J.-P. Sartre e la tragedia di Oreste nel Novecento
di Fernanda Mazzoli
Una prima proposta di approfondimento rivolta a quanti – muovendo dalla lettura di «Les mouches» – siano interessati a sviluppare un dialogo per aprire un varco nell’odierna soffocante cappa culturale-politica che asfissia intelligenze e coscienze
Da Argo a Parigi la strada è lunga, gli inciampi numerosi e le deviazioni di percorso ancora di più. Gli dèi dell’Olimpo scompaiono, le vendette scolorano, madri e sorelle invecchiano, perdendo cupa grandezza e trepida pietà. Eppure, Oreste continua il suo viaggio, sospinto dalle Erinni e da troppi interrogativi irrisolti, e una sera del giugno 1943 calca le scene di un teatro parigino, vestendo i panni del protagonista nel dramma di Sartre Les mouches. Fuori, un altro dramma tiene avvinta la città: l’occupazione nazista.
Duemila anni e più di cammino lungo le vie della cultura occidentale lo hanno non poco segnato: ha perso qualche radice e non poche convinzioni e più che cercare gli assassini del padre sta cercando se stesso, ma per potere dire sono deve prima di tutto fare e dunque è alla ricerca di un’azione e dal momento che tutt’intorno e anche dentro il teatro ci sono i Tedeschi, allora non può che uccidere Egisto, usurpatore del trono di Agamennone.
È così che, nel quadro narrativo offerto dal mito, nell’opera sartriana filosofia e politica si mescolano e si compenetrano, lasciando aperte tante questioni che ancora oggi, anzi oggi più che mai, ci incalzano. La stessa impasse su cui si conclude il testo offre un fertile terreno alla ricerca.
La breve presentazione che segue non pretende di essere uno studio critico, e tanto meno esaustivo, della pièce del filosofo e scrittore francese, quanto, piuttosto, di stimolare l’approfondimento di alcuni temi che, a partire da Les mouches, investano diverse sensibilità culturali e campi del sapere.
Lo stretto legame tra dimensione filosofica e politica, cui si è fatto cenno, da un lato favorisce l’incontro di prospettive differenti, dall’altro sollecita una riflessione non meramente accademica sul presente e sui compiti che esso pone a chi ritiene che la libertà – che l’Oreste sartriano, sia pure in modo contraddittorio, persegue come fondamento del proprio nascere al mondo – debba orientare, in questo nostro tempo caratterizzato da un suo effettivo svuotamento, l’elaborazione teorica e la prassi politica. Le prime sollecitazioni suscitate da questo testo prendono le seguenti direzioni che coinvolgono sia la complessiva opera di Sartre, sia il contesto culturale in cui essa è maturata:
– lo scarto tra l’Oreste antico e l’Oreste novecentesco, anche alla luce della natura del tragico;
– l’Oreste moderno al crocevia tra eroe problematico e uomo della crisi del Novecento, assediato dall’assurdo e dalla necessità di darvi una risposta;
– il rapporto tra libertà individuale e collettiva, tra libera scelta e responsabilità verso gli altri;
– il rifiuto, sul piano filosofico, del concetto di natura umana e le sue implicazioni;
– la necessità e la difficoltà di stabilire dei fondamenti morali a una visione integralmente laica della vita;
– il ruolo del mito nella formazione di una coscienza collettiva.
Non questioni particolarmente nuove, certo, ma che la lettura de Les mouches e l’odierna soffocante cappa culturale- politica volta ad asfissiare intelligenze e coscienze ripropongono con rinnovata urgenza e che sottopongo all’attenzione di quanti siano eventualmente interessati.
Una piazza attraversata da una processione di vecchie donne in nero che offrono libagioni ad una statua, intorno una città desolata oppressa dalla duplice cappa di un sole spietato e di nugoli di mosche è il poco allettante spettacolo che accoglie due stranieri, un ragazzo e il suo maestro. Il ragazzo si chiama Oreste e rivede Argo dopo che, ancora bambino, ne è stato allontanato.
