produzione capitalistico. Un merito non secondario dell'economia borghese, a suo avviso, sta anzi nella sua capacità «di riconoscere questa esistenza del denaro sotto tutte le forme di merce e quindi di non credere al valore esclusivo della sua ufficiale esistenza»: l'«anima del denaro» si trova infatti «in tutte le articolazioni della produzione e in tutti i movimenti della società borghese».

Ma in essi c'è pure l'anima della crisi. «In epoca di commozioni che interrompono con violenza il corso dei pagamenti e perturbano il meccanismo della loro compensazione, il denaro trapassa improvvisamente dalla sua figura aerea, arzigogolata dal cervello, di misura dei valori a quella di solida moneta ossia mezzo di pagamento», scrive Marx in Per la critica dell'economia politica. E in questo «subitaneo trapasso del sistema creditizio a sistema monetario», che oggi chiamiamo crisi finanziaria, il «terrore teorico» si aggiunge «al panico pratico, e gli agenti della circolazione rabbrividiscono dinanzi al mistero impenetrabile dei loro propri rapporti».

Di quale mistero stia parlando Marx è presto detto. Poiché le merci che si scambiano sul mercato sono il prodotto di un lavoro privato, i produttori immediati scoprono che «quella stessa divisione del lavoro, che li rende produttori privati indipendenti, rende poi indipendente anche proprio da loro il processo sociale di produzione e i loro rapporti entro questo processo», che «assume la forma di un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, invece che averle sotto il proprio controllo». E se la divisione del lavoro «trasforma il prodotto del lavoro in merce» e rende necessaria «la trasformazione della merce in denaro», allo stesso tempo «rende casuale che ogni singola transustanziazione riesca o meno», e costringe ogni produttore a far di tutto per sfuggire alle catastrofiche conseguenze dell'impossibilità di vendere e, col ricavato, far fronte ai propri debiti.

Un regime fondato sul debito

È qui che si coglie l'inanità di ogni pretesa di separare moneta e credito, produzione e finanza, commercio e speculazione: ritardare i pagamenti e fare accavallare i ritardi gli uni sugli altri, come ha spiegato lo storico Marc Bloch sulla falsariga di Marx, è da sempre «il grande segreto del regime capitalistico moderno, la cui definizione più esatta sarebbe forse: "un regime che morirebbe in caso di una verifica simultanea di tutti i conti"». Visto in quest'ottica, anzi, il moderno sistema finanziario non rappresenta affatto quell'inessenziale superfetazione del sistema produttivo di cui ci raccontano tanti commentatori, ma piuttosto il tentativo - gigantesco quanto impossibile - di trasformare in un rischio calcolabile l'incertezza che l'indefinita procrastinazione dei pagamenti porta con sé.

Alla radice della crisi monetaria, infatti, non troviamo i presunti «eccessi» della speculazione, ma - spiega Marx - i movimenti del ciclo industriale. In un sistema in cui domanda e offerta procedono alla cieca, la crisi rappresenta l'unico modo in cui può realizzarsi la perequazione delle inevitabili sproporzioni fra le diverse branche della produzione e, più in generale, fra produzione e consumo; detto altrimenti, sono «acquisti e vendite reali che, avendo assunto un'estensione di gran lunga superiore al bisogno sociale», stanno «in definitiva alla base di tutta la crisi».

È senz'altro vero, e Marx lo annota puntualmente, che «una massa enorme» di acquisti e vendite «rappresenta soltanto affari truffaldini che ora vengono finalmente a galla», o «speculazioni fatte con capitale altrui e non riuscite». Ma di qui a sostenere che la colpa sia della speculazione e che tutto andrebbe per il meglio se solo si riuscisse a imbrigliarla in un sistema di regole idonee ad arginare i suoi epidemici conflitti d'interesse ne corre.

Nel Capitale si trovano due ulteriori considerazioni. La prima è che «tutto questo sistema artificiale di ampliamento violento del processo di riproduzione non può naturalmente essere risanato per il fatto che una banca fornisce in carta a tutti gli speculatori il capitale che fa loro difetto ed acquista al loro antico valore tutte le merci ora deprezzate», così come invece prevedeva la versione originaria del piano Paulson, presentata tre settimane fa: se n'è convinta anche Wall Street, la cui rovinosa caduta ha indotto il governo statunitense a perseguire la più drastica strada dell'ingresso di capitale pubblico nelle banche.

La seconda considerazione concerne proprio la natura del credito, che - proprio nella misura in cui permette di «distanziare ancora di più le operazioni di compera e vendita» - consente una «socializzazione della produzione» anche dal lato del valore, che si affianca a quella già realizzata sul piano della produzione materiale dall'avvento del «lavoratore complessivo», cioè dell'industria moderna. «Esso elimina con ciò il carattere privato del capitale e contiene in sé, ma solamente in sé, la soppressione del capitale stesso», annota Marx al riguardo. Nulla a che vedere col «comunismo del capitale», di cui in queste settimane si è tornato a parlare in ambienti culturali tardo-operaisti, ma caso mai la lucida anticipazione che il credito «costituisce la forma di transizione verso un nuovo sistema di produzione». Che sia già successo è un fatto. Che succeda ancora è una possibilità, in vista della quale bisognerebbe tornare ad affinare gli strumenti dell'analisi marxista.

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