Print Friendly, PDF & Email

chartasporca

Lettera aperta a noi ventenni

di Sara Nocent

I. “Cito qualcuno per non stare zitto”

nero scaledCos’ha detto? Ho capito / Chi l’ha detto? Condivido / Leggo poco, guardo i video / Non mi vanto, sono un mito / E se non so cosa dire, cito qualcuno per non stare zitto
(Selton, Pasolini)

Ai ventenni di oggi. Nati dagli eterni figli della “Generazione X” ed eredi di rivoluzioni fallite, di una depressione romanzata dissoltasi ormai in una diffusa, indefinibile ansia. Siamo i post-figli, cresciuti senza conoscere la differenza tra le realtà sociali e lavorative stabili di più di quarant’anni fa e la disgregazione, l’accelerazione applicata a ogni campo, il desiderio autoimprenditoriale. Non abbiamo avuto neanche la delusione di una promessa mancata, quella di un’occupazione a tempo indeterminato, con ritmi e paghe decenti, e della possibilità di farsi una casa e una famiglia. Il verbo della flessibilità e del perfezionismo ci è stato infatti impartito fin dall’infanzia, già ai tempi delle maestre che elogiavano chi poteva permettersi di fare più attività extrascolastiche e riusciva a essere bravissimo in tutti i campi. Non che all’università le cose migliorino: dire “sono anche uno studente universitario” è quasi diventata un’abitudine per campioni di varia sorta, come se impegnarsi nello studio non fosse sufficiente di fronte al bisogno di eccellere il prima possibile. Professori e professoresse ci hanno insegnato che è necessario competere, ma manca un dettaglio: competere per cosa? Per quel fantomatico “mercato del lavoro” spesso rappresentato come un brutale stato di natura, quello stesso contesto che poi ti chiede, fra le varie soft skills, di essere empatico, causativo, creativo. Devi insomma essere quello che fai, mentre la qualità con cui lo fai e le tue risorse mentali sono oggetto di valutazione performativa e morale, capacità che possono essere addestrate.

Devi andare al macello sì, ma con il sorriso.

 

Quale lotta?

Più che delle differenze di classe la nostra generazione è abituata a parlare di quelle tra minoranze. In realtà le diseguaglianze economiche legate alle possibilità di agency politica e culturale continuano ad essere profonde e il conflitto storico tra classi permane. A volte per i ventenni il confronto può apparire più subdolo, per esempio passando attraverso la mancanza di comprensione dei docenti di fronte a chi deve lavorare per pagarsi l’università, per non parlare dei giudizi a cui è esposto chi non riesce a permettersi l’accesso a una formazione superiore visto che l’Italia è uno dei paesi con le tasse universitarie più alte in Europa e, al contempo, è penultima per numero di laureati. Ma il mondo della formazione è solo l’anticamera delle disuguaglianze che si inaspriscono sul lavoro e recentemente “i giovani”, questa categoria che nella storia ha avuto la forza di una classe sociale a sé, hanno dimostrato di essersene accorti riprendendo nelle piazze il grido “gli studenti con i lavoratori” da una stagione non troppo lontana. Tuttavia, parlare oggi di “lotta di classe” ai giovani sarebbe come esprimersi in una lingua aliena, soprattutto perché si evocano immediatamente novecenteschi fantasmi di violenza. Ed è proprio questa la questione più spinosa: dopo aver sentito parlare del fallimento delle ultime rivoluzioni e della condanna della loro scia di disordine e confusione, i ragazzi evitano la lotta in senso stretto, che finisce per schiacciarsi ed estendersi sul piano della comunicazione e dei social e diventa addirittura “altruista”.

Le piazze oggi ci mostrano qualcosa di diverso dalla viralità sterile di hashtag come “eat the rich” o “tax the rich”, ma c’è da chiedersi ancora una volta su che piano sta avvenendo la protesta, nei confronti di chi. Verrebbe da rispondere “gli sfruttatori”, tuttavia se una volta poteva essere chiaro a chi ci si riferiva (il famigerato “padrone” o la solita Confindustria) oggi le cose si fanno più delicate. Se la questione non è solo lo sfruttamento ma la stessa “educazione al lavoro” ci vanno di mezzo anche gli insegnanti e, in qualche modo, anche noi stessi che siamo stati abituati fin da piccoli alla precarietà, all’abnegazione autoimprenditoriale. C’è molto di più da sradicare e da criticare.

