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intelligence for the people

Israele avvia la soluzione finale a Gaza City

di Roberto Iannuzzi

La nuova operazione militare punta a spopolare e cancellare la città, sospingendo i palestinesi verso sud in vista della definitiva pulizia etnica della Striscia. L’Occidente tace

2970296b ea14 4295 85c4 c54efe6ca3c6 3432x2109In un mese di agosto ricco di notizie internazionali ma scarso di risultati incoraggianti, il presidente americano Donald Trump, dopo aver avviato un inconcludente sforzo negoziale in Alaska riguardo al conflitto ucraino, durante un interludio della guerra dei dazi ha autorizzato attacchi militari contro i cartelli della droga in Messico e dispiegato forze navali USA al limite delle acque territoriali venezuelane.

La Casa Bianca è anche molto attiva in Medio Oriente, dal Caucaso al Libano dove la campagna USA di pressione nei confronti del governo locale affinché disarmi Hezbollah rischia di scatenare una guerra civile. Sullo sfondo rimangono le irrisolte tensioni con l’Iran e il rischio di un secondo round nello scontro fra Tel Aviv e Teheran.

Se la guerra in Ucraina e le altre perturbazioni internazionali ci ricordano che la crisi mondiale legata al declino dell’egemonia statunitense non ammette pause estive, è la Palestina – in primo luogo con l’immane catastrofe di Gaza – a rimanere l’epicentro del collasso morale dell’Occidente.

 

Cancellare Gaza City

Nell’inerzia delle capitali europee, e con il consenso di fatto accordato da Washington, gli aerei e i carri armati israeliani hanno già iniziato a martellare i quartieri a nord e a est di Gaza City, in base a un piano del governo Netanyahu approvato lo scorso 8 agosto, il quale prevede che Israele assuma il pieno controllo militare della Striscia a cominciare dalla regione settentrionale.

In coincidenza con l’avvio di quella che i vertici militari israeliani hanno definito la seconda fase dell’operazione “Carri di Gedeone”, un nuovo ordine di evacuazione è stato emanato per i residenti di Gaza City dove centinaia di migliaia di persone erano tornate durante il cessate il fuoco dello scorso gennaio.

Il piano rappresenta la “fase finale” del ripetuto tentativo israeliano di ripulire etnicamente il nord di Gaza: svuotare l’area dei suoi residenti radendo al suolo tutto ciò che ancora rimane in piedi, e annettere il territorio in vista della possibile costruzione di nuovi insediamenti (un obiettivo non dichiarato da parte del governo, che però circola insistentemente nel movimento dei coloni).

Se portato a termine, tale piano provocherà altre uccisioni di massa, detenzioni, torture, e lo sfollamento forzato di centinaia di migliaia di civili già stremati dalla fame e dalle continue evacuazioni.

L’Onu stima che attualmente circa un milione di palestinesi risieda nell’area di Gaza City, soprattutto nella parte occidentale della città (gli altri quartieri sono da tempo controllati dalle forze di occupazione israeliane, o sono stati dichiarati “zone interdette”).

Nel conto rientrano coloro che sono sfollati dal governatorato settentrionale – Beit Lahia, Beit Hanoun, Jabalia – il quale è stato quasi interamente distrutto. Come ha riferito un residente, Jabalia è stata completamente rasa al suolo: “Non è rimasta una casa, una pietra, una strada, nulla”.

In base all’ordine di evacuazione israeliano, l’intera popolazione residente dovrà lasciare Gaza City entro il 7 ottobre 2025, data fortemente simbolica che coincide con il secondo anniversario dell’attacco di Hamas. Ma le operazioni militari nel tessuto urbano hanno già avuto inizio.

 

“Il più grande progetto ingegneristico in Israele”

I quartieri di Zeitoun, Shujaiya, Sabra e del centro stanno già collassando sotto i colpi dell’artiglieria e dei bombardamenti aerei. Le forze armate israeliane utilizzano anche quadricotteri armati e veicoli autonomi carichi di esplosivi che vengono fatti detonare da remoto.

I soccorritori della protezione civile della Striscia, privi di macchinari e sotto i continui bombardamenti, sono praticamente impossibilitati a operare pur sentendo le voci delle vittime intrappolate sotto le macerie.

Altra questione drammatica è rappresentata dall’evacuazione degli ospedali della città. Gran parte di coloro che sono ricoverati non sono in grado di spostarsi. L’intera Striscia rischia di perdere metà della sua disponibilità di posti letto nelle strutture sanitarie.