Inizia così il dramma Les Mouches1 che Sartre scrisse in piena occupazione tedesca e che fu rappresentato al Théâtre de la Cité nel giugno 1943: una rivisitazione del mito degli Atridi, e in particolare delle Coefore di Eschilo, ma anche molto altro. A partire dal personaggio principale, questo Oreste che ritorna nella città natale, non tanto per vendicare il padre ucciso dalla madre Clitemestra con la complicità dell’amante Egisto, quanto per trovare uno spessore – un passato, una terra, dei ricordi, un nome che gli appartengano – che lo salvi da quella “superba assenza” che è la sua anima. I due viaggiano per turismo e la sosta ad Argo è una poco piacevole diversione che il giovane – conosciuto sotto il nome di Filebo, cresciuto in una agiata famiglia di Corinto – ha insistito per fare, dopo avere appreso dal precettore la sua vera identità. In poche, felici battute, il pedagogo disegna un compiuto ritratto del ragazzo, in cui non è difficile ravvisare certi tratti di un tipo umano post-moderno che si aggira intorno alla vita senza prendervi veramente mai posto: «Eccovi giovane, ricco e bello, avveduto come un vecchio, affrancato da tutti gli obblighi e da tutte le credenze, senza famiglia, senza patria, senza religione, senza mestiere, libero per ogni impegno e consapevole che non bisogna mai impegnarsi, un uomo superiore insomma, capace in più di insegnare filosofia o architettura in una grande città universitaria, e vi lamentate!».
No, non si lamenta, apprezza questa sua libertà, ma ha la sensazione che essa sia come un filo strappato dal vento a una ragnatela e destinato a restare a mezz’aria; sa bene che la leggerezza della sua condizione può essere una fortuna, eppure è tentato dalla prospettiva di una strada da percorrere, di un’azione da compiere, della felicità di andare da qualche parte.
Il suo accompagnatore, che lo ha educato a una visione del mondo scettica e relativistica, cerca di dissipare queste ombre, richiamandolo a una disincantata saggezza, sostenuto da un misterioso viaggiatore sopraggiunto dietro di loro e che si presenta come un mercante ateniese, peraltro molto informato sulle vicende cittadine. È quello un giorno particolare, la festa dei morti, grande cerimonia di espiazione collettiva del crimine compiutosi quindici anni prima, quando, nella torbida indifferenza compiacente dei sudditi, Agamennone è stato vilmente assassinato nel suo palazzo. Lo sconosciuto allude a una voce secondo la quale il bambino Oreste non sarebbe stato ucciso come da ordine di Egisto e aggiunge che, se mai lo incontrasse, lo inviterebbe ad andarsene di lì, a rinunciare a rivendicare qualsivoglia diritto su quella città mezza morta e tormentata dalle mosche e a lasciare tranquilli gli abitanti, incamminatisi sulla via del pentimento e del riscatto. Immersi nella paura e nella cattiva coscienza, stanno riacquistando con la loro contrizione il favore degli dèi e un piccolo sconvolgimento in questo ritrovato ordine avrà per effetto una catastrofe.
Oreste-Filebo, vuoi perché non ha preso alcuna decisione, vuoi perché sospetta di trovarsi davanti a una qualche divinità sotto sembianze umane, gli risponde che forse ha ragione e che, comunque, la faccenda non lo riguarda. Allora, lo strano mercante – che si definisce incantatore di mosche – si allontana, non senza avergli comunicato gesto e formula per sbarazzarsi dei neri insetti che ronzano tutt’attorno. Il giovane è preso da pensieri contrastanti: gli insegnamenti ricevuti – la filosofia del suo maestro, le parole del misterioso mercante – lo spingono ad andarsene, ma ancor più l’amara percezione che lì lui non è che uno straniero e che le confuse idee che gli passano per la testa su come guadagnarsi la cittadinanza fra gli Argivi non sono che sogni. Decide pertanto di partire verso Sparta dove ha degli amici. A questo punto, un incontro inaspettato rimette tutto in discussione.
Entra in scena una ragazza, Elettra, che, senza averli visti, si rivolge con ingiurie e derisorie offerte alla statua di Zeus, non potendo fare molto altro data la sua fragilità, se non auspicare l’arrivo di qualcuno che lei attende da tempo, il quale con la sua spada in un attimo colpirà il simulacro del dio e lo spezzerà.
L’incontro dei due fratelli è centrale nello sviluppo drammatico della storia, innescando la maturazione di una consapevolezza che seguirà, tuttavia, una direzione inversa.
