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“Un avamposto del progresso” di Joseph Conrad

di Sergio Leoni

Quando la letteratura, senza divenire stucchevole pamphlet e rimanendo alta letteratura, si fa denuncia dell’orrore del colonialismo

1024px map of the belgian congo wdl59La domanda, che per la verità interroga praticamente tutta la produzione letteraria di Joseph Conrad, in questo racconto prende la forma specifica del chiedersi se in questo caso l’autore si rifaccia in qualche modo ad un fatto realmente accaduto, di cui gli deve essere arrivata voce in uno dei tanti scali marittimi in cui approdava nel suo ruolo di capitano (ruolo che svolse, alla fine di un cursus espletato essenzialmente nella marina mercantile inglese, dopo averne ricoperto praticamente tutti i gradi), o se si sia trattato “soltanto” di un’opera di fantasia che, al limite, potrebbe essere ritenuta dall’autore stesso come emblematica di una situazione che egli deve aver sperimentato nei suoi numerosi viaggi.

Domanda oziosa tuttavia, perché, seppure alla luce di una sbrigativa analisi, non è difficile comprendere due fatti assodati che, rispetto al caso di questo scrittore polacco che sceglie l’inglese come sua lingua letteraria, sembrano poter contenere o almeno dare un primo contorno all’idea di letteratura che Conrad persegue senza scosse lungo tutta la sua vita letteraria. Da un lato, si intende dire, la verosimiglianza, la credibilità delle situazioni che sono l’ossatura sia del suoi romanzi (Nostromo, Sotto gli occhi dell’Occidente, romanzi di uno spessore notevole, non solo quanto a “dimensioni”, ma anche nei termini dello sviluppo più complesso delle storie narrate), e, insieme, un addentrarsi in territori in cui il principio di realtà non è essenziale e se non è sostituito da una fantasia slegata dal senso comune, pure spazia in territori più aperti a suggestioni (Freya delle sette isole, un racconto breve).

Un avamposto del progresso viene pubblicato sulla rivista inglese «Cosmopolis» nel 1897 e segue di solo qualche mese la pubblicazione di quello che è a tutti gli effetti, e secondo la stessa affermazione dello scrittore, il primo racconto di Joseph Conrad: La laguna. L’editore Adelphi riunisce in un unico e agile libro (ambedue i titoli contano poche pagine) due testi di cui il primo, che qui ci interessa e che giustamente da il titolo al volume, è stimato da Matteo Codignola, che firma la postfazione, “un documentario narrativo mascherato da romanzo in miniatura”. Si tratta della ricostruzione di un fatto di sangue (realmente) avvenuto in un immaginario “Stato Libero” che nella realtà altro non è che il Congo belga, in cui il mai abbastanza deprecato re Leopoldo compiva stragi di esseri umani e di animali in cosiddetti safari, in realtà nient’altro che inutili e spietate stragi, di cui Conrad sembra essere venuto a conoscenza una sera, nell’ora che favorisce le confidenze, chiacchierando con un compagno di viaggio sulla nave che lo portava in Africa.

E che poi sarà, questa specie di rito, questa chiacchierata al calare del sole africano o indonesiano, quando i ricordi riaffiorano alla mente e il desiderio di condividerli il naturale leit motiv, o almeno una sorta di clichè entro cui iniziare le narrazioni molto più lunghe delle grandi opere, una sorta di ouverture, per usare un termine musicale, di questo autore che resta infine in qualche modo difficile inserire in un canone realmente coerente.

La storia di questo breve racconto è presto detta e in nessun modo si può pensare di fare un torto (rivelandone una trama del resto ridotta all’essenziale) all’eventuale lettore che non avesse ancora aggiunto ai più grandi romanzi di Conrad quest’opera così significativa. Che si riduce poi, alla fin fine, alla cronaca di una sorta di catastrofe in un “avamposto”, appunto, non certo della civiltà (il titolo non può che evidentemente avere un significato ironico quando non del tutto beffardo), ma dello sfruttamento senza remore del patrimonio culturale, morale e materiale di un paese concepito dal colonialismo “solamente” come territorio da depredare senza alcun limite. In questo caso la ricchezza del paese, almeno nella zona in cui si svolge la storia, è costituita dal commercio dell’avorio ricavato da quella che è stata, in una realtà drammaticamente documentata, una vera e propria strage di elefanti.

