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"La pelle", di Maurizio Ferraris

Recensione di Giulio Bonali

Maurizio Ferraris: La pelle. Che cosa significa pensare nell'epoca dell'intelligenza artificiale, Il Mulino, 2025

9788815391315 0 0 536 0 75.jpgIl libro di Maurizio Ferraris “La pelle” sta avendo molto successo anche perché, forse un po' "furbescamente" per un professore di filosofia, tratta la questione dei rapporti mente-materia (cerebrale) partendo dalla realtà della cosiddetta intelligenza artificiale (ovviamente ben venga la furbizia, se serve a interessare alla filosofia della mente un pubblico più vasto dei soliti frequentatori abituali di nicchie culturali!).

Circa l’ intelligenza artificiale personalmente ritengo interessante soprattutto la questione teorica pura o di principio della mera possibilità “astratta” che macchine elaboratrici di dati e magari semoventi ed "attive" (robot) siano dotate di intelligenza e di pensiero cosciente; questo anche perché ritengo impossibile di fatto la realizzazione di artefatti che possano effettivamente porre il problema in pratica, data l' enorme complessità dei meccanismi che sarebbero a ciò necessari, che ritengo abissalmente, e anzi sideralmente, lontana da quella propria della "intelligenza artificiale" attualmente presente e pure di quella realisticamente futuribile, anche in tempi remotissimi.

Invece Ferraris la affronta in questo volume da un punto di vista innanzitutto pratico, come un problema "di fatto" piuttosto che “di diritto”, probabilmente anche perché è fortemente interessato a confutare gli sproloqui di numerosi informatici, tecnologi, scienziati cognitivi, filosofi della mente (più o meno neo- oppure vetero- positivisti-scientisti), ciarlatani, giornalisti, politicanti, ideologi vari, circa il preteso superamento dell' umanità-animalità naturale da parte delle “macchine intelligenti” reali odierne o almeno prossimamente future, nonché il preteso "transumanesimo", concetto per me vago e irrealistico, campato in aria, non affatto serio ma casomai tragicomico.

La sua liquidazione di queste iperboliche pretese circa l’ attuale IA mi sembra comunque pienamente condivisibile, anche se dissento da gran parte delle argomentazioni di filosofia della mente, biologia, neurologia e scienze cognitive con cui la argomenta.

Che le macchine attuali non possano avere coscienza, sensazioni, desideri, soddisfazioni e/o insoddisfazioni soggettive, volontà autonoma di agire, ecc. a me pare del tutto palese e indubbio malgrado i numerosi, frequenti sproloqui alla moda che pretenderebbero il contrario, ma per ragioni diverse da quelle proposte da Ferraris.

Innanzitutto sono meccanismi incomparabilmente più semplici ed “elementari”, ovvero di gran lunga meno complessi e sofisticati e funzionalmente variegati anche del più modesto, grossolano o “primitivo” degli organismi animali cui possa attendibilmente considerarsi correlata un’ esperienza cosciente (per esempio dei gangli nervosi di invertebraati dal comportamento particolarmente semplice); ed é ragionevole pensare che siano ben lontani dal quella complessità, imprevedibilità di fatto e versatilità o “creatività” di funzionamento (rectius: comportamento) che può essere ragionevolmente ritenuta una condizione necessaria (ma non sufficiente) perché sia possibile se ne diano correlati coscienti: sono funzionalmente molto più simili a pallottolieri sofisticati che a tessuti nervosi (naturali), sia pure estremamente grezzi.

Tuttavia anche tutti gli organi e tessuti e gli organismi naturali incomparabilmente più complessi dell’ attuale IA e ragionevolmente considerabili “dotati di coscienza”, dai modesti gangli nervosi di vermi o insetti ai cervelli umani, sono pur sempre letteralmente “meccanismi”: materiale biologico che in quanto tale è pur sempre e comunque riducibile “senza residui o difetti” a meri meccanismi fisico-chimici. Questo é indubbio, a meno che non si aderisca a qualche forma di vitalismo, ritenendo che nei fenomeni biologici qualche “ingrediente sovra- o preter- -naturale debba necessariamente aggiungersi ai ed interferire coi meri meccanismi fisico-chimici, per quanto estremamente “sofisticati” e complessi, onde consentire -sul piano ontologico- e spiegare -sul piano epistemologico- il “funzionamento-comportamento degli organismi viventi”, ovvero la vita stessa.

Inoltre le reali (-stiche) macchine “artificialmente intelligenti” non solo sono realizzate da uomini secondo criteri di funzionamento intenzionalmente perseguiti dai loro costruttori ed utilizzatori (umani; con la loro intelligenza naturale), dotate di hardware e di software da questi ultimi decisi secondo le loro esigenze soggettive, ma anche e soprattutto sono provviste di dati di input e di richieste di dati di output interamente stabiliti ad libitum dei loro utilizzatori. Id est: non sono che meri strumenti nelle loro mani, coi quali loro -gli utilizzatori umani “naturali”- perseguono i loro propri scopi, e non possono certamente essere ritenuti “agire” (o meglio: funzionare) affatto secondo pretese finalità, desideri, volontà autonomi, propri delle macchine stesse, palesemente inesistenti.

Queste semplici considerazioni a mio modesto parere bastano e avanzano per risolvere senza residui dubbi o incertezze la questione di fatto, avente implicazioni pratiche, se questi artefatti reali (-stici) possano essere considerati o meno soggetti coscienti e intenzionali di scelte e azioni.

Dunque non sono queste rudimentalissime realizzazioni della cosiddetta I. A. ad essere filosoficamente interessanti a proposito della filosofia della mente, cioé circa i rapporti fra materia e coscienza ad essa correlata.

Lo sono (sarebbero) invece artefatti -possibili in lenea puramente teorica o di principio- che presentassero nel loro funzionamento (correttamente descrivibile come comportamento senza virgolette, letteralmente) elevata complessità e versatilità e imprevedibilità di fatto, nonché autonoma iniziativa non subendo passivamente l’ uso intenzionale da parte di altre entità consapevoli; artefatti che si possono del tutto ragionevolmente considerare irrealizzabili di fatto, che sono di interesse non affatto pratico ma unicamente teorico, come concetti implicati in esperimenti mentali.

Infatti secondo me, contrariamente alla reale ed ipotetica ma realistica "IA" ma anche a quanto Ferraris attribuisce in linea teorica o di principio pure ad ipotetiche machine "intelligenti-attive" dal comportamento effettivamente similumano o per lo meno similanimale, nulla vieta di immaginare meccanismi artificiali -estremamente sofisticati e complessi- in grado di simulare effettivamente e pienamente (e di riferire linguisticamente) una volontà, dei desideri, dei bisogni, delle soddisfazioni, delle insoddisfazioni, ecc. coscienti: il concetto di siffatte macchine é sì -oggi; e lo sarà di fatto sempre- privo di estensione o denotato reale, ma é comunque ben fornito di logicamente corretta, non autocontraddittoria, sensata connotazione o intensione meramente cogitativa. Id est: é possibile in linea teorica o di principio.

Ferrarris attribuisce grande importanza al fatto che le macchine da taluni pretese "pensanti" attuali o realisticamente futuribili sono realizzazioni intenzionali umane, cui i loro creatori umani hanno assegnato “compiti” (che potrebbero in un certo senso essere considerati "tendenze comportamentali" cioé attive reazioni non indeterminate o casuali all' ambiente in cui si trovano), mentre gli animali naturali si trovano ad avere bisogni, tendenze (analogamente) comportamentali, desideri, volontà, scopi, ecc. in conseguenza dell’ evoluzione biologica per mutazioni genetiche casuali e selezione naturale (dunque non per “creazione” finalistica da parte di alcun soggetto intenzionale).

Ma perché mai anche un organismo artificialmente costruito intenzionalmente (per così dire "provvidenzialmente" o comunque e per lo meno per determinate finalità) dall' uomo, che (come possibilissimo in linea puramente teorica, di principio, non di fatto) fosse magari anche materialmente-strutturalmente simile ad un animale naturale (fatto di acqua, sali minerali, proteine, acidi nucleici, glicidi, lipidi, ecc.) o comunque per lo meno indistinguibile funzionalmente (con determinate tendenze “comportamentali”-reattive all' ambiente, attuate o frustrate a seconda dei casi, e magari con la possibilità di riferirle verbalmente e di riferirne la realizzazione-"soddisfazione" o meno), non dovrebbe essere "dotato di", o per meglio dire accompagnato da, coscienza?

Coscienza che, contrariamente a Ferraris e a tutti i monisti materialisti, ritengo non stia in nessun senso o in nessun modo, “a nessun titolo” (nemmeno come “emergenza” o “sopravvenienza” irriducibili) nei cervelli o loro equivalenti funzionali non biologici (ove infatti altro non si può trovare e non c' é che neuroni, assoni, sinapsi, ecc., oltre ad altre più aspecifiche strutture biologiche, o comunque altra materia funzionalmente analoga), e nemmeno che si trovi nei “cervelli più i corpi o gli equivalenti funzionali non biologici di cervelli e corpi (arti dei robot, ecc.), né a “tutto ciò più l' ambiente (materiale) da loro esplorabile col quale direttamente interagiscono” (che sono con tutta evidenza cose diversissime da pensieri coscienti). Coscienza che invece credo sia a tutto ciò biunivocamente correlata, ovvero biunivocamente corrispondente nel suo svolgersi nel tempo; essendo tutto ciò nient' altro che "contenuto" -fenomenico = apparente in qualche coscienza - reale o per lo meno potenziale; ma non di quella particolare coscienza che a tali fenomeni materiali (cervelli o equivalenti funzionali artificiali di cervelli, più o meno estesi a comprendere i rispettivi corpi naturali o artificiali o anche parte dell’ ambiente circostante) è da ritenersi correlata, bensì di altre, diverse coscienze, quelle di chi tutto ciò osservasse (direttamente o indirettamente, per esempio tramite le immagini neurologiche funzionali nel caso di uomini o altri animali naturali).

