Filosofia e critica del capitalismo universale
di Camilla Sclocco
Su un recente volume di Finelli e Gatto contro il rigetto del pensiero dialettico. – Marxismo dell’astrazione e marxismo della contraddizione. – L’attuale dominio assoluto del capitalismo svuota la cultura di funzione critica. – Il processo ha investito anche il concetto gramsciano di egemonia, negando il suo cuore economico e riducendolo a fatto culturale. Si è aperta così la strada alla «soggettivizzazione della politica». – La scuola come sede dell’utopia possibile
Sistema, dialettica, totalità. Giudicate come estinte da buona parte degli orientamenti culturali oggi egemoni in Occidente, nonché da correnti filosofiche a vario titolo eredi di Althusser in Francia e di Della Volpe in Italia, le categorie della tradizione hegelo-marxista sono indicate da Roberto Finelli e Marco Gatto nel loro recente volume Il dominio dell’esteriore. Filosofia e critica della catastrofe (Roma, Rogas, 2024, pp. 160) come le uniche in grado di garantire una comprensione critica della società attuale. In questa fortunata unione di due delle intelligenze più innovatrici della filosofia italiana contemporanea viene proposta quale chiave interpretativa del presente della globalizzazione neoliberale quella del compiersi del processo di universalizzazione del capitale, inteso come Übergreifende Subjekt, o “soggetto dominante”, della modernità, indagandone le conseguenze sul piano antropologico e culturale.
La liquidazione del marxismo degli anni Settanta
Al volume va anzitutto riconosciuto il merito di aver fatto chiarezza sulla modalità con cui a partire dagli anni Settanta sia avvenuto in Italia il processo di liquidazione della cultura filosofica marxista e la sua sostituzione con gli autori del pensiero negativo. Concretizzandosi nel passaggio dell’anticapitalismo dai moduli del pensiero storico-sociologico a quelli di ascendenza ontologico-teologica, questa vicenda viene osservata all’interno della più ampia svolta del pensiero occidentale scaturita dal ritorno a Parmenide di Heidegger e proseguita attraverso una serie di Filosofie e teorie dell’altro mondo, secondo l’espressione che dà il titolo al terzo capitolo. Il Grand Autre di Lacan, il Vuoto-Nulla di Agamben, l’operaismo teologico di Tronti, il poter-dire di Virno, filosofie assai di moda nelle accademie italiane degli ultimi anni, sarebbero a vario titolo eredi della riproposizione ontologica della categoria di Essere compiuta dalla rivoluzione conservatrice heideggeriana. Un passaggio reazionario osservato anzitutto nella riconcettualizzazione del significato di Essere da quello di necessità a quello di possibilità, che farebbe dell’essere umano il prodotto di un riferimento al futuro estraneo alla riproduzione biologica, storica e sociale della vita.
L’antropologia si fa così ontologia, perché la definizione dell’individuo come Dasein lo iscrive all’interno di un processo in cui il senso gli sarà sempre trascendente.
La debiologizzazione heideggeriana della vita viene riscontrata anche nella teoria psicanalitica di Lacan, il quale introducendo una separazione ontologica tra corpo e mente avrebbe proceduto a fare del primo il luogo del Non-Essere, mai mediabile dalle funzioni della seconda. La riduzione del corpo a nuda vita avrebbe come conseguenza quella dell’assunzione di una prospettiva non più interessata all’integrazione degli eterogenei quanto alla loro ipostatizzazione ed esclusione nella direzione di un rinnegamento del principio freudiano e junghiano dell’inclusività nello psichico delle alterità della dimensione orizzontale e verticale dell’esistenza. Un rigetto simile del pensiero dialettico è egualmente individuato in Agamben, autore di una radicalizzazione dell’Essere heideggeriano verso un’inquietante ontologia del Vuoto. Secondo gli autori, sul piano dell’interpretazione storica a tale ontologia si accompagnerebbe il modulo della funzione separante dell’intelletto in Hegel. È per questo che in Homo sacer la cultura occidentale è definita attraverso il meccanismo per cui un estremo si costituisce attraverso l’esclusione da sé dell’opposto. Un’interpretazione che, come viene adeguatamente sottolineato, è giustificata da Agamben in base a un’interpretazione arbitraria della Politica di Aristotele. Mentre nel testo aristotelico zoè e bios si presentano come funzioni diverse all’interno di uno stesso organismo sociale, presupponendo dunque una distinzione di funzioni tra oikonomia e politeia e non una loro esclusione reciproca, il filosofo del VuotoNulla le intende invece come realtà eterogenee e opposte, che possono giungere a definirsi solo attraverso la soppressione dell’una da parte dell’altra. Parmenide, dunque, più che Aristotele.