La demolizione di Gaza City rientra nel più ampio piano di distruzione della Striscia, che il giornale economico israeliano TheMarker ha definito “probabilmente il più grande progetto ingegneristico mai intrapreso in Israele”.

Come ha scritto lo storico Adam Tooze, il processo di distruzione in corso a Gaza è frutto di una partnership tra pubblico e privato. Grandi e piccole imprese del settore delle costruzioni forniscono al Ministero della Difesa i bulldozer e gli altri macchinari necessari per le demolizioni.

Rivolgendosi al comandante dell’esercito Eyal Zamir, il ministro delle finanze Bezalel Smotrich ha affermato che chiunque non andrà via da Gaza City avrà la possibilità di morire di fame o arrendersi.

 

Un nuovo esodo

Dopo quasi due anni di sterminio, distruzione, fame e ripetuti sfollamenti, i palestinesi della Striscia sono fisicamente e mentalmente stremati, costretti a vivere in condizioni catastrofiche, senza riparo o in rifugi di fortuna, senza cibo né acqua potabile, senza combustibile né elettricità.

La nuova campagna militare israeliana avrà dunque effetti terribili. I palestinesi di Gaza City dovrebbero trasferirsi – nella stragrande maggioranza con marce a piedi che molti, indeboliti dalla fame e in precario stato di salute, non sono in grado di affrontare – verso le aree centrali e meridionali della Striscia, anch’esse già devastate e in gran parte distrutte.

Queste aree, sebbene pressoché inabitabili, sono già sovraffollate e soggette a continui bombardamenti. Non vi sono zone sicure a Gaza.

Molti, sospinti a ovest dall’avanzata dell’esercito israeliano a Gaza City, semplicemente raggiungono la costa, ormai trasformata in un accampamento di tende senza soluzione di continuità.

L’Egitto teme che il trasferimento forzato di un milione di palestinesi verso sud possa preludere a tentativi deliberati da parte israeliana di spingere i civili verso il confine egiziano, un eventualità che il governo del Cairo considera una minaccia alla propria sicurezza nazionale.

Per inviare un chiaro segnale contro un simile scenario, le autorità egiziane hanno ulteriormente rafforzato il proprio schieramento di truppe nel Sinai settentrionale, che ormai ammonta a 40.000 soldati.

 

Fame pianificata

La situazione in tutta la Striscia, e in particolare nella regione settentrionale, è resa ancor più drammatica dalla carestia provocata dal blocco degli aiuti internazionali da parte di Israele.

Il 22 agosto, l’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), principale autorità internazionale in materia di crisi alimentari, ha ufficialmente dichiarato che a Gaza è in corso una carestia della categoria più catastrofica (fase 5) in tutto il governatorato di Gaza, inclusa Gaza City, destinata a estendersi entro la fine di settembre a Deir el-Balah e Khan Yunis.

Secondo il rapporto, quasi un terzo della popolazione della Striscia (641.000 persone) sta già andando incontro a “fame, estrema povertà e morte”, mentre oltre un milione di persone ha raggiunto la fase emergenziale.

Le forniture di cibo sono crollate: l’87% dei camion di aiuti dell’ONU sono stati bloccati da Israele, le panetterie sono chiuse, i prezzi della farina sono astronomici.

L’IPC ha dichiarato lo stato di carestia solo cinque volte da quando l’organismo è stato costituito nel 2004: una volta in Somalia, due in Sud Sudan, e una in Sudan lo scorso anno. Il caso di Gaza segna la prima volta che una carestia è stata dichiarata al di fuori del continente africano.

Il 18 agosto i responsabili sanitari della Striscia avevano già registrato circa 300 morti per fame, fra cui più di 100 bambini.

 

Una guerra senza legge

Il governo Netanyahu non solo non ha riconosciuto le conclusioni dell’IPC, ma descrive l’offensiva su Gaza City come finalizzata non ad un’occupazione militare ma a una mera “assunzione di controllo” del territorio.

Secondo alcuni esperti giuridici israeliani, questo artificio linguistico è finalizzato a permettere al governo di non riconoscersi come “potenza occupante”, con le responsabilità giuridiche che tale status comporta nei confronti della popolazione civile palestinese (sostentamento, assistenza sanitaria, garanzia dell’ordine pubblico, ecc.).

Sempre al fine di non riconoscere tale status, Tel Aviv intende prendere il controllo di un territorio ormai spopolato. Ma un trasferimento forzato della popolazione costituisce di per sé un crimine di guerra, e anche non riconoscendosi come potenza occupante Israele avrebbe l’obbligo di non aggravare le condizioni umanitarie della popolazione civile assicurando l’ingresso degli aiuti.