Secondo Ferraris una macchina artificiale non potrà mai essere cosciente, contrariamente agli uomini e a molti altri animali, perché non sarebbe un organismo biologico bensì un meccanismo: “Scartiamo l’ analogia traballante (...) fra l’ intelligenza artificiale e il cervello, che zoppica per una quantità di ragioni, a partire dalla radicale differenza fra gli organismi e i meccanismi” (pag. 32). Ma quale “radicale differenza”? La differenza é meramente quantitativa, consistendo nella enormemente maggiore complessità, rispetto alla più sofisticata delle macchine realizzate (e di fatto realizzabili) da noi uomini, di quel mero meccanismo che é comunque un organismo vivente. E infatti, a meno di non cadere nel vitalismo, qualsiasi organismo, in quanto appartenente al mondo fisico (secondo una concezione scientifica della realtà necessariamente caratterizzato dalla “chiusura causale” a qualsiasi ipotetico ente od evento non strettamente fisico-materiale), non può essere altro che un meccanismo fisico-chimico, per quanto estremamente complesso: nessun ingrediente non fisico-naturale può esservi compreso né interferirvi perché sia rispettato lo scientificamente imprescindibile principio di chiusura causale del mondo fisico, neppure in quanto “emergenza” o “sopravvenienza”: qualsiasi cosa questi ultimi due concetti possano significare, non può trattarsi comunque che di naturalissimi aspetti ed elementi della materia fisica-chimica, alla materia fisica-chimica integralmente ri(con)ducibili, senza alcuna differenza qualitativa ma casomai solo “di grado (di complessità)” rispetto a quelli propri della materia minerale (non vivente).

Il fatto problematico importante, quello che davvero conta (filosoficamente) è che nemmeno delle coscienze degli altri uomini o animali possiamo avere certezza, "a voler cercare filosoficamente il pelo nell' uovo": né ovviamente certezza empirica (nessuno può "sbirciare nelle altrui coscienze" per vedere se c’ è qualcosa di reale oppure sono vuote di realtà, ovvero non esistono (o meglio: non ha alcun senso ma è un’ assurdità lo pseudoconcetto dello "sbirciare in altrui coscienze"); né certezza logica-razionale, dal momento che il pensiero che gli altri uomini e animali siano meri zombi privi di coscienza non é autocontraddittorio, assurdo, insensato bensì perfettamente corretto da un punto di vista logico logico, ovvero è dotato per lo meno di una ben reale intensione o connotazione cogitativa; ergo: nulla vieta la possibilità (ipotetica quanto la sua negazione) che abbia anche una estensione o denotazione reale, ovvero che così sia fatta la realtà.

Ferraris non ignora questa considerazione, che cita da Alan Touring, (pag. 134), ma la liquida sommariamente come “stravagante”, non argomentando minimamente contro di essa e limitandosi a rilevare, a mio parere molto banalmente e impertinentemente (alla lettera: senza alcuna rilevanza per la questione) che il pensiero (ipotetico; e la coscienza) di una macchina artificiale sarebbe comunque un pensiero (e una coscienza) affatto diverso dal pensiero umano (e anche animale) naturale: anche il pensiero di ciascun uomo e altro animale é in qualche misura diverso da quello di ciascun altro, ma ciò ovviamente non implica minimamente che agli altri uomini e animali non sia attribuibile il pensiero.

La filosofia molto spesso e alquanto tipicamente prende in considerazione ipotesi che nella pratica umana “corrente” potrebbero apparire ”stravaganti” per il semplice motivo che non può far passare acriticamente nessun presupposto teorico, più o meno esplicito o sottinteso che sia, dell’ agire pratico umano, ma tutti li deve “spietatamente” sottoporre al vaglio della critica razionale. Che non significa necessariamente negarli, ma magari anche precisarne (quali ne siano) le condizioni di verità (e la misura in cui la loro soddisfazione possa essere provata o meno).

Noi (giustamente; e di fatto universalmente, almeno se facciamo parte del novero di coloro che sono generalmente considerati sani di mente) non professiamo il solipsismo ma crediamo alla realtà, pur non dimostrabile al di là di ogni sia pur “irragionevole” -ma razionale!- dubbio, di altre esperienze coscienti oltre alla nostra propria immediatamente esperita; però lo facciamo arbitrariamente, infondatamente, indimostrabilmente, alla lettera "irrazionalisticamente, per fede", perché è più bello e desiderabile pensare e agire nella convinzione che non siamo soli al mondo e gli affetti che proviamo sono rivolti a persone reali e non a personaggi letterari come quelli di un buon romanzo o di una penosa fiction.

E nulla vieta (non é dimostrabile che sia falso) che, come é attribuibile agli altri uomini e animali, un’ esperienza cosciente possa essere riconosciuta pure a macchine che si comportassero indistinguibilmente da animali e uomini (naturali; se per assurdo, ammesso e non concesso, macchine siffatte fossero realizzabili); cioè che avessero volontà, desideri, aspirazioni, scopi, che Ferraris pretende debbano essere limitati ai soli organismi naturali (umani o altrimenti animali), per il fatto che non sono stati intenzionalmente realizzati da un artefice cosciente ma si sono evoluti biologicamente per mutazioni genetiche casuali e selezione naturale.

Infatti la volontà, anche negli organismi naturali, può essere presa in considerazione come oggettiva tendenza ad agire per determinati “risultati” (conseguenze delle azioni stesse, cioè effetti di esse in quanto cause) constatabile “in terza persona” da altri soggetti, oltre che “in prima persona” (soggettivamente) da quelli che la avvertono e la esercitano come desiderio cosciente, soddisfatto (piacevolmente) o meno (dolorosamente). E a questo proposito anche gli animali e gli uomini sono “fatti per desiderare” da altri che da se stessi (immediatamente dai loro genitori, complessivamente dall’ evoluzione biologica); esattamente come da altri che da se stessi (da uomini naturali) sarebbero “fatti per desiderare” (tendere ad agire per causare determinati effetti), per assurdo, ammesso e non concesso, automi dal comportamento effettivamente similumano-similanimale: nessuna differenza rilevante a proposito dell’ eventualità che l’ oggettiva azione per causare determinati effetti fosse accompagnata o meno dalla sensazione mentale della volontà o desiderio di ottenere tali effetti (e dalle correlate soddisfazione-piacere e/o insoddisfazione-dolore).

Cioé, a mio modo di vedere e contrariamente a Ferraris, la questione filosoficamente rilevante non è che:

-i robot e l’ “IA” non sono conseguenza meramente causale, afinalistica dell' evoluzione biologica -come lo sono gli animali dotati di intelligenza naturale (e coscienza!) più o meno sviluppata a seconda dei casi- ma invece realizzazioni intenzionali-finalistiche di soggetti consapevoli (umani); e soprattutto non è che

-dei robot (concepibili in linea di principio e non realizzabili di fatto; ma questo filosoficamente -ontologicamente- non conta nulla, é irrilevante!) dal comportamento effettivamente similanimale-similumano non potrebbero comunque avere bisogni, desideri, finalità -soddisfatti o meno- coscienti: nulla vieta di pensare in maniera logicamente corretta, sensatamente che potrebbero averli -eccome!- e perfino che potrebbero benissimo riferirne linguisticamente! Ergo -anzi: id est!- ciò è teoricamente, in linea teorica o di principio, "filosoficamente" possibile.

E’ invece che l’ esperienza cosciente propria di ciascun senziente (naturale che sia o artificiale che fosse) è l’ unica di cui il suo soggetto possa avere certezza (empirica), mentre altre, proprie di diversi animali o di irrealistiche macchine artificiali dal comportamento effettivamente similumano-similanimale, sono credibili esistere, ma non affatto provabili, né empiricamente, né logicamente.

La questione di fatto dell’ esistenza o meno di esperienza cosciente correlata all’ “IA” reale o comunque realistica a mio parere non si pone nemmeno, in quanto trattasi di meri strumenti utilizzati da uomini coscienti (e più o meno intelligenti), dal funzionamento (e non: comportamento!) tutt’ altro che similanimale-simuilumano, notevolissimamente più semplice, stereotipato, prevedibile. E la questione “di diritto”, puramente teorica-filosofica dell’ esistenza o meno di esperienza cosciente correlata a una (attualmente non reale e anche per sempre impossibile di fatto) intelligenza artificiale dal comportamento effettivamente similanimale-simuilumano é altrettanto insolubile razionalmente (ma solo decidibile irrazionalmente, arbitrariamente, per fede) che quella che si pone a ciascuno di noi se vene siano o meno di correlate ad altre creature naturali (oltre che a quella empiricamente provata di ciascuno di noi).

E se per assurdo, ammesso e non concesso, in futuro si potessero di fatto realizzare macchine per davvero similanimali-similumane, allora si imporrebbe il principio etico di prudenza: meglio rischiare di trattare come una persona cosciente -e rispettivamente come una persona umana cosciente- qualcosa che non lo fosse, piuttosto che rischiare di trattare come qualcosa di non cosciente -e rispettivamente di non umano- qualcosa che lo fosse.