 

Amato soggetto

Chi siamo al di là della protesta? Una volta che i gruppi si sciolgono, restano delle identità scandite dall’indifferenza, che non è in contraddizione con la spinta morale “altruistica”. L’indifferenza si consuma nei confronti di chi in vari modi mette in discussione l’autorità del soggetto, di chi rifiuta di identificarsi, mentre l’altruismo avvicina sempre più spesso i medesimi, chi si riconosce nella tassonomia prodotta da un certo ordine sociale e mentale. È un altruismo egoista che parassita altre forme di convivenza e vicinanza libere da vincoli morali, spontanee, “amicizie” prive del senso del debito. Per quanto riguarda l’indifferenza, potremmo trovare un esempio nel recente dibattito sulla salute mentale. Si è parlato molto della salute e del diritto alle cure di chi, da sano, evidentemente non sente più di esserlo in questi tempi soprattutto a causa dei disagi connessi alla pandemia. Tuttavia, questo discorso (in senso foucaultiano) sottende il tabù della malattia mentale (ammesso che se ne possa parlare, se ascoltiamo Szasz), della possibilità di un diverso rapporto con il soggetto. Nessuno ha parlato dei disagi che la pandemia e le restrizioni hanno apportato a chi attualmente non rientra nei parametri della “salute mentale”. Anche i più giovani sembrano essere indifferenti e seguono la progressiva medicalizzazione del disagio psichico: si dimentica Basaglia, la psichiatria cambia rotta proprio nei suoi luoghi, mentre un teen movie come Quello che tu non vedi del 2021 è possibile (in cui la romanzata “visione diversa” e dannosa dello schizofrenico viene magicamente risolta da un’assunzione regolare di farmaci, con tanto di “e vissero felici e contenti”) e a una trasmissione in prima serata come Quarto Grado ci si può permettere di suggerire, a proposito di un recente fatto di cronaca, che nei dintorni di un ex ospedale psichiatrico “si aggira gente strana, potenzialmente pericolosa”.

Certo, potreste dirmi che uno può scegliere di non guardare la tv o non vedere un film. Ma la verità è che di fronte alla pervasività di questi discorsi non possiamo scegliere, se non in maniera radicale.

Stiamo infatti evitando di parlare di un tabù enorme della civiltà occidentale come quello della lotta al soggetto. E non sto parlando del soggetto di diritti, che per legge ha anche il sacrosanto diritto di protestare contro i propri oppressori. Non è quello il punto di vista. Intendo il soggetto contemporaneo come luogo nevrotico, l’ultimo baluardo di disciplina sempre in bilico tra la conservazione e la spinta di desideri distruttivi. Molte delle ingiustizie contro cui lottiamo sono state interiorizzate, ce lo dicevano già Foucault e la coppia Deleuze-Guattari. Contro chi lottare allora? Una voce freudiana rende scabrosa la risposta. Si è riusciti a creare una categoria anche per chi non si identifica, per chi è queer. Potrei citare di nuovo l’autore de Le parole e le cose dicendo che se le parole stesse sono cose e le definizioni delimitano le nostre scelte altruistiche, allora perdiamo la possibilità di essere vicini a chi “si pone all’ascolto dell’altro linguaggio, quello, senza parole né discorso, della somiglianza” ovvero nell’esperienza di un sé senza segni né confini che non si comprende nella tassonomia dell’altro.

 

Che ansia!!!

Forse qualcuno di voi, leggendo queste righe, lo avrà anche pensato. Io ho perso il conto di quante volte lo dico e lo sento dire dai miei coetanei, o di quanti meme ho letto con questa “battuta”. “Che ansia”. Scherzi a parte, i disturbi d’ansia sono veramente una piaga tra noi giovani e spesso sono collegati a due paure: quella di fallire in un qualsiasi compito e quella di venire giudicati male da compagni o adulti. Il timore di non farcela è legato quindi spesso a situazioni in cui dobbiamo saper fare qualcosa, ma può essere anche riferito all’incertezza del futuro. L’ansia è il disagio di una generazione nata precaria. È il sintomo della costante vicinanza del nulla e solo riduttivamente si lascia comprendere (e curare) come una malattia. Ma ne parleremo in un’altra occasione. Questo disagio probabilmente è connesso anche alla retorica delle competenze e all’esaltazione dei risultati più che del sapere in sé: le stesse conoscenze infatti sembrano essere diventate, dalla scuola all’università, delle prestazioni. L’importante è funzionare. La testa, insomma, deve essere veramente “ben fatta”.