Ritorno al principio della trascendenza, rifiuto della dialettica e riproposizione del modulo logico dell’esclusione dell’alterità sono indicate come proprie anche della proposta di Tronti, che viene giudicata nei termini di una svolta verso la teologia rispetto alla sociologia critica del lavoro capitalistico del Panzieri dei Quaderni rossi. Se, infatti, contro l’interpretazione di matrice togliattiana del lavoro quale dignità anche all’interno della società capitalistica del boom economico e attraverso un concetto di tecnica come sistema macchina-forza lavoro desunta dal Capitale, Panzieri giungeva a fare dell’operaismo il centro della modernità e del controllo operaio il cardine di un nuovo progetto politico in contrapposizione al comunismo istituzionale, Tronti ritornerebbe ai moduli della teologia.
Presupponendo che la classe operaia sia classe per sé già nella sfera della circolazione prima che in quella della produzione, che sia soggetto operante al di fuori dei rapporti sociali, cioè in maniera immediata senza bisogno di un processo di costruzione organizzativa e ideologica, egli opererebbe una vera e propria «transustanziazione della materia in spirito» (p. 93). La forza-lavoro, da povertà assoluta, come la aveva intesa Marx, diviene immediatamente luogo della massima potenza storica. Una concezione trascendente della classe operaia che si salda con un respingimento del pensiero dialettico ispirato al marxismo scientista di Della Volpe. La relazione tra capitale e lavoro, in luogo di essere intesa come opposizione asimmetrica all’interno della quale uno dei due poli occupa la vita dell’altro, viene definita come relazione contraddittoria. Interna a un’opposizione simmetrica, la classe operaia diviene capace di contrapporsi immediatamente al capitale. È la manifestazione di una politica ridotta ai moduli dell’immediatezza, incapace di interpretare la realtà storica quale nesso di relazioni sistemiche e fondata sulla ripresa della logica schmittiana dell’amico-nemico. E questo nella convinzione, antihegeliana e già rifiutata da Gramsci, che il soggetto storico, nel suo essere presupposto e non posto, possa generare un nuovo mondo ex nihilo.
Esteriorizzazione della cultura e post-modernità
La proposta di interpretazione storica del volume si fonda su categorie filosofiche assai diverse da quelle appena ripercorse. A essere messa all’opera è anzitutto l’intuizione marxiana del capitale come valore in astratto e soggettività storica a tendenza universale, secondo una lettura di Marx alla quale Finelli ha dedicato gran parte della propria attività filosofica1. Nell’epoca dell’avvenuta globalizzazione dell’economia neoliberale quale quella che stiamo vivendo, in cui l’economia a base capitalistica si è estesa secondo maturità storiche diverse all’intero pianeta, il capitale raggiunge la concretezza del Geist hegeliano. In questo suo farsi mondo esso diverrebbe blocco storico reale e instaurerebbe una dialettica totalizzante dal livello dell’economia a quello della cultura. Svuotandolo dal di dentro e facendone mezzo del proprio tendenzialmente illimitato accrescimento quantitativo, trasformerebbe l’ambiente storico in proprio ambiente interno. Le attività umane, in questo senso, perderebbero le proprie autonome logiche interne compensando tale perdita con un processo di esteriorizzazione. Svuotata della propria concreta funzione di conoscenza critica e colonizzata dall’accumulazione dell’astratto, la cultura supplisce al proprio svuotamento con la valorizzazione della propria superficie. Così, se sul piano economico si assiste alla realizzazione di un’ipermodernità, su quello dell’etico-politico si verifica invece il passaggio alla postmodernità, il cui carattere più marcato è quello della reificazione linguistica, della quale sono indagate le origini profondamente heideggeriane. Da qui il diktat post-moderno secondo il quale la realtà non sarebbe costituita da nessi sistemici, da processi di costruzione identitaria, quanto da simboli e segni che non dipendono da altro che dall’arbitrio di chi interpreta. Una tesi che il volume riprende, innovandola, dal Jameson di Postmodernism2.