Ferraris sostiene anche che il pensiero umano (dalla peculiare, sviluppatissima intelligenza, senza pari nel restante regno animale), con la conseguente origine e sviluppo della cultura umana, della “storia umana” come particolarissimo caso nell’ ambito della “storia naturale”, sarebbe conseguenza di una pretesa umana “difettosità biologica”, che per consentire la sopravvivenza della nostra specie avrebbe necessitato della tecnica; e che in conseguenza della tecnica sarebbero sorti e si sarebbero sviluppati il pensiero (che talora, un po’ hegelianamente, denomina “spirito”, talaltra “coscienza”, e perfino “anima”) e la cultura umana. Rileva infatti che i cuccioli umani per poter sopravvivere necessitano a lungo delle cure parentali e che anche la sopravvivenza degli uomini adulti è esposta a gravi rischi. Ma si tratta di considerazioni inesatte da cui trae arbitrariamente conseguenze infondate.

Infatti anche i piccoli di tante altre specie sono esposti a rischi mortali per lunghi periodi nei quali necessitano di assidue e intense cure parentali (soprattutto fra gli uccelli, i cui pulcini in molti casi per molto tempo non sanno volare e procurarsi vitto e alloggio, che ottengono dai genitori, da cui imparano anche a poco a poco a procurarseli, non diversamente dai bambini se non per il fatto che i primi necessitano di un semplice addestramento parentale di istinti innati e stereotipati, mentre i secondi abbisognano di un’ educazione a comportamenti culturali, almeno in rilevante misura storicamente e geograficamente e socialmente variabili e reciprocamente alternativi; e però nessuna specie di uccelli o di altre specie animali con prole più o meno inetta ha usufruito di una tecnica, né ha sviluppato una cultura e una storia neanche minimamente paragonabili a quella umana).

Ferraris, che pure ci tiene moltissimo a proclamarsi naturalista conseguente e alieno a qualsiasi irrazionalistico vitalismo o misticismo, non ci dice mai da dove (naturalisticamente) provenga la tecnica: sembrerebbe ritenere che cada dal cielo come la manna; e sostiene che la tecnica stessa sia all’ origine, “per esaptazione” [termine tecnico biologico-evoluzionistico da lui peraltro malinteso e usato a sproposito, N.d.R.] ed “ibridazione” con la pretesa esclusiva “difettosità biologica” umana, della cultura, della storia e infine del pensiero (ma talora dice “spirito”, talaltra “coscienza”; come se moltissimi altri animali non umani ne fossero privi!): “l’ umano diviene tale quando il suo organismo incontra delle tecniche [da dove saltano fuori?, N.d.R.]. (omissis) In questa ibridazione non assistiamo all’ alienazione, ma alla rivelazione della natura umana” (pag. 145); “ ‘spirito’ deriva dalla industriosità e dalla capitalizzazione tecnica che lo rendono possibile allontanandoci da ciò che é semplicemente naturale” (pag. 170).

In realtà la tecnica nasce dalle sviluppatissime capacità intellettive umane (immaginazione, razionalità, ecc.; ovvero pensiero, spirito, ecc.), prodotte in precedenza (in quanto cause di essa!), dall’ evoluzione biologica in maniera del tutto fortuita (come tutto nell’ evoluzione biologica) per mutazioni genetiche casuali e poi diffuse e vieppiù sviluppatesi per selezione naturale correlatamente all’ ingrandimento e al “perfezionamento qualitativo, funzionale” del cervello; è infatti dal formidabile, performantissimo cervello umano e dalle spettacolari prestazioni cognitive-intellettive che consente (soprattutto l’ invenzione del linguaggio come formidabile potenziamento della interazione sociale e della creatività ed efficacia del pensiero stesso) che derivano lo spettacolare sviluppo umano della tecnica (a livelli rudimentalissimi presente anche in altre specie di primati e forse non solo) e in generale la cultura e la storia umana. Precisamente la cultura e la storia umana nascono dal fatto che la natura umana intelligente dà origine agli spettacolari sviluppi esclusivamente umani della tecnica (e non viceversa, come sembrerebbe pretendere Ferraris!): ogni tecnica prima é desiderata, immaginata, calcolata, progettata dal pensiero umano e infine, solo dopo tutte queste prestazioni intellettive, dopo tutti questi preesistenti pensieri -nonché alle attività manuali che essi guidano- viene realizzata, comincia ad esistere; e queste formidabili ma naturalissime prestazioni intellettive danno origine al pluslavoro, cioé alla produzione di mezzi di sussistenza non limitati alla mera sopravvivenza-riproduzione immediata ma eccedenti questa elementare esigenza cui gli altri animali, compresi quelli dotati di limitate e rudimentali tecniche, sono inevitabilmente limitati. E col pluslavoro iniziano la storia e la cultura propriamente umane.

Mi si consenta la citazione di un altro passo un po’ più esteso di Ferraris, che bene chiarisce il suo fraintendimento irrazionalistico e suo malgrado vitalistico-innaturalistico: “così il mondo dello spirito non é il frutto di una Pentecoste; nè (omissis) il marchio di fabbrica che il creatore ha lasciato nelle creature; né infine un insieme di facoltà deposte in noi da una natura che, apparentemente, non aveva nulla di meglio da fare che provvederci di neuroni del linguaggio, della lettura, della socialità, della cordialità, oltre che del bernoccolo della matematica. Non c’ é nulla di simile, bensì una ibridazione, una esaptazione e una emergenza” (pagg. 170 - 171).

Se la tecnica é stata all’ origine del pensiero (o spirito o anima, ecc.) evidentemente -logicamente, pena la caduta in contraddizione!- la prima, elementarissima e rudimentalissima realizzazione tecnica non poteva essere stata realizzata dal pensiero umano o animale che da essa (e dunque solo dopo l’ esistenza reale di essa) avrebbe avuto origine. Essa può avere favorito l’ enorme sviluppo ulteriore del pensiero e della cultura umana, ma certamente non determinato la loro origine!

Ebbene, una tecnica che, come pensa Ferraris, non sia pensata e realizzata conseguentemente (rectius: correlatamente) alle facoltà di cui naturalisticamente l’ evoluzione biologica ha dotato il cervello umano ma che invece, venga da chissà dove (mistero!), e dunque si introduca in natura miracolosamente (come un ingrediente di origine o provenienza sopra- o comunque preter- o extra- -naturale) nonché provvidenzialmente a compenso della “difettosità naturale” umana, e poi ibridi, (pseudo-) esapti e provochi un’emergenza mi pare metaforicamente illustrata alla perfezione proprio dal miracolo della Pentecoste!

E’ invece proprio -e tipico!- della natura, per dirlo con metafora antropomorfica alla Ferraris, “non avere nulla di meglio da fare che provvedere, ad esempio, elefanti di proboscidi, cervi maschi di monumentali corna ramificate, pavoni di code spettacolari e poco adattive, giraffe di colli “chilometrici”, lucciole di parti del corpo luminescenti, altri insetti di intestino terminale capace di emettere gas che al contatto con l’ atmosfera si incendiano facendo letteralmente scintille, e altre simili amenità, fra le quali perfettamente si colloca proprio un cervello umano dotato di neuroni del linguaggio, della scrittura, della lettura, ecc.): è proprio questo (naturalistissimamente) il bello della vita!

Per sostenere questa sua tesi, Ferraris sostiene con forza una precedenza dell’ azione sul pensiero in natura (in generale, e nella natura umana in particolare), secondo me forzando, enfatizzando e “deformando” oltre la sua natura reale questo effettivamente reale rapporto di interdipendenza fra pratica e teoria.

E’ ben vero che nel regno animale o per lo meno umano “da sempre” una qualche forma di pensiero cosciente e di conoscenza é “inestricabilmente intrecciata” (ontologicamente, nella realtà), ma da distinguersi chiaramente (in sede epistemica, nella conoscenza della realtà) con l’ azione pratica. Infatti i cani esperti, i topi di laboratorio adeguatamente addestrati e tanti altri animali percorrono “a colpo sicuro” più o meno complicati itinerari naturali e labirinti artificiali in quanto sanno (pensano) che quelle azioni da loro immaginate, deliberate e praticate (nell’ ordine o al massimo contemporaneamente) consentiranno loro di procurarsi cibo, acqua, riparo da pericoli, ecc.: filogeneticamente (dunque ontologicamente) il pensiero era reale e accompagnava l’ azione (e viceversa) da ben prima che fosse reale l’ uomo, nonché la tecnica e in generale la cultura umana.

Un ultimo appunto critico mi sentirei di muovere alla concezione della tecnica di Ferraris (chiedo venia della pignoleria).

Mi sembra che in generale tenda a enfatizzarla e sopravvalutarla; per esempio talora sembra chiaramente ritenere che la tecnica stessa possa cambiare la natura (per esempio contribuendo a determinare appunto la nascita della cultura umana) in senso eccessivamente forte, assoluto, come se questo cambiamento potesse implicare la trasgressione o il mutamento delle leggi oggettive e indipendenti dall’ agire umano e dalla tecnica da esso impiegata. In realtà è del tutto evidente che l’ uomo, grazie alla tecnica, non domina-sovverte la natura derogando dalle sue immodificabili leggi oggettive, ma piuttosto la asseconda-utilizza impiegando per suoi scopi realistici (e pur sempre fallibilmente) tali leggi inalterabili.

In questo libro Ferraris usa ambiguamente il termine “coscienza”, talvolta intendendo l’ esperienza fenomenica costituita da sensazioni, pensieri (in filosofia della mente spesso denominati complessivamente “qualia”, specie quando si intende evidenziarne l’ aspetto immediatamente, irriducibilmente soggettivo, esperibile ”in prima persona”), talaltra riferendosi all’ etica (imperativi e valori morali, scrupoli, scelte comportamentali problematiche, pentimenti, ecc.); ma anche in questo secondo senso nel quale tende inavvertitamente a scivolare le nozioni del dovere e della giustizia stesse non sono conseguenza della tecnica, dalla quale non sono preceduti e causati, ma con indubbia evidenza empirica alla tecnica sono invece per lo meno contemporanee nella filogenesi (evoluzione biologica dell’ umanità); e probabilmente sono precedenti anche nello sviluppo ontogenetico embrionale, fetale ed extrauterino degli individui umani, essendo semplicemente tanto le une quanto l’ altra presenti fin dall’ origine naturale della cultura umana dalla complessità, variabilità, eterogeneità, dei pensieri, scelte, comportamenti umani che sono correlate naturalisticamente con lo sviluppo biologico (l’ evoluzione darwiniana) del cervello umano (e anzi, a livello elementarissimo o “embrionale”, perfino nei suoi “prodromi non umani”, fra altre specie di primati e anche fra altre specie di mammiferi e forse perfino di uccelli, come provato dalla moderna etologia).