Secondo l’ONU, solo per far fronte alle attuali esigenze di alloggi della popolazione di Gaza sarebbe necessario l’ingresso di 3.500 camion carichi di tende, teloni e generi di prima necessità, senza considerare un’ulteriore evacuazione forzata da Gaza City.

Sebbene i vertici militari israeliani abbiano affermato che sono in preparazione campi e centri di distribuzione degli aiuti per coloro che lasceranno la città, secondo l’ONU dallo scorso marzo non sono entrate nella Striscia attrezzature per il ricovero degli sfollati.

Dal canto loro, organizzazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani ammoniscono che i campi in preparazione nel sud dell’enclave palestinese equivalgono a campi di concentramento, progettati per confinare e controllare la popolazione di sfollati in preparazione della fase finale, consistente nell’espulsione dei palestinesi dalla Striscia.

 

Tensioni in Israele

Malgrado tutti gli ammonimenti, il premier israeliano Benjamin Netanyahu appare determinato a implementare il piano per spopolare Gaza City. Le attuali operazioni militari rappresentano solo l’inizio.

L’esercito ha richiamato 60.000 riservisti, la maggioranza dei quali dovrà presentarsi entro il 2 settembre. Una seconda ondata è prevista per novembre-dicembre, e una terza per febbraio-marzo.

Essi vanno ad aggiungersi alle decine di migliaia di riservisti già in servizio. Non tutti andranno a Gaza City, alcuni rimpiazzeranno le truppe regolari su altri fronti. In tutto, cinque divisioni prenderanno parte all’operazione nel nord della Striscia.

La campagna militare, che si protrae ininterrottamente da quasi due anni, sta però inasprendo le tensioni anche all’interno di Israele, perfino tra i vertici militari e il governo.

Il comandante dell’esercito Eyal Zamir ha ammonito che implementare il piano di demolizione di Gaza City potrebbe richiedere più di un anno, ed è destinato ad aggravare la crisi delle unità di riservisti, già alle prese con un calo di presenze e con un basso morale.

L’offensiva è destinata anche a mettere in pericolo la vita dei circa 20 ostaggi israeliani ancora presenti nella Striscia, e ciò ha suscitato dure proteste in Israele.

Dopo essersi scontrato con Smotrich e il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, Zamir ha tuttavia finito per approvare le linee generali dell’offensiva su Gaza City.

L’episodio è indicativo di una deriva politica e strategica che appare inarrestabile, sebbene al prezzo di una perdita d’immagine sempre più marcata a livello internazionale da parte di Israele, di un progressivo logoramento dell’esercito e di tensioni crescenti nella società israeliana.

 

Strategia del conflitto a oltranza

Anche le posizioni negoziali del governo slittano continuamente verso una sempre più rigida intransigenza.

Dopo che nei giorni scorsi Hamas aveva accettato la proposta di un cessate il fuoco di due mesi (sostanzialmente secondo la formulazione dell’inviato americano Steve Witkoff) che avrebbe assicurato la liberazione di dieci ostaggi, Tel Aviv ha fatto sapere di non essere più interessata ad accordi parziali e di puntare a un accordo complessivo che ponga fine alla guerra.

Esso prevede il disarmo di Hamas, il rilascio di tutti gli ostaggi, la demilitarizzazione della Striscia, il controllo militare israeliano sull’enclave palestinese e l’insediamento di un governo civile che non sia composto né da Hamas né dall’Autorità Nazionale Palestinese (ANP).

Di fatto tale richiesta equivale alla resa incondizionata di Hamas e risulta inaccettabile per il movimento palestinese.

Il continuo altalenare di posizioni e obiettivi da parte del governo Netanyahu rende di fatto impossibile una soluzione negoziata e lascia sul campo solo il proseguimento dell’opzione militare.

Come ha scritto l’analista israeliano Yonatan Touval, il 7 ottobre 2023 ha rappresentato un terribile fallimento per la leadership israeliana e, secondo molti, era destinato a porre fine alla già compromessa carriera politica di Netanyahu.

La guerra rappresenta un modo per rinviare la resa dei conti politica per il premier e per un’intera dirigenza politica e militare compromessa. La coalizione che sostiene il governo, la più radicale nella storia di Israele, si fonda su un conflitto perpetuo.

