Palestina: dall'abisso dell'oblio alla vetta del mondo
di Nicola Casale
La pace sottoscritta in pompa magna a Sharm el Sheik non risolve alcuno dei problemi di stabilità dell’Asia Occidentale, ma fonda le premesse per nuovi devastanti sconvolgimenti. (1)
Per esaminare i possibili sviluppi è necessario, tuttavia, ricostruire come ci si è arrivati.
Il Diluvio di Al Aqsa è stata un’operazione militare dettata dall’urgenza di incrinare il totale abbandono dei palestinesi nelle mani di Israele, cresciuto nei decenni precedenti e a cui l’imminente conclusione degli Accordi di Abramo stava per imprimere la definitiva sanzione. Gli obiettivi politici dell’operazione erano: dimostrare che la resistenza palestinese è viva e forte, che Israele non è invincibile, che la prigione oppressiva di Gaza poteva essere scardinata. Quello immediato era la presa di ostaggi da scambiare con gli ostaggi palestinesi nelle carceri israeliane.
Il successo dell’operazione, come noto, è stato clamoroso. La leggendaria deterrenza di Israele, il mito della sua schiacciante potenza militare, nonché la presunta capacità di controllo e sorveglianza totale, frutto della sua celebrata superiorità tecnologica, sono state sbriciolate. Il panico ha colpito la società israeliana a tutti i livelli, e analogo panico si è diffuso in tutti i governi occidentali per conto dei quali Israele fa il lavoro sporco nella regione.
La superiorità di Israele sotto ogni punto di vista, soprattutto militare, andava immediatamente ripristinata. Essa, infatti, è decisiva sia per Israele nei confronti dei palestinesi sia per i suoi sponsor per conservare il dominio incontrastato sull’Asia Occidentale, snodo geopolitico fondamentale, cornucopia di risorse energetiche e di rendite finanziarie indispensabili per l’economia, la finanza e gli stati imperialisti.
Un’impressionante campagna politica e mediatica ha immediatamente invaso tutto il mondo. Con essa si negava che il 7 ottobre fosse stato un atto di resistenza di un popolo sottomesso all’occupazione di una potenza estranea, ma che si fosse trattato di un pogrom con l’unico intento anti-semita di sterminare gli israeliani in quanto ebrei.
A quelli con qualche sensibilità pacifista si offriva, in aggiunta o in alternativa, la tesi che si trattasse di puro terrorismo, impotente e anzi dannoso per la causa palestinese. Ai sinistrati più estremi si offriva la tesi dell’islamismo reazionario di Hamas o della sua natura borghese.
Inutile aggiungere che tutte le prede hanno abboccato ai vari ami, e ciò ha conferito a Israele la piena legittimità di rispondere nel modo più distruttivo possibile. Israele si è ritrovato, perciò, con una finestra di succosa opportunità. Ovviamente, tutti erano convinti, sulla base delle incrollabili mitologie sulla sua indiscutibile superiorità, che entro poco tempo la questione di Gaza e della resistenza sarebbe stata sistemata. Invece, Israele si è trovato davanti a una serie di impreviste difficoltà.
Innanzitutto è entrato in gioco l’Asse della Resistenza. Hezbollah, milizie irachene, e Yemen hanno portato un concreto sostegno armato alla resistenza di Gaza. Nuovi fronti sono stati aperti, Israele ha dovuto disperdervi le forze e nuovo panico e incertezza si sono diffusi al suo interno. Hezbollah e milizie irachene sono, poi, uscite dallo scontro, dopo aver subito dei colpi piuttosto duri, ma non certo una sconfitta tale da metterle definitivamente fuori gioco. Intanto, però, i tempi si erano prolungati. Per sconfiggere l’Asse, Israele ha alzato il tiro contro la testa del serpente-resistenza, l’Iran, anche con un conflitto di 12 giorni in cui ha subìto più danni materiali di quanti ne abbia inferti ed è stato costretto a chiedere l’intervento diretto degli Usa. Questo c’è stato, ma non per incrementare davvero i danni all’Iran, bensì per imbastire una pantomima che ha portato a un cessate il fuoco che ha accontentato tutte le parti. Intanto i missili iraniani su Israele hanno infiammato gli animi dei palestinesi e rinforzato la determinazione a resistere.