Mentre Oreste apprende subito il suo nome e, dunque, sa di trovarsi davanti alla sorella, la giovane crede di parlare con Filebo di Corinto, in viaggio d’istruzione con il suo precettore. L’intesa fra i due è immediata, lui viene a conoscere la sua triste condizione di serva dentro il palazzo in cui dovrebbe essere principessa, lei impara che esistono città come Corinto in cui la vita è piacevole e la gente ignora la paura ed il rimorso, ride, esce in compagnia, balla. Questa sconcertante scoperta di un mondo diverso da quello racchiuso entro le mura tristi di Argo non distoglie tuttavia la figlia di Agamennone dall’idea che la ossessiona: che farebbe uno di questi spensierati ragazzi corinzi, se rientrando una sera da una festa, trovasse il padre assassinato, la madre nel letto dell’assassino e la sorella ridotta in schiavitù? Correrebbe dalle amiche a farsi consolare, o sguainerebbe la spada per uccidere a sua volta l’omicida?
Di fronte alla questione posta con veemenza da Elettra, nel cui volto il fratello intravvede «una promessa di temporale», Oreste si trincera dietro un prudente e stanco «non lo so». A dargli tempo, sopraggiunge Clitennestra che reca alla fanciulla, da parte di Egisto, l’ordine di prepararsi per la cerimonia. Lo scontro che segue tra la figlia ribelle e la madre rassegnata ad averne perso considerazione e affetto a causa della propria colpevolezza, da un lato cala Oreste nel vivo del dramma in cui si consumano la sua città e la sua famiglia, dall’altro accelera la risoluzione dello stesso: presenza silenziosa in una diatriba dai toni sempre più accesi, ne diviene tuttavia interlocutore privilegiato, decisivo in quanto è tale presenza straniera e apparentemente casuale che disvela pienamente alle due la vera natura dei loro rapporti e ne accresce l’inquietudine come in un presagio di disgrazia. Né a Oreste pare ora possibile andarsene, dopo che la sorella ha manifestato l’intenzione di disobbedire al volere del re.
Il secondo atto si apre sulla massa degli Argivi che debitamente terrorizzati attendono, fra confessioni, preghiere, pianti, svenimenti e punture di mosche vendicatrici, l’annuale ritorno per una notte dei morti e del morto più ingombrante, Agamennone. Oreste assiste disgustato in compagnia del mercante ateniese che è ricomparso alla fine del colloquio fra le due donne e che insiste per stare al suo fianco e fargli da mentore e consigliere. Finalmente, Elettra che aveva annunciato la sua diserzione dalla cerimonia appare, ma vestita di bianco, anziché con gli abiti luttuosi richiesti dal rito espiatorio, ben decisa a sfidare il patrigno, rivendicando innanzitutto la sua volontà di essere allegra e rivelando alla folla che esistono in Grecia città felici, «bianche e calme che si riscaldano al sole come lucertole», dove i bimbi giocano e le madri non si lamentano di averli messi al mondo, notizia anche per lei tutta nuova e che deve a Filebo. Poi si mette a ballare, leggera e sorridente, i morti tacciono, un’altra giovane accenna i primi passi di danza e intanto la folla rumoreggia e accusa il re di avere sempre mentito. La situazione sta per sfuggirgli di mano, non fosse per l’intervento del sedicente mercante che realizzando sui due piedi un inquietante prodigio riporta la paura, mentre turbini di mosche si scatenano sugli astanti. Egisto intima alla fanciulla di allontanarsi dall’indomani dalla città, in caso contrario sarà uccisa. L’ateniese tira la morale della storia, a edificazione di Oreste: i cattivi puniti e i buoni ricompensati. Il giovane, sempre più indignato, gli rivela la sua identità; il mercante scrolla le spalle e si congeda, seguito dal pedagogo.