La tecnica, contrariamente a quanto pretenderebbe Ferraris, non è un misterioso ingrediente preternaturale “provvidenzialmente” giunto in soccorso di una pretesa ”imperfezione” umana, a mo’ di deus ex machina, precedente la cultura e la storia umana, che avrebbe generato per “contaminazione”, “ibridazione” e (fraintesa) esaptazione; é invece una conseguenza e un aspetto fra gli altri della natura (umana, ma embrionalmente, rudimentalmente anche pre-umana), come tutto il resto della cultura e della storia (umana), che ha potentemente contribuito a sviluppare.

Decisamente stucchevole, ma soprattutto ingiustificata, falsa e pericolosa è per me la pretesa di Ferraris di far fraintendere in senso letterale quella che al massimo può essere considerata una mera metafora, cioè quella della “capitalizzazione” della mente umana (o coscienza, o pensiero, o spirito, o anima, o cultura...), cioè della conservazione, condivisione [evidenziazione mia, G.B.], archiviazione, valorizzazione, riordinamento, rielaborazione, critica, sviluppo, incremento quantitativo, approfondimento o miglioramento qualitativo di conoscenze più o meno teoriche e di competenze più o meno pratiche consentito dalla tecnica (dalle pitture e incisioni rupestri fino all’ “IA”); appunto fraintesa per una pretesa “capitalizzazione” in senso letterale, che è tutt’ altra cosa.

Il capitale é -letteralmente- ricchezza (valore di scambio, denaro) che si incrementa incessantemente e tendenzialmente all’ infinito attraverso lo sfruttamento del lavoro vivo, cioè estorcendo legalmente plusvalore dal valore d’ uso della forza lavoro acquistata sul mercato al suo valore di scambio.

Il sapere di per sé (astraendo dagli effetti, peraltro determinanti, dei rapporti sociali vigenti fra gli uomini), tende (-rebbe) a diffondersi gratuitamente, anche come condizione per un suo ulteriore sviluppo, incremento, approfondimento, miglioramento quantitativo.

Ma i (determinanti) rapporti sociali capitalistici per loro natura tendono necessariamente, inevitabilmente a che sia acquisito (copiato) dalla concorrenza e negato (celato) alla concorrenza (degli altri capitali), tendono a privatizzarlo e a venderlo (e comprarlo) sul mercato a caro (o basso) prezzo; e di conseguenza, in misura variabile a seconda delle circostanze, a limitarne l’ incremento quantitativo e lo sviluppo qualitativo, a inibirlo, frustrarlo, isterilirlo: questa é la realtà dei fatti, e non le favole a lieto fine, le edulcorate descrizioni e gli imbellettamenti ideologici proposti da Ferraris!

Inoltre la logica del capitale e dell’ organizzazione sociale capitalistica, il suo oggettivo, inevitabile “modo di funzionamento” si basa sulla ricerca del massimo profitto possibile a breve termine e a qualsiasi costo -pena il fallimento e la scomparsa a vantaggio di altre imprese “più spregiudicate”- da parte di unità produttive (imprese private) in reciproca concorrenza, senza una efficace pianificazione complessiva di produzioni e consumi; e questo fatto reale é all’ origine in generale di usi dannosi della tecnica (per esempio la produzione e il consumo di cose come il tabacco e altri veleni non nascono automaticamente dalla tecnica che li consente, ma sono promossi dalla logica oggettiva del capitalismo).

Ferraris, polemizzando contro un andazzo irrazionalistico, antiscientifico e tecnofobico corrente (anche come reazione irrazionale al suo non meno irrazionale impiego capitalistico!) afferma che la tecnica é di per sé neutra, né necessariamente utile né necessariamente dannosa all’ umanità, avendo invece effetti che dipendono strettamente dagli scopi per i quali é impiegata. A mio parere é invece la scienza pura, per lo meno se e quando e nella misura in cui sia correttamente praticata e teorizzata, ad essere “neutra” (o meglio: oggettiva, di per sè non condizionata nei suoi contenuti di conoscenza -ma comunque nel suo pratico svolgersi e progredire- dagli interessi soggettivi di chichessia ma solo dalla realtà oggettiva empiricamente verificabile); mentre la tecnica (anzi le diverse tecniche), essendo o comunque potendo essere in linea di principio considerate applicazioni pratiche-economiche della scienza pura, non sono mai “neutre” ma almeno in qualche misura sempre inevitabilmente più o meno vantaggiose e/o svantaggiose (all’ umanità complessiva oppure a questo o a quel gruppo o individuo umano in reciproca alternativa a seconda dei casi).

Ed in particolare la dannosità in larga misura inevitabile della tecnica nel contesto del capitalismo oggi dominante, proprio in virtù della concorrenza fra imprese private che caratterizza l’ economia e del conseguente orientamento verso l’ incremento illimitato di produzioni e consumi che oggettivamente impone in un contesto naturale limitato, tende anzi oggi, al livello ormai raggiunto dalla forza produttiva (e inevitabilmente almeno in qualche misura anche distruttiva) della tecnica stessa, sempre più ad annientare irreparabilmente le condizioni fisico-chimiche e biologiche della sopravvivenza della specie umana (come “effetto collaterale” indesiderato ma non evitabile e di fatto non evitato bensì al massimo superficialmente, inadeguatamente attenuato), alla sua “estinzione prematura e di sua propria mano” 1.

Non credo dunque di esagerare, ritenendo che questo della “capitalizzazione” pretesa letterale del sapere sia uno scorretto escamotage semantico, apologetico dell’ ordine sociale esistente, iniquo e foriero di gravissime, catastrofiche, irreparabili conseguenze per l’ umanità. Niente di meno!

Nell’ ultimo capitolo dell’ opera Ferraris sostiene che la volontà umana (in tutte le sue declinazioni: desideri, scopi, finalità, intenti estetici, imperativi etici, ecc.) sarebbe originata dalla consapevolezza umana (assente sia negli altri animali che negli artefatti umani più o meno “intelligenti”) della propria inevitabile fine (la morte).

Ed effettivamente (ma alquanto ovviamente) la consapevolezza della morte (che si può ragionevolmente ritenere solo umana e non di altri animali) é importante, é di grande interesse per l’ uomo, ha grandi conseguenze sul comportamento umano individuale e sociale e sulla cultura; e tuttavia desideri, finalità, imperativi etici e godimenti estetici esistono ed operano realmente nella cultura e nel comportamento umano anche a prescindere dalla consapevolezza della morte, anche in assenza di essa (per lo meno del pensiero presentemente in atto di essa), anche nell’ illusione, diffusissima più o meno in tutte le epoche storiche anche se non esclusiva probabilmente in nessuna, dell’ immortalità.

La volontà, i desideri, le finalità e i valori etici, le attrazioni estetiche e in generale la cultura non vengono certamente meno in chi crede nell’ immortalità dell’ anima e dunque non é consapevole della propria inevitabile fine come persona (possono casomai essere parzialmente diverse rispetto a quelli dei non credenti).

Le finalità degli uomini credenti nell’ immortalità dell’ anima cambiano (per esempio diventa fondamentale il raggiungimento della beatitudine eterna; ma il grande Severino Boezio testimonia che questo non é affatto inevitabile!) rispetto a quelle di chi é consapevole della propria fine ineluttabile, ma esistono realmente e realmente operano, come pure esistono -diversamente- ed operano negli animali.

Inoltre Ferraris afferma che “la volontà (omissis) conferisce un fine; ed é il possesso di questa finalità che rende possibile la razionalità”, e che “La ragione é la facoltà dei fini” (pag. 245). Ed è ben vero, come anche sostiene, che la mente non é solo ragione (pensieri, inferenze, calcoli, ecc.) ma anche volontà (desideri, sentimenti, soddisfazioni, insoddisfazioni, ecc.); però la ragione non é un mero sviluppo dei sentimenti, come pretenderebbe, bensì una ben diversa facoltà mentale (sostanzialmente solo umana, contrariamente alla volontà).

In realtà la ragione é innanzitutto (ma non solo) la facoltà dei mezzi atti al raggiungimento dei fini (ovvero alla soddisfazione della volontà), che infatti non sono posti (dimostrati) dalla ragione stessa, bensì avvertiti istintivamente, irrazionalmente (già il grande David Hume aveva acutamente rilevato che non esiste possibile inferenza o dimostrazione razionale dall’ essere al dover essere).

La ragione é importante per l’ uomo, non perché ne determina o condiziona gli scopi (infatti ben presenti anche negli altri animali “non razionali”), ma per tentare di compiere al meglio le scelte fra le aspirazioni, gli scopi, in ultima istanza gli istinti ad agire, dal momento che ciò che differenza il comportamento umano é la presenza di istinti e aspirazioni incalcolabilmente più numerosi, estesi, variegati, in gran parte reciprocamente incompatibili, non soddisfabili se non gli uni al prezzo dell’ insoddisfazione degli altri; la ragione non ci dice cosa desiderare, ma casomai:

innanzitutto quali desideri e scopi sono realisticamente realizzabili e quali non lo sono; quali lo sono congiuntamente e quali disgiuntamente (cioè la rinuncia alla soddisfazione e al conseguimento di quali é conditio sine qua non della soddisfazione e del conseguimento di quali altri);

e inoltre quali mezzi sono necessari e possibili a realizzarsi ed utilizzarsi, nelle condizioni oggettive di volta in volta date, per il conseguimento dei fini realisticamente raggiungibili (singolarmente o congiuntamente a seconda dei casi). Ovviamente -lo dico per prevenire una obiezione abituale, quasi immancabile degli irrazionalisti- potendo sbagliare in entrambe queste sue funzioni.