A Gaza è stato subito evidente che eliminare la resistenza non sarebbe stata una veloce passeggiata. Così Israele ha messo in atto la tattica militare di terrorizzare l’intero popolo, con devastazioni generalizzate di ogni struttura sociale e privata, assassini di massa quotidiani, embargo a medicine, cibo e acqua. L’obiettivo principe era indurre i palestinesi a evacuare Gaza, in subordine alla resa e alla rivolta contro la resistenza armata. Nessuno dei due è stato raggiunto. Ciò ha messo in rilievo la capacità di resistenza dei palestinesi, in quanto popolo, a non abbandonare le proprie terre e a non arrendersi. E anche la preparazione e capacità di tenuta della resistenza armata. Le due cose sono strettamente intrecciate. Chi si esalta per la sola resistenza armata, per lo più, non valuta l’importanza di quella del popolo. L’una alimenta e supporta l’altra. Solo insieme hanno potuto prolungare le difficoltà di Israele a conseguire la vittoria totale. Anzi, finora, nessuno degli obiettivi militari di Israele è stato raggiunto (liberazione con la forza degli ostaggi, sradicamento della resistenza, assunzione del pieno controllo sull’intera Striscia, evacuazione forzata).
Parentesi. Ciò che permette al popolo palestinese di resistere, da un secolo, alla potenza distruttiva di Israele, è un radicato attaccamento alla vita. In cui la vita non è intesa come mera sopravvivenza fisica ma nel suo aspetto più profondo di vita relazionale e sociale che si possa estrinsecare liberamente, senza alcuna oppressione estranea. Fino al punto che per lottare per la vera vita si mette in gioco anche la mera sopravvivenza, ciò che, nella sproporzione di forze militari, diventa un atto di perseveranza alla resistenza collettiva per la vera vita. Per l’insieme dell’Occidente questo risulta disturbante, perché mette in discussione i capisaldi dell’attuale tenuta socio-politica, secondo cui si può accettare qualunque misura del potere costituito purché se ne abbia in cambio la sopravvivenza fisica, contornata dalla conservazione di un sempre più relativo benessere, con relazioni sociali sempre più virtuali e sempre meno libere. Non per caso, dinanzi alla paura spropositatamente mediatizzata, di perdere la sopravvivenza a causa di un virus, sono state accettate tutte le misure che negavano ogni libertà e persino la rinuncia alle più elementari relazioni sociali e affettive, come assistere i parenti in procinto di morte, o celebrare il lutto. Chiusa.
Guerra di logoramento
La resistenza palestinese non si pone l’obiettivo di sconfiggere militarmente Israele, e anche l’Asse è consapevole che ciò è molto problematico. Non perché impossibile in sé, ma perché sicuramente gli sponsor di Israele interverrebbero direttamente in sua difesa, con il rischio di una precipitazione della regione in un conflitto generalizzato e, tendenzialmente, persino mondiale. Senza dimenticare, peraltro, che Israele possiede ordigni nucleari e non si farebbe scrupoli di sorta a utilizzarli in caso di necessità.
Ciò comporta inevitabilmente una strategia di lungo termine in cui riveste un ruolo decisivo la resistenza. Ossia quale delle due parti in campo è in grado di resistere un minuto di più (non solo sul piano militare), e quale invece si espone per prima al logoramento.
La resistenza palestinese, di popolo e armata, ha impedito a Israele la vittoria totale entro la finestra di opportunità aperta con la campagna mediatica sul 7 ottobre, e il sostegno internazionale a Israele si è invertito. Una gigantesca onda mondiale di riprovazione popolare per il genocidio è cresciuta ben oltre i confini arabo-islamici. La riprovazione non era solo per gli eccessi nel presunto diritto di autodifesa, né solo per il fascista Netanyahu, ma per tutta Israele (e con una chiara distinzione tra Israele ed ebrei, favorita anche dalla presenza visibile di tanti ebrei contrari a Israele), senza se e senza ma. Al punto che anche nelle metropoli la legittimità stessa di Israele veniva sempre più messa in discussione. Palestina libera dal fiume al mare è stato lo slogan più gridato, in quanto esprime un alto livello di empatia con le sofferenze e le rivendicazioni dei palestinesi, ma è divenuto chiaro a molti che non è un semplice slogan, ma un programma politico, per l’auto-determinazione nazionale dei palestinesi su tutta la Palestina storica.