I due personaggi principali, due soggetti cui non sarebbe difficile applicare il giudizio tranchant di Italo Svevo nei confronti del suo “Zeno”, degli “inetti”, e in ogni caso degli “inconsapevoli” della portata morale di quanto accade praticamente sotto ai loro occhi, passano da uno stato di totale abulia di cui la stessa “compagnia” è consapevole e tollerante, in quanto funzionale ad un commercio che i due devono solo osservare come meri spettatori, fino ad una escalation per cui un fatto di cui si accusano vicendevolmente (la vendita come schiavi dei lavoratori di fatica dell’avamposto, in realtà realizzata dal nero che è la vera longa manus della compagnia, nell’ottica di raggiungere, costi quello che costi, le quote di produzione richieste) diventa una specie di resa dei conti, un duello che li vedrà soccombere ambedue, esito finale e significativo di un capitalismo relativamente giovane ma già di rapina, che finisce, talvolta, per autodistruggersi, salvo poi rinascere in una forma “aggiornata” e più consona ai tempi. E infatti il commissario che visita l’”avamposto del progresso”, con colpevole ma calcolato ritardo di diversi mesi, non si preoccupa più di tanto della pessima gestione dei suoi sottoposti e di un esito così drammatico. In qualche modo dà per scontato un fallimento che, con ogni probabilità, era previsto fin dall’inizio, ma che per lui non è un problema reale. Verranno sostituiti i funzionari che hanno dato così cattiva prova di sé. L’”avamposto” rimane pedina piazzata su un territorio di cui non si conosce altro che la possibilità di sfruttamento.

Non è difficile, ne sia stato consapevole o meno Joseph Conrad, vedere in questo finale drammatico che quasi azzera il personale della stazione lungo un fiume di cui i due funzionari appena morti non conoscevano niente oltre la prima ansa, vedere la metafora, che non si configura da subito come una forzatura, ma solo come un ancora vago sentore di una catastrofe ben più ampia e destinata inesorabilmente a realizzarsi, il dramma cioè del postcolonialismo, che attraversa tutto il Novecento e si spinge, per più di un aspetto, fino ai nostri giorni.

La questione della tratta degli schiavi (“conclusa ufficialmente”, almeno in Inghilterra con la dichiarazione della fine della schiavitù soltanto nel 1838) in questo racconto è allo stesso tempo il tema principale entro cui inquadrare gli atteggiamenti dei pochi protagonisti e una disanima oggettiva di un fenomeno che Conrad doveva conoscere molto bene.

L’Occidente che si confronta con il cosiddetto “Continente Nero”, se confronto può essere definita una inesorabile invasione che tende a cancellare ogni espressione di una cultura che è oggettivamente “altra”, è quello stesso che, a dispetto dei buoni propositi sbandierati e costantemente disattesi, non ha alcun interesse ad esportare cultura, modi e stili di vita in cui crede e di cui crede di essere portatrice. Per meglio dire, o per dirla tutta, quei valori, quegli stili di vita devono essere vissuti dai colonialisti, relegati in eleganti e isolate proprietà, in cui le popolazioni locali possono solo avere il ruolo dei camerieri.

La storia reale del colonialismo, di fatto opposta a quella che una interessata “vulgata” ha voluto proporre, in praticamente tutte le nazioni coinvolte in questa autentica vergogna, a una popolazione inconsapevole o nel migliore dei casi rabbonita da una disinformazione costante, si condensa nel “mito duro a morire”, di cui parla ampiamente e con argomenti non controvertibili, almeno per quanto riguarda l’Italia, Angelo Del Boca, nel suo non più recente Italiani brava gente. Che mi sembra smonti in maniera definitiva il mito, appunto, e la leggenda di un colonialismo dal volto umano praticato dall’Italia, che nella realtà non è mai esistito.

Come si conviene ad una disanima dello stato “oggettivo” delle cose, che in Conrad è un tratto distintivo, quasi un metodo cui l’autore aspira, e che determina quei giudizi mai definitivi ma, piuttosto, spesso giustificati, in questo breve racconto non c’è alcuna concessione ad un “esotismo”, cioè in sostanza ad un travisamento consapevole della realtà, né un cedimento a suggestioni riguardanti un approccio meno che meno disincantato rispetto a fatti che si delineano in tutta la durezza, che spesso diventa senz’altro brutalità.

Ma c’è spazio per “altro”, in questo racconto.

E dunque, senza voler forzare un breve racconto a una visione del mondo perfino troppo ampia, rischio che peraltro con Conrad è sempre dietro l’angolo (basti pensare al profluvio di interpretazioni che hanno accompagnato l’uscita del film Apocalipse now, chiara rivisitazione di Cuore di tenebra), sembra di poter dire che almeno due elementi, due temi che poi diventeranno altrettanti stilemi nella produzione di questo autore oggi abbastanza ignorato, compaiono già in queste prime opere: il “caso” e, non del tutto conseguentemente, l’ineluttabilità degli avvenimenti che ogni individuo, mozzo o capitano, per restare nell’ambito del capitano Conrad, vive o, più propriamente, è “costretto” a vivere.