 

Poscritto umanista

La citazione del titolo dell’opera di Edgar Morin è ovviamente ironica. Come è noto, il filosofo auspicava un’integrazione del sapere tecnico e di quello umanistico nel pensiero complesso, cosa che in gran parte sembra essersi avverata e che viene anzi richiesta nel mondo del lavoro sotto la forma, però, della distribuzione tra hard skills e soft skills. Dal punto di vista di chi deve scegliere il proprio percorso di formazione lo scenario cambia. I canali d’informazione e le pubblicità ci riportano una chiamata alle armi di nuovi medici e infermieri, mentre le aziende fanno sempre più fatica a trovare operai specializzati. Capiamo quindi che c’è un gran bisogno di persone dalle competenze tecniche e specifiche, informazione che viene ribadita anche nelle scuole fino ad arrivare a casi assurdi (ma reali) in cui si esortano gli studenti e le studentesse a scegliere le materie STEM non solo perché “si trova lavoro” ma anche per combattere il pregiudizio della preferenza femminile per le materie umanistiche (sessismo 4.0). Come se i corsi di studio umanistici fossero un deposito di vecchiume, di stagnazione del pensiero, inutili di fronte al progresso scientifico. Peccato che recentemente le proteste contro il sistema “neoliberale” dell’università sono arrivate proprio da studentesse di facoltà non STEM, come nel caso del discorso alla Normale di Pisa. Penso che non sia casuale perché chi frequenta i corsi di Lettere, Storia e Filosofia è stato testimone di un depauperamento impressionante, tra il nozionismo e l’inserimento di insegnamenti tecnici e autoprofessionalizzanti venduti come più utili delle proprie stesse conoscenze, senza contare l’obbligo di tirocinio, esperienza gestita male e tutt’altro che formativa in molti casi.

La “contaminazione” promossa dall’università-azienda è spesso unidirezionale o addirittura interna alle sole discipline scientifiche, e non c’è da stupirsi se le borse di studio sono praticamente inesistenti per chi non studia Ingegneria, Fisica o Medicina. Se ci aprissimo a un pensiero veramente complesso questi pregiudizi non avrebbero più senso. Purtroppo però anche dalla parte umanistica le risposte che arrivano non aiutano. L’uscita di Cingolani sull’utilità delle guerre puniche ha innescato un dibattito più interessante della discutibilità della frase stessa. In molti nel mondo delle humanities hanno replicato che le discipline umanistiche servono: servono a formare i cittadini, a investire sull’identità culturale italiana, a “insegnare i sentimenti attraverso la letteratura”, come ha detto il filosofo Galimberti.

Ma queste risposte continuano ad usare il linguaggio della spendibilità tecnica. Le materie umanistiche non servono a niente. Bisognerebbe dire questo. Non servono perché non sono dei “saper fare” nati per adattarsi a dei compiti precisi, non sono dei saperi strumentali, hanno a che fare con il sapere stesso.

Qualcuno potrebbe obiettare che anche il metafisico Platone considerava i saperi tecnici come modello del sapere in sé e sosteneva che la filosofia deve prima di tutto essere utile all’uomo della polis. Tuttavia, lo stesso filosofo faceva attenzione a distinguere le technai ausiliarie nella formazione come la matematica e la geometria dalla vera noesis filosofica, che riguarda la nostra vita in maniera essenziale.

I più ostinati si lamenteranno che le discussioni con chi studia Lettere o Filosofia vanno sempre a finire così, con una bella citazione in qualche lingua morta o poco più. I più attenti capiranno che questa citazione non serve. O meglio, serve solo a non stare zitti.