La ripulsa per Israele e il sostegno alla Palestina, mai come ora, sono state trasversali agli schieramenti politici e a tutte le classi sociali. È stata innescata da una forte ri-emersione di umanità e umanitarismo. Non si poteva restare più ciechi e sordi davanti a una barbarie in diretta televisiva e social. I palestinesi sono stati visti come fratelli umani oppressi e violentati da una macchina genocidaria ben oliata, appoggiata dalle potenze occidentali, in piena operatività da ben prima del 7 ottobre. Vi ha contribuito un misto di indignazione e di paura: se il mondo attuale consente tale barbarie contro i palestinesi cosa dà garanzia che in futuro analoga barbarie non possa toccare anche ad altri e a noi stessi? Il profondo sentimento umano, per lo più, non è rimasto confinato ai soliti riti pacifisti e di umanitarismo un tot al chilo, ma è trasbordato sul piano politico: contro Israele e i governi che lo sostengono, e in appoggio alla resistenza di un intero popolo. Ciò ha creato evidenti problemi alle potenze filo-Israele, che hanno, prima, preso deboli distanze dagli eccessi di Israele e, alla fine, si sono orientate a riconoscere lo Stato dei palestinesi. Un modo di andare incontro alle piazze, ma, al contempo, di cercare di deviarle nel salvataggio di Israele come potenza occupante.
La Flottiglia. Scopi e risultati
L’irrompere sulla scena della Flottiglia ha smosso ulteriormente le acque.
Premessa. Il progetto Flottiglia è chiaramente maturato nell’ambiente sorosiano. Soros rappresenta quei globalisti che mal sopportano Israele, ai loro occhi un nazionalismo estremo che rischia di suscitare, anche per reazione, analoghi nazionalismi in altri paesi, minando i progetti globalisti di apertura del mondo ai capitali occidentali e al traffico di migranti, che indebolisce politicamente e socialmente i paesi di partenza e fornisce ai paesi di arrivo manodopera ricattabile per comprimere i livelli salariali complessivi. Tra globalisti a là Soros e anti-globalisti a là Trump c’è piena condivisione dell’obiettivo: mantenere il mondo sottomesso allo sfruttamento imperialistico del grande capitale trans-nazionale (a guida essenzialmente Usa). Mentre c’è scontro su come perseguirlo, soprattutto oggi, dopo che i globalisti hanno sbattuto il muso contro la resistenza della Russia a farsi disgregare (iniziata nei ’90 e proseguita con il Maidan). Quanto a Israele tali globalisti non preconizzano la scomparsa, ma un ruolo meno aggressivo in una regione che rimanga, per intero, sotto il controllo del grande capitale.
Ciò premesso, la Flottiglia era un tentativo di sospingere la protesta su un piano essenzialmente umanitaristico, espungere le istanze più radicali contro Israele che stavano emergendo potentemente, dirottare l’attenzione sui nostri eroi in viaggio piuttosto che sugli eroici palestinesi resistenti. Le opposizioni italiane se ne sono appropriate anche per dirottare le critiche al solo Netanyhau, ai suoi eccessi, al suo essere fascista (come se la storia degli orrori di colonialismo e imperialismo si possa ridurre ai fascisti o ai nazisti, e non a un’interminabile sequela di orrori di stati democratici). In più ci hanno aggiunto lo stucchevole teatrino politico-elettorale contro la complicità della fascista Meloni, nascondendo sotto il tappeto la coltivazione dei rapporti con Israele di cui tutti i governi, destra, sinistra e tecnici sono stati artefici.
La vicenda ha avuto un impatto rilevante quasi esclusivamente in Italia. Altrove la mobilitazione era già cresciuta e non è stata influenzata molto dalla Flottiglia. In Italia ha suscitato una forte impennata, innescata forse proprio dalla partecipazione dei nostri eroi, ma il tentativo di dirottamento politico è sostanzialmente fallito. L’invito a bloccare tutto in difesa della Flottiglia dei portuali di Genova è stato preso molto sul serio da una moltitudine che ha riempito le piazze ed effettuato blocchi simbolici, senza rinunciare allo slogan Palestina Libera e, anzi, delineando l’obiettivo indispensabile per fermare Israele: sottoporlo a un embargo totale da parte di tutto il mondo. Neanche l’adesione all’ultima ora della Cgil è riuscita a fermare questo moto, anzi ne è rimasta sostanzialmente ai margini, se non travolta.