Colonizzata e resa mansueta dal capitale, la cultura finisce per ridursi a contemplazione estetica del presente. Ingannando se stessa e gli altri attraverso la seduzione di una parola priva di referente, essa rinuncia alla comprensione e trasformazione del mondo. Genera l’illusione di costituire uno spazio privo di conflitto, neutrale rispetto alle dinamiche egemoniche e costituito dal solo avvicendarsi di parole. Con ciò essa contribuisce alla «costruzione attiva di passività» e alla «servitù devota» (p. 48), come rimarcato da Gatto nel secondo capitolo del volume dedicato all’Antropologia della barbarie capitalistica3. L’ideologia dell’astrazione capitalistica coinciderebbe quindi con la produzione di soggetti che, nell’apparenza di uno sradicamento dalle determinazioni concrete e dai rapporti dialettici della storia, sono falsamente affrancati sul piano di affermazioni euforiche di verità autoreferenziali che forniscono la parvenza della possibilità di libere costruzioni del sé. In questa impossibilità di accedere alla dimensione verticale della storia (e come si dirà anche della propria sfera emozionale) nella quale si esercita il dominio dell’astrazione reale, il soggetto è richiuso in uno spazio orizzontale che ne determina, oltre che la passività, anche l’isolamento e la parzializzazione. Viene meno ogni possibilità di costruzione identitaria e si verifica una superfetazione di soggettivismi autoriferiti, di cui le filosofie cosiddette radicali costituiscono un altissimo esempio.
Il capitale come astrazione reale e il concetto di egemonia
Dissimulando se stesso nella dialettica interiorizzazione-esteriorizzazione, il processo di totalizzazione del capitale genera un’ideologia della parzializzazione, la cui funzione è quella di disinnescare ogni possibilità di una «contro-totalizzazione dialettica della parte» (p. 53). Si verifica così il paradosso per cui l’astrazione reale, nel proprio processo di totalizzazione, debba sul piano della filosofia procedere a La revoca della totalità, secondo il titolo del quarto capitolo redatto da Gatto. Il pensiero decostruzionista francese degli anni Settanta sarebbe, volente o nolente, uno dei principali veicoli di questa soppressione dell’idea di totalità come sistema reale e della sua sostituzione con transitorie costruzioni di insiemi intesi come sommatoria di singole parti senza relazioni. Sul piano politico l’astrazione capitalistica governa così un processo di culturalizzazione della politica, del quale Egemonia e strategia socialista di LaclauMouffe4 finisce per essere il manifesto più compiuto. Revisionando il concetto gramsciano di egemonia in direzione culturalista, vale a dire torcendo la critica del riduzionismo economico di ascendenza positivistica promossa dal comunista italiano verso un rigetto tout court della verticalità del nesso struttura-sovrastruttura, i due giungerebbero infatti a una definizione di classe come spazio politico costruito da lotte per l’egemonia culturale di soggetti transeunti e costruibili ad libitum. Si apre così la strada alla «soggettivizzazione della politica» (p. 116), che sul piano pratico-politico promuove il prevalere di logiche della frammentazione che finiscono per essere interne a un più ampio processo di de-totalizzazione amministrata dall’astrazione reale.
Uno dei capisaldi del volume è che il capitale come astrazione reale, nel proprio processo di totalizzazione, si fa fattore di impoverimento non solo delle attività sovrastrutturali ma anche delle soggettività singole. La peculiarità del capitalismo universale dell’epoca presente risiede infatti, secondo gli autori, nella realizzazione di un processo di astrazione che si dispiega su tre livelli. I primi due, espliciti già nel Max dei Grundrisse, consistono nella separazione della forza-lavoro dalla proprietà e dall’utilizzo dei mezzi di produzione, disciplinati dalla tecnologia capitalistica5. Il terzo, preso in considerazione da Marx solo en passant, si delinea invece come astrazione interiore e consiste nel fatto che l’attuale era tecnologica del capitale agisce, a differenza della precedente di tipo fordista, attraverso un’attivazione e disciplinamento della mente e una relativa rimozione del corpo. Ne deriva un’«antropologia della povertà, esteriore e interiore» (p. 131) che, disconosciuta dai marxismi della contraddizione, i quali hanno ritenuto la forzalavoro come luogo immediato della ricchezza assoluta, provvede a un processo di svuotamento dell’umanità sociale e anche individuale. In questo quadro risulta importante ritornare sulla nozione del soggetto storico-politico di Gramsci, il quale – pur all’interno di un marxismo senza Capitale ed estraneo alla comprensione della realtà concreta dell’astrazione capitalistica – aveva ben inteso, grazie al proprio retroterra hegeliano più che crociano, come tale soggetto non potesse essere presupposto ma posto, cioè costruito attraverso un processo politico-culturale.