Un avamposto della civiltà rappresenta, in definitiva, la descrizione oggettiva di un processo inesorabile che ha finito per coinvolgere, in una corsa tanto folle quanto sconsiderata, tutte quelle nazioni europee che oggi blaterano goffamente di diritto internazionale, ma che non hanno mai fatto un solo gesto di ammenda che non sia quello genericamente ipocrita, e sostanzialmente autoassolutorio, di rinnegare un passato con cui non si è stati capaci di fare i conti fino in fondo. Con l’aggravante di pretendere di dare lezioni di vita, di politica, di etica a tutti quei popoli che sono la maggioranza dell’umanità (secondo ogni statistica possibile) verso cui un Occidente (per quanto questo termine possa ancora oggi significare qualcosa) non sa rapportarsi, creando di fatto tutte le crisi che abbiamo drammaticamente davanti agli occhi.

Conrad non ha mai preso posizione in maniera aperta o fortemente critica rispetto a temi così scottanti, a situazioni e contesti che egli ha toccato con mano.

Ora, occorre naturalmente contestualizzare l’opera di questo autore che, questo va non solo ribadito ma anche evidenziato, non si è tirato certo indietro a descrivere situazioni, contesti che nell’epoca in cui visse apparivano definibili in una “normalità” cui tutti si adeguavano, ma che nella loro descrizione “oggettiva” rappresentavano già a suo tempo, e sono ancora oggi, “oggettive” denunce di condizioni che nell’Ottocento in cui scrive Conrad potevano essere accettate. Ma tutta la produzione letteraria di Conrad va in un’altra direzione. In quella, per intenderci, in cui tutti i passaggi esistenziali della vita dei personaggi (ma evidentemente dell’“uomo” in generale) sono altrettanti capitoli di quella che emerge dalla sua produzione letteraria come una “interpretazione” dell’esistenza intesa non tanto come sfida, ma come sommessa e perciò eroica accettazione del suo caos, della sua indeterminazione.

Talvolta le “storie” sanno interpretare la “Storia” meglio di quelli che comunque restano gli essenziali “studi” faticosi e poco riconosciuti. Sono fortunate congiunzioni che si realizzano meno di quanto non si creda, probabili nell’Ottocento, rarissime negli anni cui viviamo.

Ma evidentemente non possiamo chiedere a Conrad quello che lo scrittore polacco non può, ragionevolmente, proporci. Non vale la “lettura” di interpretarlo come un antesignano di una critica forte ad un potere che, quando lo scrittore polacco scrive, muoveva i suoi primi passi ma, con la violenza che ha da subito espresso, anche se sembrava di là da venire, pure si era già presentata con un biglietto da visita inequivocabile.

Ma Un avamposto del progresso è comunque una “denuncia” a tutto tondo, ne sia stato o meno consapevole l’autore. Una denuncia più profonda di quanto non si creda e più puntuale di quanto non si immagini.

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Comments

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DANILO FABBRONI
Wednesday, 17 July 2024 17:31
2 COSE VELOCI:
IO NON ADDITEREI IL PENSIERO CONRADIANO COME NON ADDITTIAMO QUELLO ORWELLIANO DI CONDIVISIONE DI UNA PARTE IDEOLOGICA O DELL'ALTRO. IL ROMANZO E' UN PALUDAMENTO IN PRIMIS DI CHI LO SCRIVE UNA VERA E PROPRIA MASCHERA E QUINDI DECIFRARLO PER FAR COMODO ALLA PROPRIA IDEOLOGIA è UN FALSO. 2°: IL FATTO CHE LA GENTE ITALICA NON SIA STATA UNO STINCO DI SANTO è ACCLARATO MA LA DISONESTA' INTELLETTUALE DI CHI RICIANCIA QUESTA TESI è SMONTABILE COME UN LEGO SE SI TENESSE CONTO CHE GLI SOTROGOTI, INGLESI, AMMERIGANI ET LORO SPONDA PICCOLO POPOLO HANNO MAGNIFICATO LO SPETTACOLO DEL COLONIALISMO 100 VOLTE PIU' DI NOI. LAST BUT NOT: I FIJU DE PUDA INGLESI QUANDO MATTEI VOLLE DARE IL 50% DEL CONQUIBUS PETROLIFERO AGLI ARABI RISPETTO AL MISERRIMO 5% CHE ELARGIVANO I RABBINI INGLESI LO AMMAZZARONO, QUINDI DI CHE COSA CIANCIATE? DI ARIA FRITTA? DI MASCHERE IDEOLOGICHE?
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Sergio
Wednesday, 17 July 2024 10:26
Lessi questo racconto molti anni fa, come anche il resto di Conrad. Mi pare un'anticipazione di Cuore di tenebra, con la stessa ambientazione, gli insediamenti europei lungo il Congo, che in effetti Conrad aveva risalito al comando del battello Roi des Belges, ribattezzato Hearth of darkness nella finzione letteraria. Conrad era evidentemente consapevole dell'orrore (le ultime, ripetute parole di Kurz) di questa situazione, e anche della sua personale impotenza. Che gli attuali europei ignorino questo passato non remoto (circa un secolo fa) è un problema, dato che, come scritto nell'articolo, non sono ancora stati fatti i conti fino in fondo con questa storia, e, aggiungo, è ancora diffusa la mentalità che l'ha generata.
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