Ora, il ragazzo cerca di convincere Elettra ad andarsene con lui a Corinto, ma lei non saprebbe cosa fare di se stessa laggiù e lo accusa di avergli tolto, con le sue storie di un’altra vita possibile, il suo solo tesoro: l’odio. Lei deve restare ad Argo e attendere il fratello e guidare la sua mano. Non gli rimane che rivelarsi a lei che stenta a riconoscere nel dolce e compassionevole Filebo l’Oreste tanto invocato e invano questi cerca di persuaderla a partire insieme. Lei lo respinge, le esistenze diverse che hanno condotto si frappongono come una barriera, lei non sa che farsene delle anime belle, perché è un complice che vuole. Disperato, il giovane riconosce la sua inconsistenza, è come un fantasma senza odio, né amore, destinato a vagabondare da una città a un’altra, straniero a sé e agli altri. Ormai, i fortunati luoghi di cui le ha parlato non significano più nulla per lui, così come la felicità. Ciò che vuole sono i suoi ricordi, la sua terra, il suo posto in mezzo agli uomini di Argo: ecco, ha deciso, non se ne andrà, restare è la sua sola occasione per «essere un uomo di qualche parte, un uomo fra gli uomini». Invano, Elettra gli profetizza che, restasse con loro anche cent’anni, sempre rimarrebbe uno straniero. Invano Zeus, al quale si è rivolto, gli manifesta la sua volontà di vederlo rassegnato e lontano da lì: il denso confronto con la sorella, il deludente esito della preghiera gli hanno fatto intravedere un’altra strada, la sua, e il modo di liberarsi, insieme, della leggerezza e della giovinezza per caricarsi “di un misfatto ben pesante che lo faccia colare a picco, fino al fondo di Argo». Elettra, non senza rimpianto di avere perso Filebo e il suo respiro di un altro mondo, riconosce infine Oreste nel giovane che la supplica di credere alla serietà della sua scelta e insieme decidono l’azione della cui tremenda gravità sono ben consci: sorprenderanno la coppia reale all’interno del cupo palazzo dove intanto le mosche, come se già avessero sentito l’odore del sangue, sembrano impazzite. Il duplice delitto è presto compiuto dalla spada del ragazzo, ma già dopo la morte di Egisto, così stanco e disgustato di sé da non difendersi nemmeno, la sorella si scopre esitante, come se il suo odio fosse morto con lui, e incline a risparmiare la madre: i due, che si sono appena ritrovati, si stanno di nuovo separando e l’ultimo atto è anche la storia di questo disconoscimento. Oreste, infatti, percorrerà la sua strada sino in fondo, sino alla porta dietro la quale lo attende Clitennestra, non più nell’opera di Sartre la «donna capace di maschi pensieri»2 della tragedia greca che ingaggia con il figlio un duro scontro dialettico per la vita e per la morte, ma un grido che si va spegnendo e che giunge sempre più flebile nella stanza dove Elettra aspetta il fratello. La vendetta che ha inseguito in sogno sin dall’infanzia è compiuta, ma ora non vuole più ciò che ha voluto, Oreste le ispira paura, forse orrore, tanto più che le mosche, arrivate a grappoli, si interpongono fra il suo sguardo e il volto di lui. Il ragazzo stenta a capirla, lui si sente finalmente libero e libero attraverso quel suo atto. Comunque, ancora insieme fuggono dalle guardie messe in allarme dalle grida degli assassinati e si rifugiano nel tempio di Apollo, inseguiti e circondati dalle mosche, le Erinni, le dee del rimorso di cui Elettra è ben presto preda, sino a sconfessare il crimine commesso e ad addossarne l’intera responsabilità al fratello, sino a preferire di consegnarsi a loro piuttosto che di restare accanto a Oreste.
In questo frangente entra in scena Zeus in persona che ha smesso i panni del perspicace mercante ateniese per mostrarsi in versione divinità paterna, divisa fra collera e pietà, pronta a salvarli dalla tortura delle Erinni, in cambio di una briciola di pentimento. È addirittura propenso, se gli obbediranno, ad installare entrambi sul trono di Argo. È proprio ciò che il giovane non è disposto a fare, avendo chiaro che rinnegare la propria azione equivarrebbe a negare la propria strada e la propria libertà, così duramente conquistate. Elettra, chiamata a scegliere tra la via d’uscita che le propone il dio e «l’infelicità e il disgusto» che solo può darle il fratello, promette a Zeus di consacrare l’intera sua esistenza al pentimento.