La ragione può anche contribuire a suscitare in noi nuovi scopi che nemmeno avvertivamo istintivamente, irrazionalmente di desiderare finché la ragione stessa non ce ne aveva fatto conoscere la realizzabilità (per esempio prima dell’ invenzione degli aerei nessuna persona sana di mente desiderava o si poneva lo scopo di andare da Roma a Santiago del Cile o a Tokio in giornata e prima che la ragione dimostrasse che si poteva inventare il telegrafo e poi la radio e consentisse di farlo nessuno desiderava o si poneva lo scopo di comunicare pressocché istantaneamente a distanze maggiori dell’ orizzonte visivo). Ma non lo fa direttamente, dimostrando che sono desiderabili, bensì solo indirettamente, dimostrando che sono realizzabili attraverso determinati mezzi; quindi anche in questi casi in realtà -in perfetto accordo con David Hume- non dimostra cosa desiderare ma cosa si può fare e ottenere; e da questa consapevolezza possono nascere istintivamente, può conseguire che siano irrazionalmente avvertiti nuovi desideri, aspirazioni e scopi (in ultima analisi nuovi istinti ad agire) che altrimenti non si sarebbero immotivatamente, indimostratamente presentati alla coscienza umana. Un po’ come in una tigre che aveva sempre mangiato animali non umani e non aveva mai desiderato divorare un uomo l’ incontro con un uomo può suscitare l’ istinto (irrazionale! La tigre non ragiona, per lo meno nel senso in cui lo facciamo noi) a cibarsene.

In ogni caso sarebbe casomai (ammesso e non concesso) il possesso della razionalità che potrebbe rendere possibili delle volontà o finalità (nuove) e non viceversa come pretenderebbe Ferraris.

Ed anche la ricerca di complessivo scopo della vita personale (ed eventualmente del mondo), di cui tratta Ferraris nelle ultime pagine di questo volume nasce proprio dalla molteplicità e dalla inevitabile parziale contraddittorietà di scopi e aspirazioni umane (anche altri animali possono presentare istinti in parte contrastanti e solo in reciproca alternativa soddisfabili: per esempio quello di bere ad un fiume e quello di non essere mangiati da predatori presenti sulla sua riva; ma casi simili sono incommensurabilmente più numerosi e variegati nel comportamento umano, e questo spiega evolutivamente come mai nell’ uomo si sia enormemente sviluppata la razionalità).

L’ esperienza delle continue necessarie, talora sofferte scelte fra gli uni e gli altri scopi reciprocamente incompatibili (tutti irrazionalmente, alla lettera “istintivamente” avvertiti) inducono chi sia particolarmente riflessivo e lungimirante a porsi astrattamente il problema dello scopo (o gli scopi) complessivo (-i) della sua vita. Dei quali non può razionalmente dimostrare l’ esistenza, ma solo:

dimostrare la compatibilità intrinseca e la realizzabilità di diversi insiemi estrinsecamente-reciprocamente incompatibili di desideri, aspirazioni, finalità;

e cercare di metaforicamente ponderare (cosa ben diversa dal letterale pesare o in generale misurare, possibile per la res extensa ma non per la res cogitans) quale di questi insiemi realisticamente realizzabile a scapito degli altri insiemi sia complessivamente il più forte o intenso, cosicché la sua soddisfazione costituisca il benessere (il piacere, la felicità...) maggiore realisticamente conseguibile e la sua insoddisfazione il malessere (il dolore, l’ infelicità...) peggiore da sopportare.


Note
1 L’ espressione é di Sebastiano Timpanaro. Il contesto naturale limitato che qui considero é ovviamente quello reale, effettivamente accessibile e praticabile all’ uomo, e non quello ideologicamente, fantascientificamente mistificato dal capitale al potere e dallo “scientismo” -irrazionalistico! In realtà antiscientifico!- al suo servizio)

 

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Eros Barone
Friday, 08 August 2025 11:57
Volendo schematizzare il problema concettuale che sta al centro di questa discussione, si possono formulare tre proposizioni: 1) i fenomeni mentali sono fenomeni non-fisici; 2) i fenomeni mentali interagiscono con quelli fisici; 3) il mondo fisico è chiuso dal punto di vista causale. Queste tre proposizioni sembrano tutte vere, ma non si possono accettare come vere nello stesso tempo, poiché due di esse comportano ogni volta la falsità della terza. Infatti, se (1) i fenomeni mentali sono fenomeni non-fisici e (2) interagiscono con quelli fisici, allora il mondo fisico non è (3) chiuso dal punto di vista causale. Inoltre, se (3) il mondo fisico è chiuso e (1) i fenomeni mentali sono fenomeni non-fisici, allora non ci può essere (2) interazione tra fenomeni fisici e mentali. Infine, se (3), nonostante (3) la chiusura del mondo fisico, c’è (2) interazione tra fenomeni fisici e non-fisici, allora, secondo (1), i fenomeni mentali non sono più fenomeni non-fisici. Orbene, per il materialismo filosofico, che sia quello classico di Democrito o quello moderno di La Mettrie, l’uomo consiste soltanto di materia e il pensiero (o coscienza) è una proprietà della metria. Il materialismo di La Mettrie, autore dell’«Uomo macchina», non afferma, peraltro, che non vi sono fenomeni mentali, ma che, essendo tali fenomeni una proprietà della materia, essi sono di natura materiale, La coscienza, poi, costituisce soltanto una modificazione della materia, per cui il materialismo di La Mettrie è anche monistico. Il materialismo filosofico, in effetti, ha il grande merito di riuscire a spiegare come sia possibile un’interazione tra la mente e il corpo, senza entrare in contrasto col principio della chiusura causale del mondo fisico. Si trova perciò anche d’accordo con le leggi fondamentali della natura ed è conforme alle proposizioni (2) e (3) concernenti il rapporto tra il corpo e l’anima, sebbene debba scartare la proposizione (1). Anche il “materialismo biologico” del filosofo statunitense Searle sostiene oggi un’ipotesi affine: «La coscienza è una proprietà di sistema causalmente emergente. In particolare, è una “proprietà emergente” di determinati sistemi di neuroni nello stesso senso in cui solidità e liquidità sono “proprietà emergenti” dei sistemi di certe molecole» (J. R. Searle, “Il mistero della coscienza”, Milano 1998, p. 127). Con questa soluzione materialistica scompare così, assieme al problema concettuale che trae origine dal paradosso cartesiano del rapporto tra corpo e mente, la questione di come una coscienza inestesa possa agire su qualcosa di esteso. Sennonché anche la soluzione materialistica non è in grado, almeno finora, di individuare quale parte del cervello sia la portatrice della “materia della coscienza”. La conclusione problematica e interlocutoria di Searle sembra dunque la più plausibile: «Il senso di mistero deriva dal fatto che, attualmente, non soltanto non sappiamo come il cervello funziona, ma non abbiamo neanche un’idea chiara di come il cervello potrebbe funzionare per causare la coscienza» (ivi, p. 166). Da questo punto di vista, ritengo perciò quanto mai apprezzabile il tentativo di soluzione abbozzato da Giulio Bonali con l’interessante ipotesi del “monismo ‘debole’ del noumeno”, anche se essa mi sembra in conflitto con la legge ontologica ed epistemologica del trilemma e, nella fattispecie, con l’inconciliabilità tra la proposizione (1), da una parte, e le proposizioni (2) e (3), dall’altra.
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Eros Barone
Saturday, 02 August 2025 16:25
Riguardo alla questione del monismo/dualismo dell'orientamento ontologico professato da Bonali, osservo che, alla fin fine, tenendo presente la qualifica di “monismo ‘neutro’” con cui lui qualifica tale orientamento e il ‘gioco’ tra le forme fenomeniche materiali e mentali con cui lo articola, esso mi sembra consistere, per un verso, in un "monismo debole", confinato sullo sfondo del reale come la kantiana ‘cosa in sé’ (quindi un limite più gnoseologico che non ontologico) e, per un altro verso, in un’opzione dualistica, che può essere identificata (ma si tratta di sfumature, data la natura sfuggente del suo 'identikit' ontologico) o con l’interazionismo o con l’epifenomenalismo o con il parallelismo. Ed ecco le mie obiezioni: la prima di queste tre forme, di chiara origine cartesiana, va incontro all’aporia (che l’escogitazione della ghiandola pineale come ‘trait-d’union’ tra la ‘res cogitans’ e la ‘res extensa’ aggrava in senso nettamente materialistico, anziché risolvere in senso spiritualistico, come pure avrebbe desiderato il buon cristiano Cartesio con il suo dualismo delle ‘sostanze’); va incontro all’aporia, dicevo, per cui eventi fisici non possono causare eventi non fisici e viceversa, poiché il suo ingrediente di base è l’interazione causale fra due entità distinte, il che corrisponde ad un "dualismo forte". Per contro, non altrettanta forza può essere attribuita al dualismo epifenomenalistico, che rivela comunque la sua affinità con un "monismo debole" (o, come Bonali lo denomina, un “monismo neutro del ‘noumeno’”) e il cui ingrediente di base è la monodirezionalità del nesso causale, dal cervello alla mente, ma non viceversa. Occorre qui notare che il caso dell’epifenomenalismo configura una vera e propria forma di riduzionismo. Le altre forme di dualismo poggiano tutte sulla tesi secondo cui non è possibile affermare alcun nesso causale tra il mondo fisico e quello mentale né in una direzione né nell’altra. L’unico nesso osservabile è quello di una correlazione funzionale fra due catene di eventi che si svolgono in parallelo, i primi nell’ambito cerebrale, i secondi in quello mentale, ma nulla di più. Può essere interessante rilevare che questa posizione, diversamente dalle due precedenti, offre di meno il fianco alle obiezioni, se non altro perché afferma di meno. A questo punto, pur tenendo distinte l’ontologia come teoria dell’essere in quanto essere e l’ontologia/epistemologia come teoria dell’essere in quanto essere conosciuto (laddove è in questione il rapporto tra conoscenza, esperienza e realtà), osservo che la questione del monismo e del dualismo è però strettamente collegata alla questione della natura delle leggi scientifiche e al problema generale di filosofia della scienza relativo a tale questione. Per rendersene conto è sufficiente formulare le seguenti domande: le leggi scientifiche esprimono una necessità causale o si limitano ad enunciare una regolarità di occorrenza? Sono normative o descrittive? Specchi del determinismo causale o dell’induzione contingente di Hume? Ora, è evidente che la risposta funzionale di un parallelista, quale è Bonali, non può che essere sbilanciata sui membri a destra di queste disgiunzioni. Io e Bonali riconosciamo poi l'importanza storica e filosofica di uno scettico moderno, quale è lo Hume, ma Bonali, a cuasa della sua simpatia fenomenistica per questo pensatore, ignora due obiezioni che si possono avanzare nei confronti del pensiero del filosofo di Edimburgo. La prima è di natura logica: l’interpretazione del principio di causalità da parte di Hume, secondo cui tale principio sarebbe una sorta di tendenza rappresentativa puramente soggettiva fondata sull’abitudine, a cui non corrisponde niente di oggettivo, è inaccettabile. Hume infatti cade in contraddizione, quando asserisce che la nostra rappresentazione della necessità causale è causata da un’abitudine naturale: qui egli o presuppone il principio ontologico della causalità o deve considerare come meramente soggettiva anche la sua spiegazione e con ciò relativizzarla. La seconda obiezione è di natura sperimentale e si trova esposta nel libro di Robin Dunbar, "Non sparate sulla scienza" (2002). Da una serie di esperimenti eseguiti da Alan Leslie, studioso scozzese di psicologia e scienze cognitive, è infatti risultato che perfino i bambini più piccoli interpretano gli eventi in termini di relazioni causali. Servendosi di un test in cui a soggetti di soli 4 mesi e ½ venivano mostrate brevi sequenze filmate, Leslie ha scoperto che essi sono più sensibili alle immagini di relazioni causali “naturali” tra oggetti (per esempio, un mattone verde che si muove subito dopo essere stato colpito da un mattone rosso) che non a quelle di relazioni “innaturali” (per esempio, il mattone verde che si muove dopo che il mattone rosso gli si è fermato a 6 cm. di distanza o 3 secondi dopo essere stato colpito dal mattone rosso). Inoltre, verso i 6 mesi, i bambini, dopo essersi abituati alla sequenza naturale, manifestano un maggiore interesse (misurato sempre in base alla durata dell’attenzione) per la sequenza naturale invertita che non per quella innaturale. Poiché la relazione spazio-temporale tra i mattoni è la stessa nelle sequenze “normale” e “invertita”, viene da pensare che i bambini percepiscano qualche cosa di più della mera continuità spaziale tra i due stimoli. Secondo Leslie, tali risultati minerebbero l’idea di Hume che la nostra percezione della causalità si basi su generalizzazioni cui perverremmo in base all’esperienza ripetuta dell’associazione di due oggetti o eventi nel tempo e nello spazio. Essi sembrerebbero confermare in qualche modo l’ipotesi che le relazioni causali siano percepite direttamente. Infine, circa la cosiddetta "legge di Hume" sulla inderivabilità del "dover essere" dall'"essere" ritengo pienamente convincenti le giuste osservazioni di Enea Bontempi.
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Giulio Bonali
Sunday, 03 August 2025 19:41
Ringrazio di cuore Eros Barone (del quale apprezzo tantissimo, fra il molto altro, i lucidissimi interventi in questa testata telematica sui problemi attuali del comunismo e della lotta per il socialismo) per aver preso in considerazione e criticato le mie convinzioni.
Sono perfettamente d’ accordo con la sua critica del dualismo “interazionistico” cartesiano e dell’ epifenomenismo.