L’infosfera, ultima ideologia
La terza astrazione definisce quindi il proprium del capitalismo del giorno d’oggi. Entrato nella fase di disciplinamento digitale della forza-lavoro, esso opera forme sempre più invasive di colonizzazione dell’esistenza umana estendendosi fino alla sfera della costruzione delle dimensioni interiori. Una tecnologia digitale che, non limitandosi alla costruzione di memorie e schede di lavoro ma amministrando capitalisticamente anche la vita extralavorativa attraverso reti di informazioni condivise anzitutto attraverso i social network, genera il fenomeno che Finelli definisce come «atrofia generalizzata della mente» (p. 133). Le origini di questo processo possono farsi risalire già alla fine degli anni Settanta con il venir meno dei movimenti anti-autoritari sprigionati dalla stagione del Sessantotto. Il neoliberismo, saldandosi con le nuove tecnologie di informazione, si dispiegherebbe cioè fin dall’inizio come costruzione di una mente orizzontale che, accumulando informazioni, immagini e configurazioni di senso, li propone ai soggetti quali mezzi per la costruzione di sé.
La conseguenza è che le menti singole finiscono per definire i propri valori per mimesi verso una mente esterna che li propone attraverso codici informatici e complessi sistemi algoritmici dei quali il singolo ignora il funzionamento. Ed ecco dunque che la concezione dell’infosfera, che celebra l’accumulazione, il calcolo e la trasmissione di informazioni come realizzazione di un mondo democraticamente unificato, si rivela essere «l’ultima ideologia» (p. 24) capitalistica. L’errore peculiare a questa concezione consiste, secondo gli autori, nell’indebita equiparazione tra informazione e interpretazione del mondo. Vale a dire che le nuove tecnologie digitali, basate sul linguaggio matematico di tipo binario, hanno la funzione di calcolare e comunicare significati ma non di interpretarli. Il codice, calcolato e comunicato dalla macchina informazionale, deve essere interpretato dal soggetto singolo nel suo specifico contesto. In questo senso il volume propone la tesi della irriducibile differenza tra mente umana e Intelligenza artificiale. Mentre la prima è parte di un organismo vivente rispetto al quale svolge la funzione di mantenimento della vita, la seconda associa informazioni, ne estrae statistiche, immagini e discorsi ma non a servizio della riproduzione di un corpo. La mente digitale, nonostante tutti i progressi di calcolo, non potrà mai eguagliare la mente biologica.
La terza astrazione capitalistica cui si è fatto riferimento mostra tuttavia la possibilità del movimento opposto, quello della trasformazione della mente biologica in mente digitale. Con la sua capacità di svuotare e superficializzare non solo l’ambiente sociale ma anche quello antropologico, il capitale a tendenza tecnologico-informatica può far sì che la mente umana si esteriorizzi sempre di più rispetto al luogo di costruzione del senso costituito dal corpo. Questa dinamica, secondo gli autori, è già in atto e si sta manifestando nella forma di una riduzione degli spazi della vita interiore e nella difficoltà, maggiore nelle nuove generazioni più esposte a questi processi attraverso un utilizzo ossessivo dei social network, di fare della propria interiorità emozionale il luogo del senso e della creatività intellettuale e morale del pensiero. Oltre alla catastrofe geopolitica ed ecologica, il processo di accumulazione di ricchezza astratta ne produce così una terza, quella della «catastrofe antropologica della mente» (p. 7). Oggi, a essere in questione non sarebbe più la censura o autocensura che la soggettività esercita sulla mente, ma la stessa nascita della mente come sistema per pensare i pensieri. Essa tende cioè a costruirsi sempre meno attraverso l’asse verticale di esistenza che sale dalle radici della vita emozionale del corpo. Il logos si esprime sempre più come logos disincarnato dal pathos. È una nuova sindrome psicopatologica dell’umanità quella sulla quale gli autori cercano di gettare luce. Dovuta alla capacità del capitale di produrre in massa soggettività astratte, essa viene esperita dai singoli nella forma di una sofferenza di indeterminatezza. Di una incapacità di radicamento nel proprio sé che coincide con l’incapacità di rimanere soli con sé stessi e di darsi progetti di vita a lungo termine6.