Oreste resta solo con le Erinni, mentre all’esterno gli Argivi circondano armati il tempio per impedirgli di fuggire. Egli ordina al pedagogo, che intanto lo ha raggiunto per portargli qualcosa da mangiare, di aprire le porte dell’edificio. Di fronte alla massa tumultuante, intenzionata a lapidarlo, rivela di essere Oreste, il legittimo re e rivendica di essere ormai, grazie al suo crimine, uno di loro, pronto a prendere ogni cosa su di sé, comprese le morti e le mosche che si sono cupidamente concentrate su di lui. Tuttavia, egli non ha alcuna intenzione di sedersi su quel trono che gli spetta e che un dio gli ha offerto, perché vuole essere «un re senza terra e senza sudditi». Si congeda da loro, invitandoli a cercare di vivere e a ricominciare tutto. Mentre esce dal tempio, passando tra due ali di folla silenziosa, le Erinni si lanciano urlanti all’inseguimento.
Malgrado il quadro narrativo di riferimento sia piuttosto noto per avere dato materia ai grandi tragici ateniesi, si è scelto qui di richiamare l’intera vicenda, oltre che per segnalare significative differenze rispetto agli illustri precedenti, soprattutto per sottolinearne alcuni punti cruciali, quelli che individuano la progressiva presa di coscienza di Oreste. Poiché di ciò essenzialmente si tratta nella rivisitazione sartriana, nella quale filosofia e politica si incontrano e si arricchiscono reciprocamente. Se è evidente – e diverse dichiarazioni dell’autore stesso dopo la Liberazione lo confermano – che il filosofo intendeva alludere, attraverso la farsesca cerimonia penitenziale orchestrata da Egisto, alla sinistra e patetica “mitologia” della colpa e del pentimento diffusa a profusione dal regime collaborazionista di Vichy da un lato per spiegare la disfatta francese come conseguenza dell’adesione del Paese ai valori della République e dall’altro per avvilire qualsiasi tentativo di resistenza, ridurre la pièce del filosofo alla semplice attualità e all’esigenza di scuotere le coscienze dei connazionali attraverso riferimenti allusivi al presente significa sicuramente sminuirne la portata. D’altro canto, fare de Les mouches la tragedia della libertà interiore equivale ad accettare la copertura che Sartre stesso dovette architettare per sfuggire alla censura delle autorità tedesche. È il protagonista per primo a prendere le distanze da quella libertà astratta nella quale il suo precettore lo ha cresciuto e che lo ha mantenuto in tutti gli anni dell’esilio come sospeso per aria, a tutto e a tutti estraneo, a se stesso in primo luogo. Ed è per affrancarsi da questa libertà derisoria ed illusoria che cerca un’azione che sia solamente sua, che lo impegni a fondo, che gravi su di lui con il peso dell’irrevocabile e dalla quale non possa più liberarsi attraverso la facile via del rimorso. Certamente, il filosofo attraverso Oreste dà voce alla sua idea di uomo, definibile non a partire dalla sua essenza (il giovane all’inizio non è nulla, un filo in balia del vento), ma dalla sua progettualità, dal suo aprirsi tramite una libera e sofferta scelta al futuro. Si delineano con chiarezza alcune problematiche che l’autore già aveva affrontato nel suo saggio L’être et le Néant e che riprenderà e svilupperà in seguito nella sua opera letteraria e filosofica: il rifiuto della natura umana (l’eroe rivendica di fronte a Zeus di essere «fuori della natura, contro natura, senza altra risorsa se non se stesso»), le implicazioni morali derivanti dalla convinzione che l’esistenza precede l’essenza, la libertà come fondamento di tutti i valori, l’engagement come traduzione nella dimensione storica dell’agire individuale, la relazione tra la libera scelta e le conseguenze sul piano dei rapporti interpersonali e della collettività, l’angoscia come corollario dell’essere libero, solo e responsabile. Ma c’è di più: su questo Oreste novecentesco pesano il sentimento dell’assurdità della vita, venuto meno il riferimento alla trascendenza, e la conseguente urgenza di trovare nuovi fondamenti morali che percorrono la letteratura, francese e non solo, della prima metà del secolo e che trovano proprio nell’azione e nell’azione rivoluzionaria (basti pensare ai romanzi di Malraux) una possibile risposta.
Un fardello davvero pesante per un’opera teatrale: eppure, il talento letterario di J.P. Sartre e la felice scelta del taglio mitologico tengono lontani sia il rischio di un eccessivo didatticismo, sia lo scoglio della compressione dello sviluppo drammatico in un mero contenitore di idee.