 

II. Postilla ansiogena

This is the way, step inside.
(Joy Division, Atrocity Exhibition)

Che ansia. Chissà perché lo ripetiamo così spesso. Forse dirlo a qualcuno ci rassicura, ci mette sullo stesso piano del nostro interlocutore, ci permette di esporre un piccolo angolo lecito della nostra vulnerabilità. Siamo certi che nessuno ci biasimerà per averlo detto e in fondo già sappiamo cosa farà chi ci troviamo di fronte: confesserà che è nella stessa situazione o al massimo cercherà di tranquillizzarci.

Questa prevedibilità delle reazioni ci rassicura anche quando ce lo diciamo da soli, visto che il “Che ansia!” implica e invoca sempre qualcun altro. L’ansia come disturbo ci tocca infatti nella nostra solitudine, ci fa tremare e ci isola, mentre il dire “Che ansia!” è diverso: ci mostra, ci mette nella posizione di dire agli altri, con un po’ di narcisismo: “Guardami, anche io non sono pronto”.

Spesso questa formula ci viene in soccorso nei momenti di attesa: non è poi così carica di significato, è già quasi un sospiro di sollievo, e una volta detta va a occupare uno spazio interpersonale, con un amico o un estraneo, che diventa subito più intimo – anche se spesso solo in apparenza. Se poi in questo “spazio” si inserissero l’ironia congelata di un meme, uno psicologo o un sussidio statale, non tutti penserebbero che qualcosa sia andato storto in questa conversazione appena abbozzata. Eppure il punto sta proprio nello scardinare la falsa prossimità creata dal “Che ansia!” per indagare piuttosto che cosa mostriamo e nascondiamo, a noi stessi e agli altri, del nostro vero disagio.

Nella prima parte di questa “lettera” mi ero riferita all’ansia come al sintomo di una più radicale angoscia del nulla tipica della nostra generazione nata precaria. Dire che l’ansia è un sintomo non è affatto un modo di sminuirla o di non riconoscere il dolore di chi ne soffre clinicamente, ma è piuttosto l’unica via che abbiamo per non smettere di cercare le ragioni profonde di questa sofferenza.

Ansia per il futuro? Per una prova che ci sembra insuperabile? Avviciniamoci di più a questa affermazione, accorciamo lo spazio interpersonale in cui si è persa o in cui forse, al contrario, ha istituito qualcosa. Non è così che potremmo sentire il bisogno di specificare il motivo per cui abbiamo detto di essere in ansia? O forse inizieremo a capire che questo nostro sfogo quasi involontario non ha bisogno di essere spiegato.

Il “Che ansia!” infatti si inserisce pienamente nell’ottica performativa, è lo stadio più scarno della dissimulazione di chi vuole ancora fare bene. E se è vero che una generazione senza certezze ne ha fatto il suo slogan, è altrettanto evidente che la precarietà stessa contiene ancora in sé le ceneri del discorso (auto)imprenditoriale, le sue promesse mancate e brucianti. Il nulla che come ho detto ci minaccia è, in realtà, oggetto di un enorme malinteso per cui viene interpretato come un nulla al posto di qualcosa che avrebbe dovuto esserci e non come il nulla puro, il desiderio senza mancanza che libera invece di condannare. Nel dire che ansia non diamo sfogo al nostro disagio di fronte al sistema, ma ne confermiamo i doveri morali.

Sapete cosa sarebbe davvero rivoluzionario? Trovare qualcuno, in questa perenne sala d’attesa, che di fronte a questo nostro canonico momento di debolezza dica “Io non ho ansia”, oppure ci risponda “Io invece sono felice di essere qui” o “Io ho veramente paura”.

 

Lo stadio medico dello sviluppo

Un paio di mesi fa, negli Stati Uniti, un gruppo di specialisti ha raccomandato di effettuare degli screening per l’ansia ai bambini dagli otto anni in su. Nello stesso periodo, in Italia, veniva rinnovato e promosso il bonus psicologo dopo che i giovani si sono trovati di fronte alla domanda sempre più insistente “Siete malati?” e in molti hanno risposto di sì.