Molto più interessanti ovviamente sono i punti di dissenso sull’ ontologia e l' epistemologia, sui quali cerco di accennare le mie convinzioni partendo da una sorta di apologia di Hume.
Sulla sua famosa critica del causalismo (da un punto di vista ontologico) o dell’ induzione (sul terreno epistemologico) ritengo che ne vada compreso l’ atteggiamento sostanzialmente scettico, correttamente inteso come sospendente il giudizio ovvero evidenziante un dubbio o incertezza razionalmente insuperabile, e non come negazione (che al pari del suo contrario, l’ affermazione, é pur sempre espressione di un predicato avente oppure non avente condizioni di verità se non certe per lo meno accertabili in linea torica o di principio).
Dunque quando asserisce che la nostra rappresentazione della necessità causale potrebbe essere spiegata da un’ abitudine naturale considera senz’ altro come meramente soggettiva (oggettivamente infondata, non oggettivamente inesistente) anche questa stessa spiegazione, come tutte le altre analoghe: niente di preoccupante o di problematico, per uno scettico!
Hume sostiene che la concatenazione causale degli eventi reali non può essere provata essere vera (né essere falsa), e dunque le leggi scientifiche esprimono sì una necessità causale non meramente descrittiva o contingente ma necessaria o normativa (non ci dicono, ad esempio, che finora di fatto l’ accelerazione di una massa é proporzionale alla forza applicatale ma che alla prossima osservazione potrebbe benissimo essere proporzionale al quadrato della forza stessa o comunque quantitativamente diversa, ma invece che sempre e dovunque, necessariamente così va il mondo). Solo che (questo ce lo dice la filosofia humeiana, non la scienza) non c’ é modo di provare questa tesi epistemologicamente fondante, né empiricamente a posteriori, né analiticamente a priori; ovvero che, per quel che ne sappiamo e per quel che non ne sappiamo, potrebbe benissimo anche darsi che sia falsa -in teoria- e dunque che alla prossima osservazione l’ accelerazione possa non essere proporzionale alla forza ma di diversa entità, anche se la scienza lo ritiene impossibile ma solo infondatamente, irrazionalmente, per fede cieca, arbitraria, pregiudiziale (consapevolezza dei limiti della ragione e della conoscenza scientifica che é molto più razionalistica che l’ ignorarla o negarla, coltivando pie illusioni in proposito).
Questo é quel che filosoficamente conta, è la “sostanza filosofica” della critica razionale di Hume. La sua spiegazione di questo irrazionalistico atteggiamento psicologico, fatto proprio dalla scienza come suo fondamento e criterio epistemico, attraverso l’ abitudine non é ontologicamente nè epistemologicamente rilevante, oltre ad essere più che giustificata ai suoi tempi. Se si tratta di un istinto innato conseguente la selezione naturale anziché di una nozione acquisita (che sarebbe a sua volta comunque -non solo ma anche- conseguente un istinto comportamentale innato frutto dell’ evoluzione biologica) non ha rilevanza sul piano epistemologico, né ontologico; si tratta di un fatto rilevante solo e unicamente a proposito della psicologia della conoscenza, non della sua fondazione o giustificazione).
Peraltro i bimbi osservati nelle interessanti ricerche di Dunbar non esibivano propriamente conoscenze o comunque credenze ma solo istinti comportamentali. Il credere nel causalismo, che é proprio degli adulti (o comunque di infanti molto meno immaturi) mentalmente sani e della scienza, é diverso da quel che fanno quegli infanti di pochi mesi non dotati di linguaggio; e l’ abitudine a constatare e a ripensare la puntuale, successione degli effetti alle cause é comunque un fatto che chiunque rifletta criticamente sulla questione non può ignorare, e che può costituire un argomento utile a spiegarla: é vero che “post hoc =/= propter hoc”, ma se non si desse l’ abitudine a rilevare (a confermare empiricamente) successioni di effetti a cause anche l’ istintiva tendenza a crederci verrebbe meno.
Noto che l’ esistenza di istinti comportamentali innati (anche a credere oltre che a fare), contrariamente a quanto preteso da Chomsky, non confuta affatto l’ assunto condiviso da Hume con gli altri empiristi dell’ acquisitezza e non innatezza delle conoscenze, ben espresso con la famosa metafora della “tabula rasa”: una tabula rasa non sarà indifferente alle possibili iscrizioni che vi si potranno applicare o meno, dato che se di legno potranno essere almeno in parte diverse da quelle possibili se di acciaio, o di plastica molle, o dura, o di stoffa, o di vetro, e se di superficie rigida diverse che se di superficie ruvida, se molto calda diverse che se molto fredda, se bagnata che se asciutta, ecc.; ma ciò non toglie che in origine é del tutto priva di segni (letteralmente: conoscenze), ma presenta solo mere potenzialità innate ad accoglierne -eventualmente!- taluni piuttosto che talaltri (e in linea di massima "non a sua discrezione").