Questo segnale di tenuta politica e di ulteriore crescita della mobilitazione proveniente dall’Italia è stato indubbiamente registrato da tutti i governi europei, acuendo la necessità di ottenere in fretta una qualche tregua, almeno momentanea, con qualche briciola di riconoscimento per i palestinesi.
America First o Israel First?
Il moto di condanna di Israele non ha riguardato solo le potenze imperialiste europee, ma è giunto in profondità anche negli Usa. Qui, la presenza in piazza contro Israele ha riguardato, all’inizio, gli universitari, immediatamente sedati con ricatti d’ogni tipo e persino espulsioni. La continuità in piazza è rimasta quasi del tutto sulle spalle degli ebrei anti-sionisti. Ma, lontano dalle piazze, è maturato un fenomeno molto importante per gli esiti successivi. Infatti, hanno preso le distanze da Israele un sempre maggiore numero di ebrei, ma anche un numero crescente di sostenitori del Maga e di Trump, tra i quali è emersa la tesi che Trump non sia America First!, ma Israel First! Anche sull’omicidio di Charlie Kirk circolano tesi (forse non del tutto infondate) che andava eliminato avendo avviato un processo di presa di distanza da Israele. Inoltre anche tra gli evangelisti sionisti (maggior gruppo a supporto di Israele negli Usa) sono emerse crepe, tra il sostegno immarcescibile a Israele degli anziani e la crescente riluttanza dei giovani a seguirli su questa strada.
Fuori e dentro gli Usa, insomma, stava crescendo uno tsunami di ripulsa e di isolamento di Israele, che, inoltre, stava coinvolgendo agli occhi di tutto il mondo anche gli Usa e le altre potenze. Anche il più imbecille dei politici (non Trump, quindi…) si rendeva conto che questo precipizio, per Israele e per sé stessi, andava fermato. A ciò si aggiunge anche la postura delle oligarchie arabe del Golfo. Queste odiano i palestinesi per il valore potenzialmente rivoluzionario della loro resistenza. Se, infatti, i palestinesi riuscissero a mettere in difficoltà Israele, tutti gli equilibri della regione salterebbero. Queste oligarchie sono state messe al potere dalle stesse potenze imperialiste che hanno insediato Israele in Palestina. Messa in discussione la legittimità di Israele, di quanto seguirebbe la messa in discussione della propria legittimità?
Perciò odiano i palestinesi e si augurano da sempre la loro sconfitta. Tuttavia, se esse odiano i palestinesi, i loro popoli odiano crescentemente Israele (anche quando è vietato manifestarlo in piazza!). Questa circostanza ha costretto anche loro a premere per la fine del genocidio. Altrimenti la loro legittimità rispetto ai propri popoli sarebbe crollata comunque.
Le premesse della tregua di Gaza vanno tenute nel massimo conto, perché tutto ciò che avverrà d’ora in poi non potrà che dipendere anche da esse, dalla loro tenuta e durata, dalla capacità di non disertare il terreno della mobilitazione, di non essere di nuovo sopite in interminabili trattative, e anche di evitare di essere deviate contro la resistenza, magari con le tante false flag in cui Israele è maestro.
Diamo, ora, un rapido sguardo alle forze in campo dopo l’avvento di questa tregua.
Israele e sponsor vari
Per quanti trionfalismi di vittoria in stile hollywoodiano possa sceneggiare in compagnia di Trump, sul piano militare il bilancio di Israele è piuttosto magro. La guerra più lunga della sua storia è stata combattuta contro formazioni non-statali di resistenza e Israele non l’ha vinta nel modo bruciante ed evidente delle precedenti (del pari nei 12 giorni di guerra con l’Iran). Può ricorrere allo spettacolo di vittoria, non a una realtà evidente e innegabile. Non c’è dubbio che avrebbe necessità impellente di riprendere il genocidio a Gaza per evacuare i palestinesi o costringerli alla resa. Così come avrebbe urgente bisogno di confermare la sua tendenza all’espansione acquisendo nuovi territori in Cisgiordania. Una o entrambe queste mosse potrebbero essere messe in atto, ma il momento è ancora troppo caldo, sul piano della mobilitazione mondiale di massa, per non rischiare di pagare prezzi politici ancora maggiori. Anche i suoi sponsor, e le monarchie del Golfo, si troverebbero, oggi, in grandi ambasce.