Prevenzione e logica riparativa del trauma: la pandemia ha rimesso in gioco anche questi due schemi comuni alla medicina e alla politica, dove la metafora della malattia ha perso il suo carattere di figura retorica ed è diventata reale. C’è un solo problema: siamo sicuri di aver compreso in maniera corretta un disagio che potrebbe essere più sociale che individuale? Non è che forse abbiamo scambiato le parole per le cose, confuso il “Che ansia!” dei ragazzi di fronte ai cambiamenti portati dalla pandemia con l’angoscia di chi effettivamente ha intuito una discesa irreversibile?

Siamo tutti in fila per il dottore.

 

Lounge act in parole

Dovremmo fare appunto questo: riportare il “Che ansia!” al dominio delle parole. Anche in questo contesto la sua affermazione toglie e impoverisce più che aggiungere qualcosa di autentico. Provate a pensare a tutte le sfumature di sentimenti a cui rinunciamo ogni volta che ci adattiamo a questo mantra. Avremmo a disposizione una prateria di sostantivi, in gran parte inesplorata se non addirittura evitata, per mezzo dei quali incontrare il nostro dolore: preoccupazione, frustrazione, colpa, paura, terrore, vergogna, insicurezza, inadeguatezza, prostrazione, angoscia, noia, nostalgia e così via. Pensate solo all’uso meravigliosamente consapevole che per esempio Kierkegaard e Leopardi hanno fatto di alcuni di questi termini.

Nella nostra sala d’attesa, in quella situazione da cui siamo partiti, ovviamente non possiamo sperare di arrivare a queste vette del pensiero, tuttavia dovremmo cominciare a sentire che la scelta delle parole adatte non è soltanto uno scrupolo lessicale ma ci porta a essere sinceri con noi stessi. Sarebbe poi stimolante cercare di dimenticare, nel trovare un sostituto decisamente meno ipocrita al “Che ansia!”, tutte quelle parole che si sono infiltrate nell’uso corrente da ambiti come la medicina e la psichiatria: stress e paranoia, per dirne un paio. La stessa forma dell’esclamazione è falsa: potremmo cercare di esprimere quello che sentiamo utilizzando il caro vecchio “io” ed eliminando il carattere impersonale, quasi ambientale, di quel che ansia.

All’improvviso qualcuno rompe la sonnolenza lounge che lo blocca assieme agli altri nel presente e dice, con una chiarezza inedita, “io sono terrorizzato”, perché è così che si sente nell’aspettare un futuro di cui già da ora si sente derubato. L’estraneo che sta vicino a lui lo guarda di sottecchi, disprezzando la sua nudità.

 

Ansimare

L’agitazione tipica del disturbo d’ansia e l’etimologia stessa di questa parola ci portano a pensare una connessione con il soffocamento e con la mancanza d’aria. Il respiro affannoso, l’ansimare nella fatica sono tuttavia immagini molto distanti dal lamento compiaciuto del “Che ansia!”. Un sospiro, comunque, sfugge spesso a chi si sfoga dicendolo.

L’interruzione del respiro è qualcosa di estraneo a questa attesa. Apnea, immersione nel terrore: all’opposto del finto momento di rilassamento di chi è pronto ma dice di non esserlo c’è il controllo e la sospensione del respiro, la disciplina del dolore e dell’estasi. C’è la filosofia definita nel Fedone di Platone come melétē thanàtou, “esercizio di morte” portato avanti dai mistici che lasciavano che l’anima esalasse dal corpo.

Re-spirare. Contro un’abitudine che ci restituisce solo apparentemente la tranquillità, proviamo a vivere fino in fondo ciò che sentiamo, ripetere la prova estrema, sentirci vivi.

Qualcuno nella sala d’attesa cita Tasso ansimando: “Io vivo? Io spiro ancora?”.

 

Riti e memini

Ammettiamolo: dire che siamo in ansia prima di un esame è quasi un rito propiziatorio. Sarà per questo che non resistiamo alla tentazione di ripeterlo anche nei giorni precedenti e perfino in quelli successivi per dire come è andata. “Stavo in ansia”. Come se fisicamente ci fossimo trovati in una vasca trattenendo il respiro, senza nessuna possibilità di uscire, mentre in realtà questo “stare” era solo un mode on, un rito di preparazione attivato prima di una performance.