Mi sembra che Enea Bontempi non confuti la negazione humeiana della non dimostrabilità di alcun “dover essere” da alcun ”essere”.
Infatti si limita a rilevare che “il solo fatto di rappresentarsi qualcosa come esistente chiama in causa la razionalità con tutti i suoi vincoli. Se abbiamo una visione dell’essere, un’ idea riguardo a come le cose sono, abbiamo al contempo un’indicazione su una nostra possibile reazione”. Ma se abbiamo al contempo un’indicazione e -non: una dimostrazione!- su una nostra possibile [sottolineatura mia] reazione, non ne abbiamo alcuna su una nostra necessaria o doverosa reazione, che é precisamente quanto sostenuto da Hume: dalla conoscenza dell’ “essere” si può indiscriminatamente ricavare la conoscenza di un’ infinità di eventuali “poter essere”, ovvero nessuna indicazione di alcun necessario “dover essere” (o “dover fare”): queste sono invece irrazionalmente avvertite (per motivi ben spiegati dalla biologia attraverso la selezione naturale, correttamente intesa a là Gould, non scorrettamente e ideologicamente fraintesa a là Dawkins), cioé vengono dalla componente irrazionale, sentimentale se vogliamo, del nostro pensiero, della nostra mente.

Ma a mia volta vorrei “contrattaccare” dialetticamente sulla questione ontologica fondamentale.
Il monismo materialistico non spiega il rapporto fra materia (cerebrale) e coscienza: se esiste realmente solo la materia, allora: posto che la materia vivente altro non é che naturalissima materia “ordinaria” così come diviene (ineccepibilmente secondo le leggi della fisica) nelle peculiari circostanze del (materialissimo) “mondo vivente”, allora come si spiega che un uomo (o altro animale), contrariamente ad sasso o una lavatrice, o una sofisticata realizzazione dell’ intelligenza artificiale (ad esempio un robot che si muove come se coscientemente vedesse gli ostacoli e le opportunità presenti nell’ ambiente e pensasse e decidesse di agire di conseguenza), vede, sente, in generale percepisce coscientemente l’ ambiente in cui si trova e altrettanto coscientemente pensa e decide come agirvi?
Per il materialismo il cervello é un complicatissimo, “sofisticatissimo” meccanismo interagente causalmente con l’ ambiente, e tutto il resto della materia non é che meccanismi incomparabilmente meno complessi ma del tutto qualitativamente identici, assolutamente indistinguibili nel loro interagire con l’ ambiente secondo le leggi della fisica (sistemi biologici perfettamente riducibili a sistemi fisici). Nel cervello accadono determinati eventi neurofisiologici (riducibili a fisico-chimici) come potenziali d’ azione ed eccitazioni e/o inibizioni trans-sinaptiche (oltre ad altri eventi metabolici aspecifici), così come in un’ auto a guida autonoma avvengono, del tutto similmente per quanto riguarda l’ ineccepibile divenire della materia (tutta!) secondo le leggi fisiche, determinati altri eventi meramente fisico-chimici, per quanto estremamente meno complessi e sofisticati (quantitativamente!).
Eppure crediamo che agli eventi neurofisiologici dei cervelli siano correlati reali eventi di coscienza (sensazioni materiali e mentali) che invece ad un sasso, ad una lavatrice o ad un’ auto a guida autonoma non riteniamo correlati.
Da dove saltano fuori, nei sistemi nervosi biologici (e dove si collocano?) i correlati eventi coscienti che a sistemi meno complessi ma funzionanti in maniera assolutamente, ineccepibilmente identica secondo le medesime leggi fisiche non sono correlati?
Dove é nel mondo fisico (poiché reale é solo la materia! “Altrove” non si dà realmente) il mio pensare -per esempio- che il compagno ed amico Eros é una persona (fra l‘ altro) eccezionalmente colta ed intelligente?
Nella mia testa questi pensieri non ci sono, ma invece ci si possono trovare determinate scariche elettriche lungo gli assoni di determinati neuroni, diverse da tutte le altre (altrimenti) determinate scariche elettriche lungo gli assoni di altri determinati neuroni che vi si trovano quando penso o percepisco empiricamente altre, diverse cose oppure non sono cosciente (quando accadono diversi eventi di coscienza, o non ne accade alcuno).
Ma si tratta di ben altre cose (enti ed eventi) che quei miei pensieri (e delle altre mie sensazioni coscienti, anche materiali).
Se però sono reali sia la cartesiana res extensa sia la cartesiana res cogitans (l’ una intersoggettiva, l’ altra meramente soggettiva ma non per questo meno reale; solo diversamente reale). E se entrambe sono eventi fenomenici coscienti non reciprocamente interagenti (secondo il principio di chiusura causale del mondo fisico, senza il quale addio conoscenza scientifica!), allora non vedo alcuna controindicazione all’ ipotesi che:
esiste un “piano ontologico in sé” della realtà (non percepibile, ovvero non fenomenicamente apparente, solo congetturabile; ma ben reale in quanto tale: il noumeno) comprendente, fra l’ altro, oggetti e soggetti (a tratti solo potenziali, a tratti attuali) di sensazione fenomenica cosciente, persistenti anche se e quando di fatto sensazioni fenomeniche coscienti realmente non accadono (sono solo potenziali);
separatamente, incomunicabilmente, trascendetemente da questo e fra loro, ma a determinate circostanze del noumeno stesso biunivocamente correlati nella loro esistenza e nel loro divenire, esistono anche "piani ontologici fenomenici", materiali e mentali; di modo che se e quando nel noumeno un determinato soggetto di coscienza é in determinati rapporti “di percezione” estrinseci con determinati altri enti ed eventi in sé da esso stesso diversi, allora nell’ ambito dell’ esperienza fenomenica cosciente di tale soggetto accade la percezione di determinati (e non altri) fenomeni materiali; e se e quando nel noumeno un determinato soggetto di coscienza é in determinati rapporti “di percezione” intrinseci con se stesso, allora nell’ ambito dell’ esperienza fenomenica cosciente di tale soggetto accade la percezione di determinati (e non altri) fenomeni mentali.
I fenomeni materiali sono intersoggettivi perché correlati alla percezione dei medesimi enti ed eventi in sé da parte di ogni e qualsiasi possibile soggetto, mentre quelli mentali sono meramente soggettivi perché correlati alla percezione di determinati eventi in sé da parte di un solo determinato ente in sé (se stesso), cioé unicamente da parte di esso e di nessun altro soggetto.
In particolare lo stesso, medesimo ente in sé soggetto di esperienza cosciente é estrinsecamente percepito (in quanto oggetto diverso dal soggetto) da un altro diverso soggetto come un certo determinato cervello (o forse sue parti; o corrispondente organo nervoso animale) con in corso determinati eventi neurofisiologici correlati all’ esperienza cosciente in atto del primo di tali soggetti; ed inoltre é intrinsecamente percepito da se stesso (in quanto oggetto riflessivamente identico al soggetto dell’ esperienza fenomenica) come certi determinati eventi mentali (pensieri, sentimenti, desideri, ragionamenti, ecc.).
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Enea Bontempi
Friday, 01 August 2025 20:36
La recensione del saggio di Maurizio Ferraris, svolta con acutezza e competenza da Giulio Bonali, non solo è articolata ed obiettiva, ma costituisce anche un contributo filosofico di prim’ordine. In questa sede (un commento alla recensione di un libro) desidero sottolineare due questioni filosofiche, a mio parere, fondamentali. L’orientamento materialistico, in cui, di massima, si riconoscono Bonali e lo scrivente (ma non Ferraris), enuncia la tesi della ‘riduzione’ di tutta la realtà ad entità di natura fisica. Lo scopo è quello di dimostrare una relazione di identità tra il fenomeno ridotto e i fenomeni cui esso si riduce. Questa concezione, definibile semplicemente come ‘scientifica’, è stata coronata nella nostra epoca da grandi successi intellettuali. Tuttavia, anche in seno ad una concezione monistica è sempre in agguato e può risorgere, nelle forme più diverse, un rinnovato dualismo tra la ‘res cogitans’ e la ‘res extensa’. Ritengo allora che un siffatto dualismo, con tutte le aporie che trascina con sé, possa essere evitato a condizione che ci si liberi dal retaggio metafisico di due tradizioni secolari: quella rappresentata dalla triade “Dio-anima-immortalità” e quella rappresentata da una nozione criticamente ingenua della ‘scienza’. La prima tradizione rende difficile, se non impossibile, pensare alla nostra vita mentale come parte del mondo fisico, analoga e, per certi versi, omologa ad altri fatti biologici. In questo senso, va detto che non si può comprendere il fascino dell’‘intelligenza artificiale’ (IA) senza interpretarla come un’eredità delle tradizionali credenze riguardo all’anima. Stando infatti alla metafora classica dell’IA, la mente non è parte della biologia, ma è qualcosa di formale e di astratto, per usare la formula di Daniel Dennett che è tra i più noti fautori di questa analogia. Il software, esattamente come l’anima, avrebbe quindi un’esistenza ideale. Dal canto suo, la scienza, intesa correttamente come una delle forme sociali della prassi umana, indica una serie di metodi, pratiche e procedure finalizzati a scoprire le dinamiche e il funzionamento delle cose. In altri termini, non esiste qualcosa come una “realtà scientifica”, poiché la scienza non delimita una porzione della realtà, ma fornisce una serie di metodi utili per una sua analisi approfondita. Se Dio, anima e immortalità esistessero, sarebbero quindi fatti scientifici alla pari di tanti altri, come pensavano, elaborando la loro teologia fisica, Newton e altri scienziati dell’età moderna (ma anche dell’età contemporanea: si pensi alla “Fisica dell’immortalità” di Frank Tipler). La residua, ma tenace, influenza della concezione imperniata sulla triade “Dio-anima-immortalità” induce, peraltro, a supporre che riconoscere qualcosa come un “fenomeno mentale” – dunque a riconoscere il carattere irriducibile, qualitativo e soggettivo della nostra vita cosciente – comporti necessariamente la confutazione della classica “visione scientifica” del mondo e, conseguentemente, la negazione del monismo materialistico. Se si intende formulare una descrizione adeguata della realtà, occorre allora sganciarsi da queste due tradizioni. La seconda questione concerne il modo di concepire la ‘ragione’ umana, delineato alla fine della recensione. Se è vero, come sostiene un materialismo conseguente, che la coscienza, con la sua ontologia soggettiva, è parte della natura, è altrettanto vero che lo stesso vale per l’intenzionalità, fenomeno che rientra anch’esso nella storia naturale della vita. Secondo questa ottica, la razionalità, l’etica e l’estetica non sono altro che fenomeni naturali. È quindi un fatto quello per cui nella vita mentale di un uomo i limiti della ragione sono già inclusi negli stessi strumenti conoscitivi che la natura ci ha fornito: la percezione, il pensiero e il ragionamento. Vi è pertanto una sottile ironia nella tradizionale idea di Hume secondo cui sarebbe impossibile far derivare il dover essere dall’essere, poiché il solo fatto di rappresentarsi qualcosa come esistente chiama in causa la razionalità con tutti i suoi vincoli. Se abbiamo una visione dell’essere, un’idea riguardo a come le cose sono, abbiamo al contempo un’indicazione su una nostra possibile reazione. Se si afferma che qualcosa esiste, ne consegue che non si dovrebbe negare razionalmente la sua esistenza. In conclusione, l'antinomia tra l’essere e il dover essere trova, come insegna la dialettica, il suo superamento nella prassi, dalla quale nasce e nella quale si risolve.
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Giulio Bonali
Saturday, 02 August 2025 10:45
Ringrazio per l’ eccessivo apprezzamento e approfitto per proporre alcuni chiarimenti (sperando che possano interessare a qualcuno, e magari, in uno sforzo “eroico” di ottimismo della volontà, di poterne discutere qui o altrove, anche “privatamente” se del caso, cosa cui sono molto interessato e purtroppo non riesco quasi mai a fare).
Io, contrariamente ad Enea, non sono monista materialista ma dualista, anche se ritengo che il mio dualismo, non “interazionistico” ma “parallelistico”, per così dire, sia per lo meno altrettanto ineccepibilmente naturalistico di qualsiasi materialismo, in quanto rispetta ineccepibilmente il principio della chiusura causale del mondo fisico: per me la res cogitans -per dirlo a là Descartes- é altrettanto reale della res extensa e non vi si identifica per riduzione, né per emergenza o sopravvenienza, ma con essa non interagisce in alcun modo. Piuttosto esse esistono realmente e divengono “su piani ontologici paralleli”, separati, non reciprocamente interferenti, ma biunivocamente correlati.
Cioè in ogni istante ad una certa determinata “situazione” (e a nessun altra!) nell’ ambito del divenire dell’ esperienza cosciente* che é ragionevole ritenere necessariamente coesistente e correlata ad ogni cervello (vivo e funzionante, umano o diversamente animale) necessariamente coesiste e corrisponde una e una sola certa determinata “situazione” di tale cervello (e nessun altra!) e dei processi neurofisiologici in esso in corso (le moderne neuroscienze sono chiare ed inequivocabili in proposito). Ma esse (queste “situazioni” del divenire di tali insiemi di fatti reali reciprocamente distinti) sono separate, non interagenti, trascendenti: semplicemente mutano “ciascuno per suo conto” in maniera coordinata, biunivoca.
Gli oggetti (ma più correttamente dovremmo dire: i “contenuti fenomenici”) delle nostre sensazioni, ciò che empiricamente percepiamo (di materiale come di mentale) sono eventi di coscienza “transitori”, “fluidi” (ma ben reali!), susseguentisi nel tempo, non enti “sostanziali”, ininterrottamente esistenti, reali anche allorché non accade il percepirli coscientemente (“esse est percipi”, Berkeley, ma soprattutto Hume).
E (le percezioni coscienti de-) i cervelli esistenti sono eventi fenomenici che accadono (almeno potenzialmente, cioé allorché se ne diano le “appropriate” condizioni) nell’ ambito di esperienze coscienti** altre, diverse che quelle correlate a ciascuno di essi, cioé precisamente nell’ ambito delle esperienze coscienti di chi li osservi: i soggetti di queste sono diversi dai soggetti di quelle; i quali sono casomai gli oggetti delle percezioni coscienti dei cervelli in questione da parte di tali differenti soggetti.
Questi oggetti e soggetti delle esperienze fenomeniche coscienti, realmente esistenti (persistenti) anche se e quando le esperienze coscienti stesse non sono realmente in atto (non accadono in realtà), con tutta evidenza sono “altre, diverse cose”, altri enti ed eventi reali, che le esperienze fenomeniche stesse. E’ infatti palesemente autocontraddittorio, assurdo pretendere che qualche cosa sia reale-accada realmente anche quando non é reale-non accade realmente, e dunque soggetti ed oggetti di sensazioni coscienti, reali anche in assenza di esse, non possono con esse identificarsi, ma devono essere qualcosa d’ altro, di diverso; qualche cosa di non coscientemente apparente (dal greco e a là Kant: fenomeni) bensì pensabile, congetturabile (dal greco e a là Kant: noumeno).
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Nella recensione ho ripetutamente affermato, ma senza argomentarlo, che Ferraris fraintende il concetto biologico di esaptazione (apprezzo peraltro il suo uso della traduzione italiana, purtroppo insolito).
Per esaptazione il grande Stephen Jay Gould intende (e con lui la scienza biologica) il passaggio (o per così dire, con metafora antropomorfica) la “cooptazione”, nel corso dell’ evoluzione darwiniana, di una struttura fenotipica ad una funzione differente rispetto a quella svolta in origine, ovviamente accompagnato da sviluppi e modificazioni della struttura somatica stessa. Due esempi tipici sono le ali, comparse in alcuni dinosauri con la funzione di regolazione termica (refrigerazione per ventilazione) e poi sviluppatesi in molti uccelli con funzione locomotoria, e la vescica natatoria, comparsa in alcuni pesci primitivi con funzione di facilitazione dei movimenti in acqua (e come tale conservatasi nella vasta classe ittica dei teleostei) e poi variamente (e straordinariamente!) sviluppatasi e modificatasi negli anfibi, rettili, uccelli e mammiferi così da dare luogo agli organi della respirazione aerea (i polmoni).
Con tutta evidenza non é il caso del cervello umano, che semplicemente costituisce uno sviluppo meramente quantitativo, per quanto “spettacolare”, dell’ organo della regolazione del comportamento dipendentemente dalle circostanze ambientali proprio di tutti gli altri vertebrati: presso di noi continua a svolgere la stessa, medesima, identica funzione (e nessun altra!) che ha sempre avuto da che l’ evoluzione biologica l’ ha “partorito”, e che continua ad avere presso tutte le altre specie che ne sono dotate, solo sviluppandola e rendendola enormemente più variegata, efficace e complessa.
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Ultima precisazione: ci tengo a rivendicare che la consapevolezza del fatto che il solipsismo non possa essere superato razionalmente (dimostrato falso) ma che solo irrazionalmente, per fede (letteralmente) possiamo credere e crediamo all’ esistenza di altri soggetti coscienti oltre a noi stessi (correlati ai cervelli dei vertebrati o ad altre strutture neurologiche naturali, e in linea puramente teorica, di principio anche ad irrealistici marchingegni artificiali dal comportamento effettivamente similanimale), così come in generale la consapevolezza dei limiti del razionalismo e della razionalità umana (e della scienza), lungi dall’ essere una concessione al da me (irrazionalisticamente!) aborrito irrazionalismo, é invece una dimostrazione di razionalismo autentico, coerente, conseguente “fino in fondo” (per questo lo scientismo, più o meno “vetero-” o “neo-” positivistico che sia, é in realtà un irrazionalismo).
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Monica Ferrando
Friday, 01 August 2025 17:41
La dimensione storico-politica, di cui il linguaggio fa incontestabilmente parte, non può esser dissimulata; come mostra per esempio il Protagora, in cui la tecnica come soccorso alla deficienza umana è ipotesi che rispecchia la posizione ( storicamente comprensibile) di un sofista. E’ il problema della filosofia della storia, che non si risolve assecondandone la pretesa. Si chiami anche ‘Spirito’. Su questo Gianni Carchia avrebbe ancora molto da dire. Quindi difficile non cadere in metafore dubbie o peggio in lapsus eloquenti. “…ingiustificata, falsa e pericolosa è per me la pretesa di Ferraris di far fraintendere in senso letterale quella che al massimo può essere considerata una mera metafora, cioè quella della “capitalizzazione” della mente umana (o coscienza, o pensiero, o spirito, o anima, o cultura...), cioè della conservazione, condivisione [evidenziazione mia, G.B.], archiviazione, valorizzazione, riordinamento, rielaborazione, critica, sviluppo, incremento quantitativo, approfondimento o miglioramento qualitativo di conoscenze più o meno teoriche e di competenze più o meno pratiche consentito dalla tecnica (dalle pitture e incisioni rupestri fino all’ “IA”); appunto fraintesa per una pretesa “capitalizzazione” in senso letterale, che è tutt’ altra cosa.

Il capitale é -letteralmente- ricchezza (valore di scambio, denaro) che si incrementa incessantemente e tendenzialmente all’ infinito attraverso lo sfruttamento del lavoro vivo, cioè estorcendo legalmente plusvalore dal valore d’ uso della forza lavoro acquistata sul mercato al suo valore di scambio.

Il sapere di per sé (astraendo dagli effetti, peraltro determinanti, dei rapporti sociali vigenti fra gli uomini), tende (-rebbe) a diffondersi gratuitamente, anche come condizione per un suo ulteriore sviluppo, incremento, approfondimento, miglioramento quantitativo.
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