Da un lato Israele deve ricostruire il consenso internazionale disperso (assieme alla superiorità morale rivendicata in nome dell’Olocausto, divenuta ormai insufficiente per proteggerlo da critiche mentre infligge, a sua volta, un genocidio e una pulizia etnica), e investe soldi a gogò nei social. Ma come il 7 ottobre ha dimostrato, la validità delle campagne mediatiche è sottoposta a inevitabili limiti. Non si può ottenere di negare per sempre la realtà. Prima o poi essa si impone anche contro le più sofisticate manipolazioni.
Tuttavia, non c’è alcun dubbio che Israele continuerà a fare il cane pazzo incontrollabile contro palestinesi, Libano, Yemen, Siria. D’altronde, Israele si regge ormai sull’egemonia di un blocco socio-politico-religioso dai caratteri messianici, che non può rinunciare a un continuo espansionismo, che comporta una guerra permanente, e il genocidio di Gaza ha dimostrato che sul punto specifico, massacrare palestinesi, libanesi, siriani, yemeniti, iraniani, questo blocco ha avuto un consenso bulgaro nella società israeliana. Se la guerra permanente si fermasse, Israele rischierebbe di precipitare in una crisi interna, suscettibile di divenire una vera e propria guerra civile, soprattutto ora che si sono aggiunte (anche qui, per merito della resistenza palestinese e dell’Asse) difficoltà di ogni natura (economiche, sociali, militari, psichiche, ecc.). Il Sionismo finirebbe con l’impattare contro tutte le contraddizioni di un progetto che disegna la libertà e l’auto-determinazione di un popolo, privandone, con l’oppressione terroristica, i popoli residenti e limitrofi. Diversi israeliani stanno già votando con i piedi, abbandonano Israele o rifiutano le chiamate sotto le armi…
Sul disarmo di Hamas e dell’Asse, non di meno, Israele trova il consenso tanto delle potenze imperialistiche che delle monarchie arabe (nonché di tanti pacifisti occidentali che, senza dare appoggio esplicito a Israele, ne supporterebbero indirettamente le motivazioni… incolpando, appunto, la resistenza di essere armata). E quasi sicuramente questo sarà il leitmotiv per riprendere l’aggressione contro Gaza e tutte le altre resistenze. Questo, come detto, nel quadro mondiale attuale, tuttavia, non è di immediata attuazione perché comporterebbe costi politici molto alti per Israele e alleati di ogni natura.
Dall’altro lato deve, perciò, ricostruire la sua centralità nella regione, a servizio delle potenze imperialiste, e riconquistare consenso nelle opinioni pubbliche almeno occidentali, dando prova di combattere anche nel loro interesse. E qui, l’obiettivo è già dichiarato da tempo: l’Iran. Su questo paese si concentrano gli interessi occidentali, in quanto costituisce un’insopportabile eccezione nella regione: ha la pretesa di impiegare la rendita petrolifera per finanziare il proprio sviluppo e non le Borse e le multinazionali occidentali (con tutte le contraddizioni e i limiti che lo stato può avere in merito, e senza dimenticare che è sotto sanzioni ininterrottamente da 46 anni). Si concentrano le attenzioni negative delle dinastie del Golfo, essendo l’Iran stato un esempio rivoluzionario del rovesciamento della propria oligarchia, lo Shah, imposta da Usa e Gran Bretagna. Si concentrano le attenzioni negative delle potenze imperialistiche preoccupate che l’Iran possa rinforzare il suo autonomo sviluppo appoggiandosi su Russia e Cina. Per finire ha scarse simpatie in Occidente, soprattutto tra i difensori dei diritti delle donne, che sono perennemente mobilitati contro il velo iraniano, mentre non denunciano, manco per sbaglio, la deriva occidentale di oppressione delle donne, trasformate ormai in puro oggetto di consumo erotico, cui si contesta persino il nome (persona con utero…) mentre le si vuole sottomettere anche alla violenza dell’utero in affitto (chiamato, orwellianamente, libertà).