La raffigurazione dell’ansia come un qualcosa di più grande che inghiotte e sovrasta il singolo è molto diffusa nei meme, con una particolarità: spesso è raffigurata come una presenza “amica” che accompagna ovunque il soggetto dei meme e lo trattiene con i suoi “abbracci” un po’ soffocanti. Tra l’immagine della vasca e quella dei meme penso che la prima sia quella più vicina al vero disagio che si prova quando si ha a che fare con l’ansia. Ma il “Che ansia!” riguarda tutti e tutti possiamo sorridere riconoscendoci in quel soggetto perseguitato dei meme.

Nell’atrio c’è addirittura una persona che ha un arcobaleno e la scritta “I’ve got anxiety” sulla maglietta.

 

Quasi quasi Wilhelm Reich

Una prima risposta all’impoverimento e all’appiattimento che accompagnano il rimbalzare del “Che ansia!” da una bocca all’altra sarebbe quella di de-ritualizzare questa espressione, scherzare fino in fondo su questo prezioso momento di insicurezza rinunciando ai toni pastello e alla blanda ironia delle emozioni evocate dai meme. Basterebbe una risata: colossale, improvvisa, quasi mortale come quella attribuita dalla tradizione al filosofo Crisippo. Potremmo provare a lasciarci trascinare dall’assurdità della nostra paura di sbagliare, far crollare in un colpo solo tutte le cerimonie delicatamente autodenigratorie previste dalla formalità del contesto e suggerite dalla buona educazione.

Questo nostro non sentirci adatti o pronti ha una grande potenzialità: potrebbe infatti farci capire che nessuno lo è e che, in fondo, non importa esserlo. La prova imminente, gli eventi futuri, il problema che ci troviamo di fronte non chiedono alcuna capacità né preparazione, perché accadono e accadranno a prescindere da quello che abbiamo pensato o fatto prima. Siamo noi stessi, in realtà, il primo censore e giudice del modo in cui gestiremo gli eventi. Siamo quindi in ansia di fronte alla nostra stessa valutazione? In verità non solo, non dimentichiamoci che c’è sempre qualcuno, con noi, in queste situazioni di attesa: sentiamo gli sguardi convergere, le promesse crollare, le aspettative naufragare nel mare di tutti i successi possibili. Tanto vale tuffarsi in questa precarietà, immergersi, essere sicuri della propria insicurezza.

Ci sono due giovani, uno accanto all’altro nella coda: uno sta guardando Strappare lungo i bordi, l’altro sta leggendo un’opera di Wilhelm Reich. Uno dei due scoppia a ridere.

 

Doomscrolling ma si legge solo “doom”

In fondo alla stanza si sente qualcuno piangere. Deve stare veramente male, pensano tutti. Ma nessuno lo consola. La sala d’attesa oscilla nel suo sguardo come un’immensa massa nera: tutto è perduto, l’acqua è finalmente salita fino alla gola. Non resta nulla di umano.

Ultima alternativa: andare verso il dolore. Conoscerlo, stringergli la mano, chiamarlo con il suo nome, come si fa con i demoni per evocarli. Ansia, depressione, panico: se veramente sono lì, perché dovremmo nasconderli? Questa condizione è lontanissima da quella evocata dal “Che ansia!” e anzi la prima, persistente tentazione è di non condividerla con nessuno.

Ma è necessario che qualcuno di umano ci salvi. Non qui, non in questa sala d’attesa dove tutti si scambiano un’iniezione di insicurezza o passano il tempo nel doomscrolling, ovvero nella ricerca compulsiva di notizie negative su fatti che nemmeno li riguardano. Per cosa? Per quella scarica di preoccupazione, per quell’ansia superficiale, momentanea, che non ci spinge ad agire.

Propongo un’alternativa doom: non fare finta che tutto vada bene e non sorridere quando non ci sentiamo di farlo è rivoluzionario. Chiediamoci se il nostro è un vero disagio e impariamo a conoscerlo, a liberarci delle presenze falsamente vicine di chi raccoglie e condivide il nostro “Che ansia!”. Quello che fa veramente paura è l’impersonalità che ci circonda in questi momenti in cui ci è richiesto di operare, il fatto che nessuno stia capendo come si senta veramente l’altro e che nemmeno ci provi. La nostra irriducibile solitudine.

L’attesa è finita. Per di qua, entri pure.

Add comment

Submit