Lo scrittore aveva sperimentato la forza del mito durante la prigionia seguita alla disfatta dell’esercito francese nella primavera del 1940: detenuto nello Stalag XII di Treviri, componendo e mettendo in scena per i suoi compagni di sventura in occasione del Natale un testo, Bariona, che narrava della rivolta di un condottiero ebreo contro i Romani, era rimasto impressionato dal grande coinvolgimento del pubblico (che aveva benissimo compreso che dietro gli invasori latini spuntavano i Tedeschi) e aveva realizzato che il teatro era un potente fenomeno collettivo e religioso, nonché uno strumento privilegiato di comunicazione, capace di raggiungere persone molto diverse, non necessariamente colte. Nacque da questa esperienza, piuttosto lontana dal mondo letterario, l’idea di un teatro di situazioni di cui Les mouches rappresentano la prima formulazione. Quali siano le sue caratteristiche lo spiegò lo stesso Sartre in una conferenza dal titolo decisamente eloquente, Forger des mythes, tenuta nel ’46 a New York. È un teatro che si mantiene a debita distanza sia dallo studio dei caratteri, sia da un impianto ideologico-dimostrativo, sia da un’immersione brutale nell’attualità e anche quando prende spunto dal presente, cerca di fornirne un’espressione generale che il filosofo chiama “mito” e che stabilisce un rapporto non banale tra immaginazione e realtà. Preferisce porre problemi piuttosto che suggerire soluzioni e ama mostrare situazioni, in genere non proprio comuni, in cui un essere umano è obbligato a una scelta e, con essa, a mettere al mondo una difficile libertà. Se si possono creare nuovi miti, ovvero soggetti abbastanza sublimati perché tutti vi si possano riconoscere – la morte, l’esilio, l’amore – quelli antichi si prestano particolarmente bene per la loro diffusione presso il grande pubblico.
E dunque, nell’estate 1943, con la Francia sotto il tallone nazista e molti Francesi alle prese con un “che fare” più pesante di un macigno, perché non rappresentare Oreste che matura la consapevolezza della propria libertà attraverso un’azione di per sé efferata, ma che egli riconosce giusta: l’uccisione dei colpevoli della morte del padre, usurpatori del trono di Argo?
Ecco allora precisarsi la storia di una coscienza, dalla primitiva insoddisfazione per la propria vuota libertà alla progressiva consapevolezza della necessità di trovarsi una strada e seguirla fino alla fine, fino al compimento dell’azione chiamata a dare sostanza a quella libertà che esige di divenire pienamente tale e che può concretizzarsi solo in un atto e in un’assunzione totale di responsabilità che esclude ripensamenti e ritorni indietro. Ed ecco anche sollecitare indirettamente gli spettatori a una riflessione sull’urgenza, in quel particolare momento, di assumere su di sé l’impegno di condurre un’azione contro gli occupanti e di farlo senza le remore delle rappresaglie con cui i Tedeschi rispondevano alle operazioni della Resistenza armata. In fondo, questo intento civile poneva Sartre in linea di continuità con la tragedia ateniese, scritta nella polis e per la polis.
Il piano filosofico si integra e si comprende appieno proprio nel suo incontro con le esigenze della concreta situazione storica, la quale, a sua volta, dà corpo all’assunto teorico sull’inevitabilità della scelta, con tutte le sue conseguenze, per quanto moralmente dure da sopportare.
Se il mito greco fornisce l’armatura della pièce e i personaggi, occorre tuttavia reinventarlo questo mito, perché possa drammatizzare un pensiero che si interroga sul fondamento dell’esistenza. Così, il moderno Oreste sceglie liberamente di compiere il duplice omicidio, non spinto dalla divinità – le cui leggi gli appaiono peraltro ingiuste – che, anzi, prima sotto le spoglie del mercante e poi direttamente, tenta di allontanarlo dalla città, temendone il potere perturbatore dell’ordine fondato sulla colpa collettiva e il rimorso. Come dichiarerà Sartre, se la tragedia antica è lo specchio della Fatalità, lui ha voluto piuttosto scrivere una tragedia della libertà. Tuttavia, una differenziazione così netta risponde forse più al suo bisogno di definire il proprio teatro, anche in opposizione al modello, che ad un’effettiva caratterizzazione dell’eroe tragico, la cui problematicità diversi studiosi hanno rimarcato3. La tragedia della libertà ha rappresentato per la critica un fertile terreno di interpretazione4; mi limito qui a sottolineare che l’espressione va presa in senso letterale: a essere tragica è, innanzitutto, la libertà, la quale, in quanto necessità, condivide con il Fatum la medesima inesorabilità, salvo aggiudicarla alla libera scelta individuale. L’atto, pertanto, per quanto giusto e liberatorio, si accompagna all’angoscia, in luogo di dischiudere le porte della tranquillità o della contentezza di sé. Oreste nell’ultima scena è solo, rifiutato con orrore dalla sorella l’incontro con la quale è stato per lui decisivo nello sviluppo della sua consapevolezza, minacciato dagli Argivi che ha voluto liberare sia dall’usurpatore, sia dalle Erinni ben decise a non dare loro tregua.