L’obiettivo-Iran, perciò, sembra rivestire tutte le caratteristiche per restituire centralità a Israele, e, infatti, Germania, Francia e Gran Bretagna hanno già invocato lo snapback, ossia il ripristino delle sanzioni per l’accordo sul nucleare che l’Iran ha continuato a rispettare per anni, nonostante gli Usa ne fossero usciti e i paesi europei non avessero mai ritirato le loro sanzioni. Somma ipocrisia, ma base di una ritrovata aggressività collettiva, con Israele al centro. Nel qual caso, sotto la distrazione di una guerra maggiore, Israele potrebbe anche riprendere il genocidio a Gaza senza che vi sia concentrata l’attenzione mondiale.
Anche su questo scenario gravano, non di meno, alcune incognite. Se le oligarchie del Golfo vedrebbero con sommo piacere l’indebolimento dell’Iran, dall’altro sono spaventate dal fatto che l’Iran appare ormai in grado di resistere con molta efficacia, e, di conseguenza, la veloce vittoria promessa da Israele si potrebbe trasformare in una prolungata guerra che minaccerebbe la stabilità di tutta la regione, e anche la loro tenuta interna. E, infatti, l’Arabia Saudita non si è sottratta a mettere un piede anche nella staffa offerta dalla Cina di stabilità regionale con coesistenza pacifica e non con guerre. Partita complicata dalla necessità imperialista di chiudere ogni accesso alla regione a Cina e Russia, ma andremmo troppo lontano…
Sta di fatto che i prodromi di nuove guerre sono tutti in caldo, anzi persino alimentati dallo stop a Gaza. Non di meno mentre per Israele c’è l’urgenza vitale di riprendere subito la guerra permanente, per le potenze sponsor e gli eventuali alleati del Golfo, per ragioni di cautela nell’attuale quadro mondiale di ripulsa popolare di Israele, la fretta potrebbe essere causa di danni rilevanti.
Palestina
La resistenza palestinese e dell’Asse può legittimamente rivendicare il conseguimento di alcuni obiettivi, fino al 6 ottobre 23, apparentemente impensabili: Israele ha perso la sua deterrenza militare, le sue forze militari sono uscite complessivamente malconce dalla lunga guerra (e anche con il crescente rifiuto al combattimento di numerosi riservisti), all’interno della società israeliana sono cresciuti il disagio, l’incertezza e la coesione sociale comincia a risentirne, il principio del sionismo che conferisce a un solo gruppo della popolazione il potere di escludere e opprimere tutti gli altri, ha subìto un manifesto rifiuto da parte dei popoli di tutto il mondo. La Palestina cancellata dall’agenda politica prima del 7 ottobre si è imposta al centro della scena mondiale, con un valore politico che va oltre la sola problematica locale (punto essenziale che non è possibile approfondire in questa sede). Israele rischia, insomma, di perdere miseramente il consenso mondiale su cui aveva fondato, per circa 80 anni, la sottomissione dei palestinesi. Obiettivi raggiunti a un prezzo altissimo. Non c’è dubbio. Ma il prezzo va commisurato non in raffronto alle vite perse e alle distruzioni subite, ma se queste hanno spostato in avanti o no la lotta del popolo palestinese per la vera vita e contro l’oppressione e quali, e quanti, costi abbia dovuto (e deve) pagare anche l’avversario.
L’attuale tregua che ferma almeno il genocidio in corso può essere salutata dai palestinesi come una vittoria, piccola, ma suscettibile di avviare un rilancio della resistenza più complessiva all’oppressione coloniale-imperialista. Inoltre, è stata ottenuta grazie a un sostegno internazionale strabordante, che offre, a sua volta, la plausibile possibilità di ulteriore sostegno per il prosieguo della lotta.