Un nuovo incontro marxismo-psicanalisi
L’individuazione e conoscenza critica dell’astrazione di terzo grado conduce a un deciso rinnovamento delle teorie di fuoriuscita dal capitale come sistema. Lungi dall’arrestarsi alla denuncia delle catastrofi prodotte dal capitale nella sua crescita distruttiva, il volume termina con la proposta di una teoria di emancipazione umana curvata verso un’antropologia politica che metta a tema l’«imperativo di una riattivazione di massa della verticalizzazione della mente» (p. 138). Un nuovo incontro tra marxismo critico e psicanalisi, definito nei termini di un nuovo umanesimo, radicale e psicoanalitico, teso a integrare la funzione emancipatoria delle pulsioni del corpo all’interno della teorizzazione di nuovi orizzonti societari. L’attenzione dunque è verso la teoria marcusiana della liberazione dell’Eros, il cui assorbimento all’interno del movimento anti-autoritario del Sessantotto ne ha dimostrato la capacità di sottrazione delle soggettività alla repressione e manipolazione capitalistica. Una teoria che, tuttavia, per essere tradotta in una efficace proposta politica, necessiterebbe secondo gli autori di essere ampliata anche agli ambiti della vita psichica costituiti da Thanatos.
Lo strumento privilegiato per un tale rinnovamento appare essere la psicoanalisi inglese di terza generazione, soprattutto nella forma assunta dall’opera di Wilfred R. Bion. Dello psicanalista è valorizzata anzitutto la teoria secondo la quale alla nascita del pensiero della mente singola è necessaria una seconda mente che, raccogliendo e metabolizzando i pensieri distruttivi evacuati sotto forma di oggetti dalla prima, li restituisca positivamente mitigati e modificati. Una teoria della mente al quadrato che chiarisce come ogni singola mente umana per potersi realizzare nella propria vita emozionale-corporale abbia bisogno di essere riconosciuta nella sua unicità. Si tratterebbe cioè di una vera e propria «dialettica del riconoscimento» (p. 140), che salda, mediandoli, i piani dell’esistenza intersoggettiva e intrasoggettiva.
La «coalescenza di un riconoscimento verticale e orizzontale» rinnova radicalmente i progetti politici di socializzazione integrandoli con la prospettiva di un’«etica socialistica a base psicanalitica» (p. 142). Vale a dire che la nuova psicopatologia di massa, provocata dall’astrazione di terzo grado, sollecita un ampliamento delle istanze politiche e un nuovo radicale concetto di istituzione sociale, che, insieme alla produzione di beni e servizi, sia anche e sempre istituzione fondata sulla pratica del riconoscimento. Che sia cioè istituzione messa a servizio della nascita e dello sviluppo delle soggettività individuali. Secondo gli autori, questa nuova idea di istituzione si mostra necessaria anzitutto nel mondo della scuola, che in Italia con le riforme degli ultimi anni è stata coinvolta in un processo di aziendalizzazione la quale ha significato la sua assimilazione al lavoro capitalistico. L’antropologia prodotta dalla scuola colonizzata dalla logica del capitale si esplica anzitutto nella tendenza a ridurre la propria costruzione di sé alle competenze da vendere nel mondo del lavoro. Da qui l’utopia di una scuola che sia scuola del conoscere e del riconoscere, secondo il Manifesto utopico di Finelli che compare in Appendice7. Una scuola che sia fondata sulla nozione di libertà fornita dalla psicanalisi, la quale, ai concetti liberali e socialistici aggiunge quello di libertà come libero accesso «al proprio mondo emozionale e interiore con un grado minimo di autorepressione» (p. 145), secondo le parole che chiudono il volume.
Quella che viene proposta in questo libro e della quale si è cercato di esporre le linee generali è una nuova e radicale chiave di lettura del capitalismo contemporaneo e delle possibili direzioni antropologico-politiche e culturali-politiche con cui fuoriuscirne. Essa, nella sua originalità, sollecita in maniera urgente un serio confronto con i concetti del marxismo dell’astrazione e delle nuove teorie psicoanalitiche, che a oggi in Italia ancora manca. Un confronto che il pensiero filosofico potrà avviare in maniera proficua solo a patto di oltrepassare i limitati spazi di conoscibilità che gli sono stati riservati e di rifiutare quella falsa dote di neutralità con la quale è stato lusingato e ammaestrato. Cioè solo a patto di farsi pensiero critico della società presente, quella del capitalismo entrato nella sua fase catastrofica di capitalismo universale.