Anche il finale ha molto intrigato i commentatori che ne hanno evidenziato le contraddizioni (Oreste abbandona coloro presso i quali desiderava ritrovare casa e radici) e la dimensione individualista: l’eroe, dopo avere annientato il torbido potere del tiranno, se ne va, rinunciando a ricostruire la città su basi più giuste. In questo senso, sembra proprio negarsi all’engagement maturato pagina dopo pagina, dialogo dopo dialogo, sospinto dalla sua nebulosa aspirazione iniziale a pesare come gli altri uomini in grado di riconoscersi in un luogo e in un passato. Certo, si può ipotizzare che ciascuno si deve liberare da solo, ma l’impasse, dopo la conclamata volontà di Oreste di essere uomo in mezzo agli uomini, resta e la conclusione sembra rappresentare un passo indietro verso quella libertà tutta astratta che già l’eroe possedeva e trovava insoddisfacente, se non addirittura verso un beau geste gratuito di vago sapore romantico, con il rischio che la storia di una coscienza si chiuda su una cattiva coscienza e di uno scollamento interno all’opera che ne mina l’unità. Doveva esserne consapevole anche Sartre che nelle opere successive – in veste sia di filosofo, sia di romanziere – dedicherà sempre più spazio al problema morale, individuando nel concetto di responsabilità la soluzione dell’interrogativo su come conciliare libertà individuale e presenza dell’altro. Questa falla, d’altra parte, è difficilmente colmabile, nascendo sul terreno della negazione sartriana dell’Essere, di matrice illuminista, con la conseguente difficoltà per l’uomo di definirsi da solo, senza porsi in rapporto o con un dio o con una comunità umana, il che è appunto il problema irrisolto che si trova ad affrontare il protagonista de Les mouches. Rispetto al modello greco che, quando ritorna ad Argo, sembra uno straniero, non essendo ancora stato riconosciuto, egli è uno straniero e destinato a restarlo.
Tuttavia, il moderno Oreste riesce a muoversi sulla scena con una forza tutta sua, senza divenire un manichino filosofico grazie alla plasticità del materiale mitico con cui è impastato, alla tensione morale che attraversa tutta la pièce e a una lingua efficace nella resa di tale tensione.
L’autore ha saputo tenersi lontano dalla tentazione di uno stile elevato o arcaicizzante, così come dall’effusione lirica ed ha optato per un ritmo rapido, sostenuto da occorrenze lessicali, da frasi brevi e incalzanti, da immagini dense, ma di immediata percezione e da una parola chiara e incisiva che, senza mai essere sciatta, non disdegna il registro informale. E su tutto, una costante vena ironica, di stampo volterriano, che brilla di intelligenza e colpisce come una lama, mantenendo l’opportuna distanza fra personaggi e pubblico, perché il teatro di situazione non coltiva la familiarità, non cerca l’identificazione, ma piuttosto casi-limite che obbligano a una scelta dove a scontrarsi non sono caratteri psicologici, ma sistemi di valori.
Che un progetto di tale genere abbia trovato nella tragedia antica una cornice ideale nella quale strutturarsi, è ulteriore conferma della straordinaria vitalità di questa, del suo essere pietra di paragone ineludibile e al contempo della sua capacità di accogliere nuovi significati. D’altronde, Sartre non ha fatto che ripetere, alla luce dei suoi interessi filosofici e delle sue preoccupazioni politiche, quanto già fecero i grandi autori del V secolo a.C., prendendo a piene mani e rielaborando, in rapporto ai bisogni del tempo, quello che uno stratificato patrimonio mitico offriva loro.