I ministri Smotrich e Ben Gvir chiedono apertamente l’espulsione della popolazione di Gaza e la ricolonizzazione della Striscia. Sebbene Netanyahu non citi apertamente questi obiettivi, continua a legarsi all’estrema destra con le sue promesse di “vittoria totale” e la sua costante escalation.

 

Nessun ostacolo da Washington

In ciò il premier israeliano è facilitato da un’amministrazione Trump che asseconda completamente anche le sue posizioni più estreme.

Trump diede luce verde alla campagna di pulizia etnica del governo Netanyahu lo scorso febbraio manifestando l’intenzione di spopolare la Striscia per trasformarla nella “Riviera del Medio Oriente”.

Giorni fa il presidente USA ha affermato che “Hamas deve essere affrontato e distrutto” affinché gli ostaggi israeliani siano liberati, dando così il proprio consenso di fatto all’offensiva militare israeliana volta a spopolare Gaza City.

Successivamente il Dipartimento di Stato ha accusato (ingiustamente) l’IPC di aver modificato la propria definizione di carestia per dichiarare un’emergenza a Gaza accogliendo la “falsa narrazione di Hamas di una deliberata carestia di massa” finalizzata a esercitare pressione su Israele.

La Casa Bianca non solo ha continuato ad armare Israele ignorando la campagna del governo Netanyahu volta a distruggere il sistema di aiuti dell’ONU, ma ha cooperato con Tel Aviv nella creazione della controversa Gaza Humanitarian Foundation (GHF).

Tale organizzazione è stata ampiamente condannata a livello internazionale per il suo sistema centralizzato di distribuzione degli aiuti presso i cui centri circa 2.000 palestinesi sono rimasti uccisi sotto il fuoco dell’esercito israeliano e dei contractor americani incaricati di “garantire” la sicurezza della GHF.

 

Impadronirsi della Cisgiordania

Che la campagna militare e politica del governo Netanyahu non si limiti ad Hamas, ma abbia come obiettivo l’intera popolazione palestinese è confermato da quanto sta avvenendo nella Cisgiordania governata dall’ANP.

Qui il governo israeliano ha appena approvato un nuovo piano di insediamenti denominato E1, che prevede la costruzione di 3.500 appartamenti fra Gerusalemme Est e la colonia di Maale Adumim.

Il progetto finirebbe per tagliare definitivamente in due la Cisgiordania ponendo la pietra tombale su qualsiasi ipotesi di creazione di uno Stato palestinese.

Tale progetto non è affatto una novità. Esso risale addirittura agli anni ’90 del secolo scorso, quando fu formulato per la prima volta nientemeno che dal primo ministro Yitzhak Rabin, il promotore del “processo di pace” e degli accordi di Oslo.

Lo stesso Rabin, infatti, non concepiva la possibilità di uno Stato palestinese, ma al più di una “entità” autonoma che fosse “meno di uno Stato”.

 

Complicità occidentale

Il progetto di insediamenti E1 fu lungamente bloccato dal veto americano. Oggi questo veto è venuto a cadere. L’ambasciatore USA in Israele Mike Huckabee, smentendo le passate amministrazioni, ha affermato che il progetto non rappresenta una violazione del diritto internazionale e che gli USA non vi si opporranno.

Dal canto loro, Gran Bretagna e Francia si sono posti alla guida di una lista di 21 paesi europei ed extraeuropei che hanno condannato, a parole, il nuovo progetto di insediamenti.

Sebbene l’Europa sia il primo partner commerciale e il primo investitore in Israele, i paesi del vecchio continente non hanno però adottato alcuna misura concreta per sanzionare Tel Aviv, né riguardo all’approvazione del progetto E1, che distrugge definitivamente l’ipotesi dei due Stati, né riguardo alla campagna di sterminio in corso a Gaza.

Nel frattempo Trump ha discusso un nebuloso piano per la gestione postbellica della Striscia con figure come l’ex premier britannico Tony Blair (già coinvolto in un controverso piano elaborato con il Boston Consulting Group, che prevedeva la “ridislocazione” del 25% della popolazione di Gaza) e il genero Jared Kushner, entrambi in ottimi rapporti con il primo ministro israeliano Netanyahu.

Nessun dettaglio è stato fornito sul presunto piano.

Alla luce dell’inerzia, quando non dell’aperta complicità, di Stati Uniti e paesi europei di fronte alla campagna militare israeliana a Gaza, l’unico ostacolo alla prosecuzione di tale campagna potrà sopraggiungere dalle tensioni interne allo Stato ebraico e dal logoramento dell’esercito di Tel Aviv.

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