Se da un punto di vista politico generale la resistenza può rivendicare questo tipo di vittoria, da un punto di vista pratico e di prospettiva le incertezze dominano. A partire dai meriti della tregua, sequestrati da Trump & soci proprio per cancellare i meriti della resistenza palestinese e del supporto internazionale. Ma, anche, la tenuta della tregua è del tutto precaria. Non c’è dubbio che la pressione Usa-Israele per il disarmo della resistenza si farà incalzante, sia pure con l’incertezza rispetto al momento in cui ripartire all’attacco: subito per Israele, tra un po’ per gli Usa, quando cioè si sarà riusciti a far sbollire la ripulsa di Israele nei popoli almeno occidentali. Che la resistenza possa rinunciare alle armi è, ovviamente, escluso, almeno fin quando non ci fosse un’amministrazione di Gaza pienamente sotto il controllo palestinese e protetta da ogni tipo di ingerenza israeliana e/od occidentale. E su questo si gioca un altro aspetto importante. Trump e i sostenitori occidentali dei due stati, vogliono conservare il dominio coloniale su Gaza, assumendolo in proprio, in combutta con Israele, e, perciò, negano ai palestinesi la libertà di governarsi in piena autonomia e sovranità persino a Gaza. Ma, se non si trova un accordo che soddisfi i palestinesi, sarà inevitabile procedere al disarmo con la forza. Israele è pronto a farlo (o almeno a riprovarci subito, cioè, in realtà, a completare lo sterminio totale dei gazawi o la loro espulsione). In alternativa se ne dovrebbero incaricare altre forze internazionali. Quali paesi, compresi gli Usa, si impegolerebbero a disarmare direttamente una realtà che ha dimostrato una grande capacità resistente?
Ma anche ammesso che la tregua tenga e la resistenza riesca a conservare le sue armi (Trump alterna sul punto toni concilianti con quelli aggressivi) rimane il problema fondamentale della sovranità sulla Striscia anche riguardo alla ricostruzione. La resistenza (con l’appoggio di Russia e Cina) persegue, inizialmente, un governo tecnocratico di palestinesi nella formula di unità nazionale, in cui dovrebbero essere pienamente inclusi tutti i gruppi della resistenza, e, successivamente un governo eletto democraticamente da tutti i palestinesi. Usa e vassalli europei desiderano un’autorità sotto il loro controllo e, in seguito, il governo di un ANP riformata, resa, cioè, più feroce ed efficace contro la resistenza.
L’attuale precaria tregua è stato il risultato della congiunzione della resistenza palestinese con un movimento internazionale di supporto. Ha portato almeno un temporaneo sollievo alle sofferenze dei gazawi, e la resistenza può legittimamente rivendicarla come una sostanziale vittoria, che non risolve il dramma palestinese, ma può aprire spiragli seri di un avvio per la soluzione duratura della Palestina Libera, così come può, effettivamente, segnare l’inizio della parabola discendente di Israele (il che, naturalmente, produrrà al suo interno una maggiore rabbia contro arabi e persiani, ma che rischia, prima o poi, di esplodere tra gli israeliani stessi). Ma, nella fase di trattative che ora si apre ancora una volta la tenuta della resistenza dell’intero popolo e di quella armata sarà decisiva per opporsi alla caterva di pressioni, aggressioni, ricatti, circonlocuzioni, tentativi di corruzione, ecc. E sarebbe decisivo, oggi, come nei mesi precedenti, un vasto sostegno mondiale al popolo palestinese per ottenere condizioni di tregua dignitose a Gaza, in grado di rilanciare anche la sua lotta generale per la Palestina Libera.
Ci sarà il supporto internazionale necessario?
Dopo l’esplosione di mobilitazioni popolari, e la concreta utilità dimostrata da esse nel pesare negli equilibri in Palestina, da più parti ci si chiede se ciò possa dare una spinta a ritrovare fiducia nel conflitto collettivo anche su tante altre questioni di ordine interno e/o internazionale. Non è argomento sviluppabile in questa sede, ma sta per certo che un immediato banco di prova è offerto dalla questione palestinese stessa: riuscirà la mobilitazione a dare continuità al sostegno ai palestinesi in questi frangenti di tregua precaria per renderla reale e concludere un accordo vantaggioso per i palestinesi? La mobilitazione è stata indispensabile per imporre la tregua e può avere un peso enorme nel determinarne il consolidamento e il suo contenuto. In quanti torneranno agli affari propri per il semplice fatto di non assistere a massicci orrori quotidiani?







































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